È certamente un fatto politico il clamoroso fallimento del progetto della Superlega europea: dodici top club europei – savebbero dovuti diventare 15 – più cinque “wild cards”, con l’idea di costruire un torneo “chiuso”. Sempre le stesse squadre, più le cinque invitate sulla base di non precisate caratteristiche di “merito”.
Il presidente del Real Madrid, Florentino Perez, a capo della nuova Lega, Andrea Agnelli (Juventus) vicepresidente. Arsenal, Manchester United, Manchester City, Chelsea, Liverpool, Tottenham, Real Madrid, Atletico Madrid, Barcellona, Juventus, Inter e Milan: queste le dodici “nobili blasonate”, cui avrebbero dovuto aggiungersi due team francesi ed uno tedesco.
L’obiettivo era quello di creare un torneo continentale sul modello dell’Eurolega di basket, o meglio ancora su quello dell’NBA americana. Show e business: ed infatti la ricaduta economica prevista era enorme, il triplo di quella che oggi assicura la Champion’s League.
Un progetto centrato esclusivamente sulla massimizzazione dei ricavi, che probabilmente avrebbe dovuto essere lanciato più in là. Ma la crisi economica innescata dalla pandemia di coronavirus ha stravolto tutto, dettando tempistiche e agende. Bisognava anticipare, anche perché la Uefa aveva deciso di presentare la riforma della Champion’s League proprio in questi giorni. E quindi nella notte tra il 18 ed il 19 aprile è esplosa la bomba: 12 top club europei si fanno la loro Lega, tanti saluti all’Uefa.
In realtà non era esattamente così: se si vanno a leggere i comunicati delle squadre interessate si capisce chiaramente che il progetto è in fase embrionale, e che non è realisticamente possibile immaginare se, come e quando realmente sarebbe dovuto partire. Anche se, ovviamente, le dichiarazioni sono minacciose: “Possiamo partire ad agosto”, “Partiremo nel 2022”.
Veemente, quasi smodata la reazione dell’Uefa: con il presidente, Ceferin, che dà del “bugiardo” ad Andrea Agnelli e che minaccia di cacciare dalle competizioni europee le squadre ribelli.
All’Uefa si associa la Fifa (si, quelli che hanno voluto organizzare un mondiale d’inverno in Qatar...) e le Leghe Nazionali. Si è arrivati addirittura a minacciare le squadre che aderiscono alla SuperLega di essere cancellate dai campionati nazionali.
Ad opporsi sono anche i governi nazionali: il più netto (anche perché il 50% dei club della SuperLega sono inglesi) è stato Boris Johnson: “Farò di tutto perché il progetto fallisca“. Troppo importante, per il premier britannico, garantire l’integrità della Premier League, enorme business e strumento di propaganda della “grandezza britannica” post Brexit.
Ad opporsi anche, naturalmente, tifosi, calciatori ed allenatori: una lega privata, non meritocratica, in cui si sfidano sostanzialmente sempre le stesse squadre e pensata solo per il business è troppo lontana dall’immaginario di valori e simboli che rendono il calcio attraente ed emozionante. Anche se, ad onor del vero, gli stessi tifosi sono contenti quando il loro team annuncia l’acquisto di un grande calciatore. Come anche atleti ed allenatori sono altrettanto lieti di firmare contratti milionari.
Perchè il problema reale è che il sistema calcio, in crisi prima del Covid, è sull’orlo del tracollo. Servono interventi drastici di fair play finanziario vero (non la pagliacciata fino ad oggi applicata dall’Uefa), servirebbe un abbassamento dei costi, un tetto salariale: ma chi porterà avanti queste politiche, che andrebbero di fatto a ridimensionare l’appetibilità del prodotto calcio?
La cosa che però maggiormente colpisce è stata l’assoluta fragilità del progetto: nonostante la presenza di imprenditori e gruppi finanziari di livello mondiale (tutti i 12 top club appartengono ovviamente all’èlite della finanza internazionale), e nonostante il sostegno dichiarato di una enorme banca d’affari come JPMorgan, sono bastati due giorni di turbolenze per far crollare tutto.
Una figura ignobile per personaggi assolutamente di primo piano come il presidente del Real Madrid, Florentino Perez, o quello della Juventus Andrea Agnelli.
Un tentativo talmente goffo e mal riuscito da apparire il disperato tentativo di chi è veramente alla canna del gas. Il che può essere in parte vero: gli indebitamenti ed i passivi di bilancio delle società coinvolte sono enormi.
Ma c’è anche dell’altro. Una sorta di arrogante ed arruffona incapacità che caratterizza in modo sempre più evidente le classi dirigenti: italiane, europee, mondiali. Un capitalismo aggressivo, disperato ed incompetente che rischia davvero di far crollare tutto. Non solo il calcio: parliamo dell’economia globale. Perché quello che è successo al calcio in queste 48 ore è solo una minima parte del disastro in corso.
E allora è il caso di vedere cosa c’è alla base di questo disastro.
È evidente che c’è stato un errore clamoroso ci calcolo. I “dodici” hanno sopravvalutato la propria forza, confidando tutto sui miliardi promessi da JpMorgan e altri fondi di investimento Usa e sauditi (ma non sono stati resi noti i nomi).
Il peso preponderante dei club inglesi (6 su dodici) e la fonte dei finanziamenti rivela però anche una partita geopolitica più complessa. A credere nella possibilità di privare l’Europa dei sui club migliori sono state società calcistiche da tempo possedute da fondi Usa, cinesi, arabi, uno persino russo (il Chelsea di Abramovic), per quanto oramai fuori da quel paese. Oppure club spagnoli con i conti devastati.
Colpiva a prima vista l’assenza delle “grandi” francesi e tedesche (Paris Saint Germain, Bayern, Borussia, Marsiglia), come anche dell’olandese Ajax.
Ma il calcio è un’industria che porta consensi politici, oltre che – a volte – profitti. E per il precario equilibrio europeo, sotto stress per la pandemia e una politica di austerity che moltiplica danni e disuguaglianze, era magari importante mantenere quel qualcosa su cui si può agevolmente dirottare il malessere per trasformarlo in consenso – come nella leggenda di Bartali vincente al Tour, che avrebbe fermato l’insurrezione dopo l’attentato a Togliatti, per dirne una.
Da questo punto di osservazione, la vicenda della SuperLega sembra un episodio di “competizione” tra Usa ed Unione Europea, più che un maldestro tentativo di creare un monopolio su uno spettacolo. E non stupisce che a quel tavolo avessero puntato una fiche anche fondi cinesi (Inter e Milan), oltre che arabi. Ognuno fa il suo gioco, e nessuno di quei tre “intrusi” è attraversato dalla “cultura calcistica” al suo interno.
In quelle culture, in effetti, si può pure pensare che sia soltanto un gioco facilmente trasformabile in spettacolo globale, senza troppe conseguenze in fatto di “identità territoriale”, “appartenenza” e “orgoglio nazionale”, oltre che “di campanile”.
A ben vedere, per gli Usa il nazionalismo si esprime al meglio al seguito dell’esercito (mai stati un solo anno in pace, da quando esiste quello Stato), mentre per i Paesi del Golfo il problema non si pone neppure. E anche i cinesi hanno ben altro campi su cui misurare il proprio “orgoglio”.
Qui in Europa è rimasta poca roba. E quel poco, foss’anche il calcio, pesa molto, a dispetto della sua effettiva importanza “strategica”.
Il processo di centralizzazione e concentrazione dei capitali, in questa “industria”, ha così incontrato un limite sociale e politico impensabile in altri comparti. Qui si sono mossi governi che hanno assistito inermi alla spoliazione della propria struttura industriale (la Gran Bretagna e l’Italia più di tutti), alla devastazione della salute popolare, al prevalere assoluto degli interessi delle multinazionali anche quando estranee al contesto europeo (si pensi a quelle di Big Pharma sui vaccini, con la negazione della liberalizzazione sui brevetti anche se siamo a corto di dosi).
Qui sono scesi in campo “tifosi” che tutti i giorni assistono in silenzio al peggioramento dei propri salari e delle condizioni di vita, gente ormai “co ‘na scarpa e ‘na ciavatta” ma che ritiene un insulto sanguinoso, dunque intollerabile, vedere la propria squadra andarsene altrove (se appartenente al ristretto club “super-leghista”) oppure chiudere l’attività e/ rinunciare ai sogni.
Non c’è da fare i moralizzatori fuori tempo. Si tratta di prendere atto che la crisi è così grave che anche su questo terreno si “gioca una partita” a rischiatutto. E anche di prendere per i fondelli quella “libera informazione” – per esempio di proprietà Agnelli, come Repubblica, Stampa, ecc – che hanno ospitato “generosamente” interviste all’editore-padrone per fargli dire che “l’affare si farà al 100%” e “c’è un patto di sangue tra noi” pochi minuti prima che il castello di carte rovinasse fragorosamente a terra.
Ricordiamoci di quanto sono servi, ogni volta che si occuperanno anche di altro...
Dopo di che, questa volta è andata così, ma l’esigenza generale del capitale a correre verso una concentrazione maggiore in ogni comparto (e tra i vari comparti) non si fermerà per così poco. Un’industria che non funziona, che non copre i costi di gestione, deve capitalisticamente essere ristrutturata. E la SuperLega, per quanto raffazzonata come progetto operativo, indica la direzione.
Né gli Stati, oggi così solleciti nel farsi difensori dello “spirito dello sport” e degli interessi “nazionali” (per quanto possano essere considerate “patriottiche” società finanziarie multinazionali di un altro continente), si sogneranno di bloccare altre forzature monopolistiche o multinazionali in settori socialmente e politicamente meno esposti.
Di fatto, a ben vedere, il fallimento della SuperLega non annuncia soltanto un probabile dissesto di quei club ora costretti a “tornare alla normalità”. Quei bilanci dissestati, che volevano aggiustare diminuendo drasticamente il numero dei beneficiari della torta dei diritti tv e degli sponsor, continueranno ad esserlo.
Tutto il sistema calcio era sull’orlo del baratro già prima della pandemia. Era quella la “normalità” cui tutti ora son felici di tornare.
Gli sviluppi saranno certo interessanti, perché il calcio ormai espone in forma sintetica i nervi scoperti della società.
Fonte
Il presidente del Real Madrid, Florentino Perez, a capo della nuova Lega, Andrea Agnelli (Juventus) vicepresidente. Arsenal, Manchester United, Manchester City, Chelsea, Liverpool, Tottenham, Real Madrid, Atletico Madrid, Barcellona, Juventus, Inter e Milan: queste le dodici “nobili blasonate”, cui avrebbero dovuto aggiungersi due team francesi ed uno tedesco.
L’obiettivo era quello di creare un torneo continentale sul modello dell’Eurolega di basket, o meglio ancora su quello dell’NBA americana. Show e business: ed infatti la ricaduta economica prevista era enorme, il triplo di quella che oggi assicura la Champion’s League.
Un progetto centrato esclusivamente sulla massimizzazione dei ricavi, che probabilmente avrebbe dovuto essere lanciato più in là. Ma la crisi economica innescata dalla pandemia di coronavirus ha stravolto tutto, dettando tempistiche e agende. Bisognava anticipare, anche perché la Uefa aveva deciso di presentare la riforma della Champion’s League proprio in questi giorni. E quindi nella notte tra il 18 ed il 19 aprile è esplosa la bomba: 12 top club europei si fanno la loro Lega, tanti saluti all’Uefa.
In realtà non era esattamente così: se si vanno a leggere i comunicati delle squadre interessate si capisce chiaramente che il progetto è in fase embrionale, e che non è realisticamente possibile immaginare se, come e quando realmente sarebbe dovuto partire. Anche se, ovviamente, le dichiarazioni sono minacciose: “Possiamo partire ad agosto”, “Partiremo nel 2022”.
Veemente, quasi smodata la reazione dell’Uefa: con il presidente, Ceferin, che dà del “bugiardo” ad Andrea Agnelli e che minaccia di cacciare dalle competizioni europee le squadre ribelli.
All’Uefa si associa la Fifa (si, quelli che hanno voluto organizzare un mondiale d’inverno in Qatar...) e le Leghe Nazionali. Si è arrivati addirittura a minacciare le squadre che aderiscono alla SuperLega di essere cancellate dai campionati nazionali.
Ad opporsi sono anche i governi nazionali: il più netto (anche perché il 50% dei club della SuperLega sono inglesi) è stato Boris Johnson: “Farò di tutto perché il progetto fallisca“. Troppo importante, per il premier britannico, garantire l’integrità della Premier League, enorme business e strumento di propaganda della “grandezza britannica” post Brexit.
Ad opporsi anche, naturalmente, tifosi, calciatori ed allenatori: una lega privata, non meritocratica, in cui si sfidano sostanzialmente sempre le stesse squadre e pensata solo per il business è troppo lontana dall’immaginario di valori e simboli che rendono il calcio attraente ed emozionante. Anche se, ad onor del vero, gli stessi tifosi sono contenti quando il loro team annuncia l’acquisto di un grande calciatore. Come anche atleti ed allenatori sono altrettanto lieti di firmare contratti milionari.
Perchè il problema reale è che il sistema calcio, in crisi prima del Covid, è sull’orlo del tracollo. Servono interventi drastici di fair play finanziario vero (non la pagliacciata fino ad oggi applicata dall’Uefa), servirebbe un abbassamento dei costi, un tetto salariale: ma chi porterà avanti queste politiche, che andrebbero di fatto a ridimensionare l’appetibilità del prodotto calcio?
La cosa che però maggiormente colpisce è stata l’assoluta fragilità del progetto: nonostante la presenza di imprenditori e gruppi finanziari di livello mondiale (tutti i 12 top club appartengono ovviamente all’èlite della finanza internazionale), e nonostante il sostegno dichiarato di una enorme banca d’affari come JPMorgan, sono bastati due giorni di turbolenze per far crollare tutto.
Una figura ignobile per personaggi assolutamente di primo piano come il presidente del Real Madrid, Florentino Perez, o quello della Juventus Andrea Agnelli.
Un tentativo talmente goffo e mal riuscito da apparire il disperato tentativo di chi è veramente alla canna del gas. Il che può essere in parte vero: gli indebitamenti ed i passivi di bilancio delle società coinvolte sono enormi.
Ma c’è anche dell’altro. Una sorta di arrogante ed arruffona incapacità che caratterizza in modo sempre più evidente le classi dirigenti: italiane, europee, mondiali. Un capitalismo aggressivo, disperato ed incompetente che rischia davvero di far crollare tutto. Non solo il calcio: parliamo dell’economia globale. Perché quello che è successo al calcio in queste 48 ore è solo una minima parte del disastro in corso.
E allora è il caso di vedere cosa c’è alla base di questo disastro.
È evidente che c’è stato un errore clamoroso ci calcolo. I “dodici” hanno sopravvalutato la propria forza, confidando tutto sui miliardi promessi da JpMorgan e altri fondi di investimento Usa e sauditi (ma non sono stati resi noti i nomi).
Il peso preponderante dei club inglesi (6 su dodici) e la fonte dei finanziamenti rivela però anche una partita geopolitica più complessa. A credere nella possibilità di privare l’Europa dei sui club migliori sono state società calcistiche da tempo possedute da fondi Usa, cinesi, arabi, uno persino russo (il Chelsea di Abramovic), per quanto oramai fuori da quel paese. Oppure club spagnoli con i conti devastati.
Colpiva a prima vista l’assenza delle “grandi” francesi e tedesche (Paris Saint Germain, Bayern, Borussia, Marsiglia), come anche dell’olandese Ajax.
Ma il calcio è un’industria che porta consensi politici, oltre che – a volte – profitti. E per il precario equilibrio europeo, sotto stress per la pandemia e una politica di austerity che moltiplica danni e disuguaglianze, era magari importante mantenere quel qualcosa su cui si può agevolmente dirottare il malessere per trasformarlo in consenso – come nella leggenda di Bartali vincente al Tour, che avrebbe fermato l’insurrezione dopo l’attentato a Togliatti, per dirne una.
Da questo punto di osservazione, la vicenda della SuperLega sembra un episodio di “competizione” tra Usa ed Unione Europea, più che un maldestro tentativo di creare un monopolio su uno spettacolo. E non stupisce che a quel tavolo avessero puntato una fiche anche fondi cinesi (Inter e Milan), oltre che arabi. Ognuno fa il suo gioco, e nessuno di quei tre “intrusi” è attraversato dalla “cultura calcistica” al suo interno.
In quelle culture, in effetti, si può pure pensare che sia soltanto un gioco facilmente trasformabile in spettacolo globale, senza troppe conseguenze in fatto di “identità territoriale”, “appartenenza” e “orgoglio nazionale”, oltre che “di campanile”.
A ben vedere, per gli Usa il nazionalismo si esprime al meglio al seguito dell’esercito (mai stati un solo anno in pace, da quando esiste quello Stato), mentre per i Paesi del Golfo il problema non si pone neppure. E anche i cinesi hanno ben altro campi su cui misurare il proprio “orgoglio”.
Qui in Europa è rimasta poca roba. E quel poco, foss’anche il calcio, pesa molto, a dispetto della sua effettiva importanza “strategica”.
Il processo di centralizzazione e concentrazione dei capitali, in questa “industria”, ha così incontrato un limite sociale e politico impensabile in altri comparti. Qui si sono mossi governi che hanno assistito inermi alla spoliazione della propria struttura industriale (la Gran Bretagna e l’Italia più di tutti), alla devastazione della salute popolare, al prevalere assoluto degli interessi delle multinazionali anche quando estranee al contesto europeo (si pensi a quelle di Big Pharma sui vaccini, con la negazione della liberalizzazione sui brevetti anche se siamo a corto di dosi).
Qui sono scesi in campo “tifosi” che tutti i giorni assistono in silenzio al peggioramento dei propri salari e delle condizioni di vita, gente ormai “co ‘na scarpa e ‘na ciavatta” ma che ritiene un insulto sanguinoso, dunque intollerabile, vedere la propria squadra andarsene altrove (se appartenente al ristretto club “super-leghista”) oppure chiudere l’attività e/ rinunciare ai sogni.
Non c’è da fare i moralizzatori fuori tempo. Si tratta di prendere atto che la crisi è così grave che anche su questo terreno si “gioca una partita” a rischiatutto. E anche di prendere per i fondelli quella “libera informazione” – per esempio di proprietà Agnelli, come Repubblica, Stampa, ecc – che hanno ospitato “generosamente” interviste all’editore-padrone per fargli dire che “l’affare si farà al 100%” e “c’è un patto di sangue tra noi” pochi minuti prima che il castello di carte rovinasse fragorosamente a terra.
Ricordiamoci di quanto sono servi, ogni volta che si occuperanno anche di altro...
Dopo di che, questa volta è andata così, ma l’esigenza generale del capitale a correre verso una concentrazione maggiore in ogni comparto (e tra i vari comparti) non si fermerà per così poco. Un’industria che non funziona, che non copre i costi di gestione, deve capitalisticamente essere ristrutturata. E la SuperLega, per quanto raffazzonata come progetto operativo, indica la direzione.
Né gli Stati, oggi così solleciti nel farsi difensori dello “spirito dello sport” e degli interessi “nazionali” (per quanto possano essere considerate “patriottiche” società finanziarie multinazionali di un altro continente), si sogneranno di bloccare altre forzature monopolistiche o multinazionali in settori socialmente e politicamente meno esposti.
Di fatto, a ben vedere, il fallimento della SuperLega non annuncia soltanto un probabile dissesto di quei club ora costretti a “tornare alla normalità”. Quei bilanci dissestati, che volevano aggiustare diminuendo drasticamente il numero dei beneficiari della torta dei diritti tv e degli sponsor, continueranno ad esserlo.
Tutto il sistema calcio era sull’orlo del baratro già prima della pandemia. Era quella la “normalità” cui tutti ora son felici di tornare.
Gli sviluppi saranno certo interessanti, perché il calcio ormai espone in forma sintetica i nervi scoperti della società.
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