Il settore del No profit vede convivere strutture diverse. Le imprese sociali vere e proprie – definite come “di fatto” – sono più di 22mila, nelle quali sono occupati quasi 650mila dipendenti, il che corrisponde rispettivamente al 6,3% delle istituzioni ma ben al 71% dei dipendenti del settore no profit. Di queste imprese del terzo settore, oltre la metà (57,5%) sono cooperative sociali, precisamente 12.956, seguite dalle associazioni (15,4%).
La IV edizione del Rapporto sull’impresa sociale in Italia curato da Iris Network, riconosce come imprese sociali le istituzioni no profit che soddisfino i seguenti criteri:
a. presenza di almeno un dipendente;
b. soddisfazione di almeno una delle seguenti condizioni
– il rapporto tra fatturato e i costi per beni, servizi, e personale è superiore al 50%;
– trattasi di un’istituzione no profit con forma giuridica d’impresa non necessariamente con la qualifica di impresa sociale;
– trattasi di una scuola paritaria con attività commerciale;
– trattasi di una istituzione no profit con attività commerciale operante nell’ambito della sanità.
Delle oltre 22mila imprese sociali “di fatto”, quindi, più del 40% occupa un numero di addetti superiore a 10. Il 46,3% hanno un fatturato inferiore ai 200 mila euro, anche se il 10,8% supera i 2 milioni di euro. Quasi la metà opera al Nord (47,6%), dove il 37,2% delle imprese ha un fatturato superiore ai 500 mila euro, mentre al Sud il 55,2% ha un fatturato che non supera i 200 mila euro. Il 31% delle imprese sociali opera nei servizi sociali, il 19% nell’inserimento lavorativo, ma significativa anche la componente attiva nel settore istruzione e ricerca (18,3%), cultura e sport (18,2%) e sanità (8%).
Una associazione del Terzo Settore può assumere lavoratori dipendenti per svolgere l’attività prevista. Ma, nell’organico dell’associazione, il lavoro volontario o retribuito in maniera forfettaria deve comunque essere preponderante rispetto al lavoro salariato.
Generalmente, si può assumere personale tramite:
– contratto di lavoro subordinato;
– contratto a progetto o parasubordinato;
– rapporto di lavoro occasionale;
– voucher per lavoro accessorio.
Questi contratti sono assimilabili a normali contratti di lavoro e quindi soggetti a tutti gli adempimenti previsti dalla legge. Ma i contratti e le condizioni di lavoro nel Terzo Settore, e non solo nel mondo delle cooperative sociali, hanno dato vita ad un vero e proprio verminaio in cui coesistono situazioni regolari, precarietà e sottoretribuzioni diffuse e situazioni ben oltre la legalità contrattuale.
Il rapporto di lavoro più utilizzato dalle associazioni nel no profit è quello del lavoro occasionale, che consiste in un lavoro autonomo esercitato in modo non continuativo e non abituale, che non può durare per più di 30 giorni per anno solare. I corrispettivi ricevuti come retribuzione per questo tipo di rapporto vanno inseriti nella categoria fiscale redditi diversi e, se sono superiori ai 5.000 euro annui, il lavoratore dovrà iscriversi alla gestione separata dell’INPS.
Secondo le nuove norme (aggiornate al marzo 2021), gli “Enti del Terzo Settore” sono tutti quegli enti – comprese associazioni e fondazioni – costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Gli enti del Terzo Settore, devono esercitare in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, che sono elencate dell’articolo 5 del testo della riforma, come ad esempio prestazione sociali, socio-sanitarie e sanitarie, di tutela dell’ambiente, di formazione, ricerca scientifica, attività culturali, cooperazione allo sviluppo e accoglienza umanitaria etc.
Si tratta quindi di una vastissima serie di attività, dove rientrano tutte le finalità svolte precedentemente dalle varie tipologie associative iscritte nei diversi registri (onlus, APS, ODV). Tali enti dovranno obbligatoriamente iscriversi nel registro unico nazionale degli enti del terzo settore.
Le attività delle associazioni del Terzo Settore, in base all’art.79, a favore di soci o non soci, potranno essere a pagamento, ma sarà considerata di natura non commerciale solo se le entrate andranno a coprire le spese per lo svolgimento dell’attività, senza conseguire un risultato economico positivo. Sono comunque considerate non commerciali le raccolte pubbliche di fondi effettuate occasionalmente (il famoso crowdfunding), i contributi erogati dalle amministrazioni pubbliche (spesso la parte più consistente delle entrate), le quote associative annuali.
Se le donazioni a una onlus arrivano da un’azienda, questa può dedurre la somma versata, ovvero considerarla un costo e diminuire di conseguenza l’utile su cui si pagano le imposte. Anche per le aziende c’è un limite alla deduzione ammissibile: il valore maggiore tra il 2% del reddito d’impresa e 30mila euro se la donazione è verso un’organizzazione senza contabilità con partita doppia, limite che può salire al 10% del reddito (fino a un massimo di 70mila euro) se l’organizzazione redige un bilancio.
Nel caso in cui un’azienda invece di denaro faccia una donazione in beni in natura, come derrate alimentari o prodotti farmaceutici, può dedurre a bilancio i costi sostenuti per tali prodotti. Una volta donati, inoltre, tali beni si considerano distrutti ai fini Iva, e cioè l’azienda cedente ha il diritto di detrarre la relativa imposta sul valore aggiunto.
Beneficenza e attenzione “al sociale” dunque, ma anche opportunità fiscali e aggiustamenti contabili molto utili alle aziende private.
Vedi le altre puntate:
Terzo Settore: una invasione di campo sui servizi pubblici /1
Terzo Settore: il business della benevolenza /2
Terzo Settore: l’ipoteca delle Fondazioni sul No profit /3
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