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29/04/2021

La “nuova Europa” passa anche per gli arresti di Parigi

Davvero qualcuno crede che pretendere l’estradizione e la morte in carcere per dei settantenni (in media), che hanno combattuto contro lo Stato tra i 50 e i 40 anni fa, sia qualcosa di diverso dalla pura vendetta?

L’assurdo è tale che non è possibile considerarlo un assurdo. Non possiamo “immaginarci” il Potere – la classe dirigente di questo disgraziato paese – come un gruppo di ottusi semplicemente ossessionato dal fatto che alcuni (percentualmente pochi) dei suoi nemici di allora siano sfuggiti al carcere.

Dopo 40 anni, e “due repubbliche” dopo (siamo alla Terza, giusto?), anche la peggiore ossessione dovrebbe essere spenta sotto l’urgenza di problemi ben più presenti.

Dunque la ragione profonda degli arresti di Parigi non può essere quella ufficialmente raccontata. Non per “complottismo”, ma perché riteniamo che almeno una parte di questa classe dirigente sia capace di fare un mestiere da macellaio, ma con una certa “creatività” e una buona dose di furbizia, se non proprio di intelligenza.

Perciò, se ci danno una spiegazione stupida, non possiamo crederci.

Per questi arresti si sono mossi personalmente Mario Draghi e Marta Cartabia, non due buzzurri a metà strada tra la Lega e Fratelli d’Italia. Sono riusciti là dove Salvini e Bonafede avevano fallito, pur gestendo esattamente lo stesso dossier.

E se Macron ha cambiato linea rispetto a due anni fa, è evidente che stia maturando un diverso rapporto tra i vari paesi membri dell’Unione Europea.

Per questo conviene alzare lo sguardo leggermente al di sopra della pura cronaca, che stimola sempre “letture psicologiche” devianti, e capire cosa sta maturando nelle pieghe della crisi moltiplicata dalla pandemia – gestita in modo criminale in tutto l’Occidente – e tra i tentativi di risposta all’evidente declino del Vecchio Continente.

La Francia e la “dottrina Mitterand”

I compagni italiani esuli Oltralpe da quasi 40 anni – un po’ più di 200 in tutto – erano lì per un “patto informale” tra Italia e Francia, allora guidate da Bettino Craxi e Francois Mitterand. Era il 1985 quando venne formalizzata la “dottrina” che prese il nome del presidente francese, ma il lavoro preparatorio e quello di “consolidamento” è stato un po’ più lungo, prima e dopo.

In Italia, in quegli anni, il potere stava ragionando su come praticare una soluzione politica che chiudesse la stagione della lotta armata. Sul piano militare il più era stato fatto, i militanti ancora attivi si potevano contare sulla dita di poche mani, mentre le carceri erano piene di prigionieri politici. Combattenti, certo, ma sicuramente per ragioni politiche.

L’ipocrisia regnava anche allora. E dunque si sapeva che così era, ma non lo si poteva mettere nero su bianco in una legge. Dunque la “soluzione politica” non avrebbe dovuto comportare il “riconoscimento politico” postumo di una insurrezione armata. Ci fu anche un processo con questa imputazione, e finì con una clamorosa assoluzione di centinaia di imputati. Condannarli per insurrezione sarebbe equivalso a riconoscere la politicità della loro azione.

Ma non si poteva tenerli tutti in galera, spesso in carceri speciali, perché anche questo era di fatto un riconoscimento della politicità di una lotta.

Una prima soluzione, infame, fu la legge sulla “dissociazione”, che vide la luce proprio in quei mesi. Ma era solo una versione edulcorata della legge sui “pentiti” (non c’era più molto da sapere sui fatti e le motivazioni della lotta) e quindi non poteva – e non riuscì – a risolvere il problema.

Di lì a poco, alla fine degli anni ‘80, si cominciò perciò ad applicare la normativa penitenziaria ordinaria – nota come Legge Gozzini – anche ai prigionieri politici “irriducibili”. Un meccanismo di svuotamento delle carceri molto lento, continuamente ostacolato da problemi locali (la magistratura non è uguale dappertutto, e la Procura di Milano – per esempio – allora sembrava applicare un diverso codice), che durò in pratica per tutti gli anni ‘90.

Poi c’era il problema degli “esuli”. E la Francia di Mitterand accettò di farsene carico, ospitando e integrando nella vita civile quelli che altrimenti sarebbero stati dei “latitanti”, dunque “problematici”. Unico limite: “non aver commesso reati di sangue”.

Altra formula ipocrita, cui non a caso si è aggrappato Macron per sostenere di aver solo “applicato rigorosamente la dottrina Mitterand”.

In realtà quasi tutti gli esuli erano stati condannati in Italia anche per “fatti di sangue”, ma in virtù di un reato che il codice penale francese non prevedeva: il “concorso morale”.

Che significa? Che un prigioniero poteva essere condannato per un “fatto di sangue” anche se non vi aveva partecipato direttamente. Chi ha avuto la dubbia fortuna di poter leggere i dispositivi delle sentenze nei processi contro la lotta armata – si possono leggere ancora oggi – ha visto condannare in genere anche 20 o 30 imputati per una azione materialmente compiuta da 4 o 5 persone.

In pratica, un appartenente a una “banda armata” poteva essere condannato per ogni singola azione realizzata da quel gruppo mentre era in libertà (ma qualcuno persino per fatti avvenuti quando era già in carcere).

La Francia non riconosceva le condanne comminate in questo modo sbrigativo e dunque gli esuli potevano essere considerati “non direttamente colpevoli” anche se condannati in Italia in via definitiva.

La “dottrina Mitterand”, a ben vedere, non era insomma un atto “contro l’Italia”, ma un modo di collaborare con questo paese a risolvere un problema che la classe politica d’allora non riusciva a chiudere (le responsabilità del Pci e di Andreotti, per questo, sono infinite).

Politica armata o “crimine comune”?

Su questo punto forse è meglio lasciare la parola al più duro e cattivo dei ministri dell’interno di allora, poi anche presidente della Repubblica:
Ritengo che l’estremismo di sinistra, che era non un terrorismo in senso proprio (non credeva infatti che solo con atti terroristici si potesse cambiare la situazione politica), ma era “sovversione di sinistra” come agli albori era il bolscevismo russo, e cioè un movimento politico che, trovandosi a combattere un apparato dello Stato, usava metodi terroristici come sempre hanno fatto tutti i movimenti di liberazione, Resistenza compresa (l’assassinio di un grande filosofo, anche se fascista, che camminava tranquillamente per strada, Giovanni Gentile, da parte di Gap fiorentini si può giudicare positivamente o negativamente, ma da un punto di vista teorico è stato pur sempre un atto di terrorismo) pensando di innescare – e qui era l’errore anche formale – un vero e proprio movimento rivoluzionario.

Voi siete stati battuti dall’unità politica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, e per il fatto che non siete stati in grado di trascinare le masse in una vera e propria rivoluzione.

Ma tutto questo fa parte di un periodo storico dell’Italia che è concluso; e ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”.
Francesco Cossiga si muoveva con la logica della guerra di classe, e dunque sapeva meglio di chiunque che in guerra si mente (e si nega il “riconoscimento politico” al nemico), si spara, uccide, imprigiona, ma poi bisogna mettere in atto iniziative per chiudere davvero il periodo della guerra. Tra cui, ovviamente, rimandare a casa i prigionieri.

Togliatti, pasticciando molto e concedendo troppo, aveva fatto lo stesso con i fascisti, ad appena un anno dalla fine della guerra.

Troppo complicato da capire, per una classe politica di infimo livello come quella uscita nella seconda e nella terza Repubblica.

Cosa c’è di nuovo?

Tuttavia c’è qualcosa di eccessivo in questa esibita ansia di vendetta, e non ci riferiamo a nessun aspetto “psicologico” o “ideologico”. Nessun vero potere campa con la testa volta all’indietro.

Una prima ammissione viene dal commento di Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica (giornale della famiglia Agnelli, ora): “Se dovessimo dirla in una parola sola oggi 28 aprile si chiude la storia del Novecento italiano e probabilmente si chiude anche una fase della storia europea“.

Uno “spartiacque”, un qualcosa di “costituente”, non un gesto fine a se stesso e men che mai conforme a un “desiderio di giustizia”. Un qualcosa che serve per l’oggi e in futuro, insomma. Che delinea un tratto essenziale di un “nuovo mondo”.

Anzi. Di una “nuova Europa”.

Lo prendiamo sul serio non solo perché ha un ruolo importante come “comunicatore” al servizio della classe dirigente, ma anche e soprattutto perché da oltre venti anni (forse anche da quando stava a il Manifesto) Bonini è professionalmente considerato “molto attento” ai servizi strettamente intesi. E se si va a guardare il numero infinito di volte che ha intervistato Franco Gabrielli (neo sottosegretario ai servizi, appunto, nonché ex capo della Digos, del Sisde e della Polizia) vien da credere che la vox populi non sia proprio campata in aria.

In Italia in questi giorni stiamo vivendo – in silenzio e quasi come beoti – i primi passi di un “cambiamento” economico e sociale al termine del quale “il paese non sarà come prima” (Draghi dixit in Parlamento). Un percorso fatto di “riforme” di cui si intravedono le caratteristiche, niente affatto amichevoli con i ceti popolari.

Ma il senso ultimo del “progetto” non viene descritto in modo chiaro, esaustivo, esaminabile alla luce del sole.

In Francia – da buoni vecchi colonialisti – c’è qualche ipocrisia in meno e qualche accenno esplicito abbastanza chiaro.

La “nuova Europa” è qualcosa di molto più definito. Aveva iniziato per esempio il ministro dell’economia, Bruno Le Maire, a chiedere (retoricamente): “volete che l’Europa sia un mercato unico o non volete piuttosto che sia un progetto politico, nobile e idealista? […] Non mi interessa lavorare 17 ore al giorno per costruire un mercato. […] Vi ricordate ancora chi siete e da dove venite? Veniamo da nazioni e da imperi. Siamo in fondo una idea politica che ha costruito nei secoli il Sacro Romano Impero, l’Impero Napoleonico, l’Impero Romano. […] Agli europei dico quindi di non dimenticare da dove discendiamo».

Poi, pochi giorni fa, è toccato a Françoise Dumas, presidente della Commissione per la difesa nazionale e le forze armate dell’Assemblea nazionale, che ha presentato una Revue particolarmente esplicita: “Davanti ai nostri occhi, l’unilateralismo americano, le guerre ibride russe, l’interventismo turco e l’espansionismo cinese hanno chiuso un’epoca; le promesse degli anni ‘90, già indebolite dal terrorismo islamico, sono crollate dopo trenta anni, come spesso tendono a fare le illusioni”.

Pensavate davvero che l’Unione Europea fosse quella comunità multietnica che finalmente aveva eliminato la guerra al proprio interno (sorvolando sull’attacco alla Jugoslavia, ovviamente)? Beh, dice Dumas, “vi siete illusi”.

E infatti, prosegue: “In questo contesto, l‘ipotesi di un confronto diretto di alta intensità, sotto la soglia nucleare, ma ibridato da molteplici approcci indiretti, non può più essere ignorata. È necessario prepararsi”.

Non si dimentica ovviamente l’ipocrisia di fondo: “perché la pace, cuore del progetto europeo, non può fiorire che all’ombra di una potenza che si afferma e di spade che la rafforzano”.

Volendo sintetizzare molto, il quadro strategico è questo. La crisi pandemica ha evidenziato quello che già si intravedeva: l’Europa è in declino, gli Usa anche ma stanno reagendo, la Russia è un quasi-nemico (ma ci deve rifornire di gas e petrolio), la Cina è il competitore inarrivabile che non sappiamo come fronteggiare, qualsiasi tentativo di recuperare il declino passa per un conflitto (economico, tecnologico, ecc.) che rischia facilmente di finire in guerra vera e propria. Magari non nucleare, ma guerreggiata su molti piani (blocco delle reti informatiche, delle infrastrutture strategiche, ecc.).

Questa è la “nuova Europa” che supera “il Novecento”. L’Europa che chiude con le differenze politiche, culturali, giuridiche, tra i vari paesi membri e si attrezza per fronteggiare lo stesso “nemico interno” (classi popolari e chi pretende di rappresentarle anche in termini di diverso sistema economico e regime politico) e gli stessi nemici esterni.

Se per cementare questo nuovo rapporto qualcuno – Draghi – chiede una libbra di carne umana sotto forma di una decina di anziani ex combattenti, beh, è un prezzo così basso che un banchiere come Macron non può che accettare di pagare...

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