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26/04/2021

Il “piano” di Draghi non sembra proprio una “mandrakata”

Per analizzare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, presentato tre giorni fa dal ministro dell’Economia e delle Finanze al consiglio dei ministri, è bene non perdersi nelle slide e nei numeri (l’unica cosa che hanno letto i cronisti delle tv), per concentrarsi invece sulla “logica” e quindi sulle reazioni degli addetti ai lavori.

Archiviamo pure le evidenti forzature della Commissione Europea, a partire da Ursula von der Leyen, che nonostante abbia piazzato Mario Draghi al posto di comando ancora “non si fida degli italiani”, tanto da costringerlo a rinviare il previsto Cdm per un ultimo vis-a-vis con la Commissione.

Diamo infatti per assodato che quel Piano è stato prima vagliato e approvato a Bruxelles (con qualche riserva, evidentemente, e diverse tensioni), poi illustrato ai ministri che rappresentano le varie forze politiche della “coalizione” e infine, la prossima settimana, fatto apparire per un attimo davanti agli occhi dei parlamentari. Senza discussione che possa apportare anche una minima modifica.

Del resto, un mega-progetto di quelle dimensioni non può neanche essere pensato se bisogna stare a sentire i mille appetiti di una classe politica (e dirigente, imprenditori compresi) abituata al rito dell’”assalto alla diligenza”.

Se poi il “risultato” delle mille mediazioni deve combaciare con le prescrizioni dell’erogatore dei fondi (l’Unione Europea, con il voto favorevole di tutti e 27 i paesi membri), allora è evidente che quel Piano è meglio farlo scendere dall’alto e farlo approvare senza discussione. Per pura mancanza di alternative.

Insomma: “garantisce Draghi”, sia verso l’alto (i falchi diffidenti di Bruxelles) sia verso il basso (i famelici maneggioni delle consorterie parlamentari). A scatola chiusa.

Chiusa la premessa “politica”, vediamo il merito.

Un elemento chiave sono le “quattro riforme” che tutti nominano (giustizia, pubblica amministrazione, semplificazione e concorrenza) ma di cui nessuno sa indicare il contenuto.

L’unica di cui si abbia qualche anticipazione è quella della pubblica amministrazione, presentata in parte da Renato Brunetta. E fa orrore. L’unica cosa chiara è che il “posto fisso” da statale è diventato “appetibile” per i figli di buona famiglia. Viene infatti modificato il punteggio per i titoli di studio, penalizzando la laurea e super-premiando tutti i titoli post laurea (anche quelli finti, comprati nelle università online).

In pratica, chi avrà avuto i soldi per comprarsi qualche titolo (con o senza “fatica del concetto”) sarà automaticamente nei primi posti in graduatoria a qualsiasi concorso pubblico. Per quelli di famiglie povere, che magari si saranno sudati la laurea a forza di “lavoretti”, un calcio in culo...

Il resto sono le solite slide sulla “digitalizzazione”, di cui si parla da quasi un quarto di secolo (una volta c’era persino una authority apposita, l’Aipa, poi chiusa perché troppo seria e ben diretta da Guido Maria Rey).

Sulla giustizia civile nessuna indicazione, per ora, tranne appunto le chiacchiere sulla digitalizzazione. È chiaro che i tempi attuali delle cause civili (cause che riguardano società, patrimoni, fallimenti, ecc.) sono inaccettabili in un paese serio e un handicap feroce per le attività economiche in genere. E dunque che questo sistema va “riformato”, e anche drasticamente.

Ma il come è decisivo. Una riforma che nelle cause premia i grandi soggetti (banche, multinazionali, finanza, ecc., che già dispongono degli avvocati migliori o più “in familiarità” con i giudici) può anche essere “veloce ed efficiente”, ma è chiaramente di segno opposto a una riforma che tuteli maggiormente i soggetti deboli (famiglie, singoli, piccole imprese, ecc.).

Su concorrenza e “semplificazione” (do you remember il ministro Calderoli?) si sente tanfo di tecnocrazia europea, ma non si vede ancora nulla di concreto.

Poi ci sono le slide con i numeri e una marea di “obbiettivi”, “missioni”, “progetti”, ecc, in cui si perde chiunque non abbia una lunga esperienza ministeriale alle spalle.

Sarà probabilmente per questo che la bocciatura più solenne arriva ancora una volta da Guido Salerno Aletta (tra le altre cose ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi) con un editoriale su Milano Finanza.

È una bocciatura politica per le modalità con cui il Pnnr è stato scritto e “approvato”. Ma anche eecnica perché “non segue nessuna delle classificazioni previste dalla legge di contabilità per le spese statali”, “Ci si trova di fronte a una nuova matrice, articolata in sei «missioni», che non coincidono con nessuna delle 34 missioni adottate dalla legge di bilancio per il 2021”, ecc.

È infine una bocciatura totale per la “logica” del disegno:

“Dalle slide sembra quasi che l’Italia sta stata trattata come una qualsiasi impresa in difficoltà, come un oggetto proprietario da ristrutturare, con il supporto di una società di consulenza che ancora non ne conosce le regole organizzative interne e che si limita a utilizzare i propri schemi di rappresentazione per rielaborare in modo apparentemente impeccabile gli scartafacci che la direzione aziendale ha via via ammonticchiato sulle scrivanie.”

In altri termini, è un piano disegnato per imporre a questo paese una dinamica evolutiva che gli è in gran parte estranea, con seri rischi per “la parte più vitale” di ciò che resta del sistema produttivo italiano.

“Non vorremmo che gli effetti della sospensione delle attività economiche a causa della pandemia finiscano per schiacciare questa fascia caratterizzante della società italiana, anziché aumentare la dimensione media delle aziende, mentre le grandi imprese non esprimono ancora la necessaria determinazione per agguantare le sfide. Nessun Piano nessuno Stato, nessun governo potrà mai sostituirsi alla realtà.”

Ancora più secche sono una serie di domande poste sulle “conseguenze” dei piani di spesa previsti (e controllati) direttamente dal ministero dell’economia, ossia dallo stesso Draghi per il tramite di Franco.

Per esempio: quanto degli investimenti – acquisti di ogni genere di macchinari – sarà possibile coprire con produzioni “indigene”?

Prendiamo il caso della “digitalizzazione”: è facile prevedere che il grosso della spesa finirà in hardware e software esteri (cinesi i primi, statunitensi i secondi, in linea generale). E che dunque la maggiore velocità ed efficienza della pubblica amministrazione o della scuola, o persino di alcuni settori della sanità, potrà anche avere sul medio periodo “effetti benefici di sistema”, ma sarà ben poco utile per l’industria locale.

Stesso discorso, a grandi linee, si può fare per la “transizione ecologica”, con ben poche aziende italiane già pronte a soddisfare la domanda.

Fin qui ci eravamo concentrati sugli aspetti soprattutto finanziari e politici del Recovery Fund (condizionalità, aumento del debito e previsione di ritorno a breve alle politiche di austerità, ecc.). Ma anche sul piano strettamente industriale, ad occhi esperti, questo Pnnr non sembra proprio una “mandrakata”.

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