Lungi dal voler considerare il grunge alla stregua di una marchio di
indicazione geografica tipica, ma basterebbe la provenienza da
Cincinnati, Ohio a sfilare gli Afghan Whigs
dalla famigerata "scena di Seattle", nella quale sono stati inseriti
per comodità dopo l'esordio "Big Top Halloween" (1988) e il sophomore "Up In It" (1990, il primo per Sub Pop). Del resto, a quei tempi, prevedere quanto e in quali direzioni il granitico sound della band di Greg Dulli
si sarebbe espanso, quali e quante influenze avrebbe fagocitato,
sarebbe stato un esercizio arduo. Indovinarle tutte, semplicemente
impraticabile.
Poi nel 1992 arrivò "Congregation", rivelatorio sin
dalla meravigliosa copertina. Una formosa donna di colore giace su un
manto rosso, tra le sue braccia cinge un infante bianco. Sono entrambi
nudi, il contatto tra le pelli sancisce l'indissolubilità del legame tra
la pop music dei bianchi e quella dei neri. Ponendo la seconda come progenitrice della prima.
La teoria viene messa in pratica da undici brani al fulmicotone (dodici considerando la ghost track
"Miles Iz Ded") che mescolano in un fluido omogeneo e contundente il
grunge, l'alternative rock dei bianchi dunque, alle ritmiche spigolose
del funk, all'R&B, ma soprattutto ai timbri struggenti e sensuali
del soul, interpretato dalla voce duttile e autodistruttiva di Dulli. In
pratica, il grunge che diventa adulto, passando dalla cieca rabbia
giovane a pensieri ambigui, pulsioni sessuali incontrollabili e
sentimenti contorti. Addentrandosi in questa selva di sesso, tradimenti,
liti, gelosie e abbandoni, mediante le vie offerte dalla musica black.
L'equilibrio è però assoluto, con gli ingredienti che stanno insieme
coesi, indistricabili, mentre Dulli si danna e impreca. Si dimena fino a
ferirsi, menando spallate e grida a una gabbia di acciaio e sensi di
colpa, ammissioni dolorose, libido e sudore.
"Gentlemen"
(Elektra) è composto della stessa materia, fa però di meglio del già
ottimo "Congregation" in termini di scrittura (tormentato, sincero,
esplicito, esplosivo e viscerale, Dulli è qui in forma strepitosa) e
varietà degli arrangiamenti. La chitarra di Rick McCollum è versatile e
graffiante; lacerante quando sfodera riff lapidari
("Gentlemen", "Debonair", "Now You Know"), ammaliante quando si addentra
in assoli di soul psichedelico ("When We Two Parted", con le sue
chitarre che piangono e incalzano). John Curley e Steve Earle sono un
carrarmato ritmico che non teme il confronto con coppie più blasonate
dell'epoca come Shepherd-Cameron (Soundgarden) o Ament-Abbruzzese (Pearl Jam).
In
"Gentlemen", la formazione portò la formula già sperimentata in
"Congregation" alla sua massima espressione, ai suoi frutti più preziosi
e dolorosi. Undici canzoni che differiscono per personalità ed
estetica, nella musica quanto nei brutali testi, da qualsiasi altro
disco dei primi anni 90. Rappresentando un output definitivo del periodo piuttosto che il germoglio di una scena o un filone.
Lanciata dopo una opening track ("If I Were Going") che innesca una tensione palpabile, "Gentlemen" è scandita da un riff
di chitarra quasi geometrico, dal ritmo secco e sferzante, mente Dulli
quasi si presenta, richiama l'attenzione sgolandosi come un predicatore e
ci fa sapere che la confessione ha inizio. L'assolo imbottito di wah wah di McCollum completa l'opera facendo di questa title track un classico del grunge, nonché uno dei brani più amati dai fan degli Afghan Whigs.
Ladies, let me tell you about myself
I got a dick for a brain
And my brain is gonna sell my ass to you
(da "Be Sweet")
La controversa, ma brillante copertina di "Gentlemen" è il remake di una celebre fotografia dell'artista del collettivo Five Of Boston
Nan Goldin: "Nan and Brian in Bed, New York City" del 1983, dalla
raccolta "The Ballad of Sexual Dependency". In quella che è stata
definita l'immagine di una relazione che tramonta, la fotografa è
avvolta in un raggio di luce giallognola e osserva dal letto il compagno
Brian fumarsi una sigaretta a torso nudo, in tutta probabilità dopo
aver fatto del sesso. Fin qui tutto bene, non fosse che nella
rivisitazione scelta dai Whigs Nan e Brian sono una bambina e un
bambino. Conturbante, scandalosa, la scelta indica quanto l'ambiguità
dell'amore sia insita nella natura umana. Come ci accompagni sin dalla
nascita. È proprio l'amore il protagonista costante, il deus ex machina che muove i riff
e le ammissioni torrenziali di "Gentlemen", disco che esplora il
sentimento in ogni canzone, in ogni sua declinazione. Quelle più
raggianti e salvifiche, ma soprattutto quelle più oscure. Mai lesinando
in scabrosità, sfociando talvolta nella pornografia.
Come
prevedibile, le polemiche suscitate dalla copertina non fecero che
aumentare l'esposizione della band e del suo quarto disco, che non
avrebbe mai raggiunto i numeri di bestseller grunge coevi, ma avrebbe fatto guadagnare alla band l'imperituro status di culto.
In particolare fu "Debonair" (grazie a una rotation
su Mtv discretamente fitta) ad accendere definitivamente i riflettori
sulla band. Si tratta di un funky-grunge sorretto da una ritmica
rocciosa e animato da un handclapping irresistibile, sul quale
Dulli cuore selvaggio rovescia i tormenti della propria coscienza
protendendo la sua voce fino a farla screpolare.
Punto di rottura che
il cantante travalica nella scattante "Fountain And Fairfax", dove tra
il fluire di chitarre magmatiche quasi lascia che la carotide gli si
stracci mentre urla e pretende: "Let me drink, let me tie off/ I'm
really slobbering now/ Let it stink, let it dry up/ It's an impossible,
how?". Il pianoforte percosso con frenesia e un voluttuoso violoncello
fanno deragliare il brano dalle iniziali coordinate grunge verso una
forma del genere più arty e psichedelica.
Questo approccio quasi da musica da camera ritorna nella suite
strumentale che chiude il disco, "Brother Woodrow". Un emozionante
saggio di fantasia e versatilità negli arrangiamenti animato da
strabordante romanticismo, dove gli archi e un pianoforte zampillante
danzano con i riverberi di una chitarra elettrica alla carta vetrata.
Il pianoforte è il motore della teatrale "What Jail Is Like", brano ventoso e drammatico nel quale i feedback
delle chitarre spirano ineluttabili e velano gli archi in un micidiale
lavoro di stratificazioni; mentre con la sua ritmica cadenzata e
appiccicaticcia da soul umido, "Be Sweet" è tutt'altro che dolce, ma
l'implorazione fradicia di autocommiserazione a un'amante impassibile.
È l'ennesima prova di un songwriting
pregnante, capace di generare immediata immedesimazione. Quelli con cui
ti mette a confronto non sono però i tuoi sentimenti migliori, bensì le
tue debolezze, le tue contraddizioni, le tue bugie, i tuoi sotterfugi.
Ti tira fuori il peggio, te lo mette davanti e ti costringe a un
confronto mortale. Ti rivela e trasforma, come la più potente delle
sonorità, ma lo fa attaccandoti dalle retrovie. Ti lascia esanime,
scoperto, avviluppato in posizione fetale in un vicolo oscuro della
coscienza. A leccarti le ferite sfiancato dal combattimento contro te
stesso.
"Temptation comes not from hell but from above" è la
conclusione autoindulgente di un intero percorso lirico cui Dulli arriva
nel testo di "My Curse". Canzone che però l'autore affida alla potente
voce di Marcy Mays delle Scrawl (band di Columbus, Ohio molto vicina ai
Whigs), che poi avvolge in vellutati vocalizzi di stampo soul e tra i
vibranti abbozzi folk suonati dal resto del gruppo.
La morbidissima
"I Keep Coming Back" è una cover del classico soul anni 70 di Tyrone
Davis. Una canzone sull'impossibilità di separarsi da un amante e da una
relazione ormai viziata. Dipendenti come si è da quel poco di buono che
è rimasto, sia esso anche soltanto piacere fisico, briciole, cui Dulli
conferisce ulteriore viziosità e sapore torbido: "I wanna leave you/But I
just can't leave you/ I keep coming back for a little more of your
love/ I wanna go away but honey, I just can't stay/ I keep coming back
for a little more of your love". È la chiusura del cerchio, l'abbraccio
definitivo tra soul e grunge. Equilibrio perfetto che ritroviamo tra i
contrasti della tiratissima "Now You Know", dove McCollum spara riff heavy
come se non ci fosse un domani, laddove Dulli sfrutta l'accompagnamento
del pianoforte per adornare i suoi ululati famelici da ruvido soulman.
Let me in I'm cold
(da "Gentlemen")
Priva di Steve Earle, che lasciò gli Afghan Whigs dopo il tour successivo a "Gentlemen", la band non avrebbe mai trovato un degno sostituto e avrebbe insistito, in titoli come "Black Love" (1996, Elektra) e "1965" (1998, Columbia), in una progressiva virata del suono verso il soul. Le grandi canzoni non sarebbero mai mancate, ma l'incanto, la feroce perfezione della doppietta "Congregation"/"Gentlemen" sarebbero stati soltanto un ricordo. Sia prima dello scioglimento del 2001 che dopo la reunion del 2011, comunque più affine ai lavori migliori della band.
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