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24/04/2021

Afghan Whigs - 1993 - Gentlemen

Lungi dal voler considerare il grunge alla stregua di una marchio di indicazione geografica tipica, ma basterebbe la provenienza da Cincinnati, Ohio a sfilare gli Afghan Whigs dalla famigerata "scena di Seattle", nella quale sono stati inseriti per comodità dopo l'esordio "Big Top Halloween" (1988) e il sophomore "Up In It" (1990, il primo per Sub Pop). Del resto, a quei tempi, prevedere quanto e in quali direzioni il granitico sound della band di Greg Dulli si sarebbe espanso, quali e quante influenze avrebbe fagocitato, sarebbe stato un esercizio arduo. Indovinarle tutte, semplicemente impraticabile.
Poi nel 1992 arrivò "Congregation", rivelatorio sin dalla meravigliosa copertina. Una formosa donna di colore giace su un manto rosso, tra le sue braccia cinge un infante bianco. Sono entrambi nudi, il contatto tra le pelli sancisce l'indissolubilità del legame tra la pop music dei bianchi e quella dei neri. Ponendo la seconda come progenitrice della prima.

La teoria viene messa in pratica da undici brani al fulmicotone (dodici considerando la ghost track "Miles Iz Ded") che mescolano in un fluido omogeneo e contundente il grunge, l'alternative rock dei bianchi dunque, alle ritmiche spigolose del funk, all'R&B, ma soprattutto ai timbri struggenti e sensuali del soul, interpretato dalla voce duttile e autodistruttiva di Dulli. In pratica, il grunge che diventa adulto, passando dalla cieca rabbia giovane a pensieri ambigui, pulsioni sessuali incontrollabili e sentimenti contorti. Addentrandosi in questa selva di sesso, tradimenti, liti, gelosie e abbandoni, mediante le vie offerte dalla musica black. L'equilibrio è però assoluto, con gli ingredienti che stanno insieme coesi, indistricabili, mentre Dulli si danna e impreca. Si dimena fino a ferirsi, menando spallate e grida a una gabbia di acciaio e sensi di colpa, ammissioni dolorose, libido e sudore.

"Gentlemen" (Elektra) è composto della stessa materia, fa però di meglio del già ottimo "Congregation" in termini di scrittura (tormentato, sincero, esplicito, esplosivo e viscerale, Dulli è qui in forma strepitosa) e varietà degli arrangiamenti. La chitarra di Rick McCollum è versatile e graffiante; lacerante quando sfodera riff lapidari ("Gentlemen", "Debonair", "Now You Know"), ammaliante quando si addentra in assoli di soul psichedelico ("When We Two Parted", con le sue chitarre che piangono e incalzano). John Curley e Steve Earle sono un carrarmato ritmico che non teme il confronto con coppie più blasonate dell'epoca come Shepherd-Cameron (Soundgarden) o Ament-Abbruzzese (Pearl Jam).
In "Gentlemen", la formazione portò la formula già sperimentata in "Congregation" alla sua massima espressione, ai suoi frutti più preziosi e dolorosi. Undici canzoni che differiscono per personalità ed estetica, nella musica quanto nei brutali testi, da qualsiasi altro disco dei primi anni 90. Rappresentando un output definitivo del periodo piuttosto che il germoglio di una scena o un filone.

Lanciata dopo una opening track ("If I Were Going") che innesca una tensione palpabile, "Gentlemen" è scandita da un riff di chitarra quasi geometrico, dal ritmo secco e sferzante, mente Dulli quasi si presenta, richiama l'attenzione sgolandosi come un predicatore e ci fa sapere che la confessione ha inizio. L'assolo imbottito di wah wah di McCollum completa l'opera facendo di questa title track un classico del grunge, nonché uno dei brani più amati dai fan degli Afghan Whigs.

Ladies, let me tell you about myself
I got a dick for a brain
And my brain is gonna sell my ass to you
(da "Be Sweet")

La controversa, ma brillante copertina di "Gentlemen" è il remake di una celebre fotografia dell'artista del collettivo Five Of Boston Nan Goldin: "Nan and Brian in Bed, New York City" del 1983, dalla raccolta "The Ballad of Sexual Dependency". In quella che è stata definita l'immagine di una relazione che tramonta, la fotografa è avvolta in un raggio di luce giallognola e osserva dal letto il compagno Brian fumarsi una sigaretta a torso nudo, in tutta probabilità dopo aver fatto del sesso. Fin qui tutto bene, non fosse che nella rivisitazione scelta dai Whigs Nan e Brian sono una bambina e un bambino. Conturbante, scandalosa, la scelta indica quanto l'ambiguità dell'amore sia insita nella natura umana. Come ci accompagni sin dalla nascita. È proprio l'amore il protagonista costante, il deus ex machina che muove i riff e le ammissioni torrenziali di "Gentlemen", disco che esplora il sentimento in ogni canzone, in ogni sua declinazione. Quelle più raggianti e salvifiche, ma soprattutto quelle più oscure. Mai lesinando in scabrosità, sfociando talvolta nella pornografia.

Come prevedibile, le polemiche suscitate dalla copertina non fecero che aumentare l'esposizione della band e del suo quarto disco, che non avrebbe mai raggiunto i numeri di bestseller grunge coevi, ma avrebbe fatto guadagnare alla band l'imperituro status di culto.
In particolare fu "Debonair" (grazie a una rotation su Mtv discretamente fitta) ad accendere definitivamente i riflettori sulla band. Si tratta di un funky-grunge sorretto da una ritmica rocciosa e animato da un handclapping irresistibile, sul quale Dulli cuore selvaggio rovescia i tormenti della propria coscienza protendendo la sua voce fino a farla screpolare.
Punto di rottura che il cantante travalica nella scattante "Fountain And Fairfax", dove tra il fluire di chitarre magmatiche quasi lascia che la carotide gli si stracci mentre urla e pretende: "Let me drink, let me tie off/ I'm really slobbering now/ Let it stink, let it dry up/ It's an impossible, how?". Il pianoforte percosso con frenesia e un voluttuoso violoncello fanno deragliare il brano dalle iniziali coordinate grunge verso una forma del genere più arty e psichedelica.
Questo approccio quasi da musica da camera ritorna nella suite strumentale che chiude il disco, "Brother Woodrow". Un emozionante saggio di fantasia e versatilità negli arrangiamenti animato da strabordante romanticismo, dove gli archi e un pianoforte zampillante danzano con i riverberi di una chitarra elettrica alla carta vetrata.

Il pianoforte è il motore della teatrale "What Jail Is Like", brano ventoso e drammatico nel quale i feedback delle chitarre spirano ineluttabili e velano gli archi in un micidiale lavoro di stratificazioni; mentre con la sua ritmica cadenzata e appiccicaticcia da soul umido, "Be Sweet" è tutt'altro che dolce, ma l'implorazione fradicia di autocommiserazione a un'amante impassibile.
È l'ennesima prova di un songwriting pregnante, capace di generare immediata immedesimazione. Quelli con cui ti mette a confronto non sono però i tuoi sentimenti migliori, bensì le tue debolezze, le tue contraddizioni, le tue bugie, i tuoi sotterfugi. Ti tira fuori il peggio, te lo mette davanti e ti costringe a un confronto mortale. Ti rivela e trasforma, come la più potente delle sonorità, ma lo fa attaccandoti dalle retrovie. Ti lascia esanime, scoperto, avviluppato in posizione fetale in un vicolo oscuro della coscienza. A leccarti le ferite sfiancato dal combattimento contro te stesso.

"Temptation comes not from hell but from above" è la conclusione autoindulgente di un intero percorso lirico cui Dulli arriva nel testo di "My Curse". Canzone che però l'autore affida alla potente voce di Marcy Mays delle Scrawl (band di Columbus, Ohio molto vicina ai Whigs), che poi avvolge in vellutati vocalizzi di stampo soul e tra i vibranti abbozzi folk suonati dal resto del gruppo.
La morbidissima "I Keep Coming Back" è una cover del classico soul anni 70 di Tyrone Davis. Una canzone sull'impossibilità di separarsi da un amante e da una relazione ormai viziata. Dipendenti come si è da quel poco di buono che è rimasto, sia esso anche soltanto piacere fisico, briciole, cui Dulli conferisce ulteriore viziosità e sapore torbido: "I wanna leave you/But I just can't leave you/ I keep coming back for a little more of your love/ I wanna go away but honey, I just can't stay/ I keep coming back for a little more of your love". È la chiusura del cerchio, l'abbraccio definitivo tra soul e grunge. Equilibrio perfetto che ritroviamo tra i contrasti della tiratissima "Now You Know", dove McCollum spara riff heavy come se non ci fosse un domani, laddove Dulli sfrutta l'accompagnamento del pianoforte per adornare i suoi ululati famelici da ruvido soulman.

Let me in I'm cold
(da "Gentlemen")

Priva di Steve Earle, che lasciò gli Afghan Whigs dopo il tour successivo a "Gentlemen", la band non avrebbe mai trovato un degno sostituto e avrebbe insistito, in titoli come "Black Love" (1996, Elektra) e "1965" (1998, Columbia), in una progressiva virata del suono verso il soul. Le grandi canzoni non sarebbero mai mancate, ma l'incanto, la feroce perfezione della doppietta "Congregation"/"Gentlemen" sarebbero stati soltanto un ricordo. Sia prima dello scioglimento del 2001 che dopo la reunion del 2011, comunque più affine ai lavori migliori della band.

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