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16/04/2021

Ops, l’establishment rivuole lo “stato nazionale”...

C’era una volta la globalizzazione, che si portava dietro il libero scambio. C’era una volta l’Unione Europea, che risucchiava sovranità dagli Stati che l’andavano cedendo (spontaneamente o meno).

C’era una volta il libero mercato tra individui e imprese di ogni tipo/dimensione, liberi di trovare il loro miglior interesse dove meglio credevano, senza altro limite che la propria abilità/potenza e quelle altrui.

Torna lo Stato nazionale, viva lo Stato nazionale!

A dirlo non è uno sgherro di Salvini, Orbàn o Le Pen. Ma un ideologo di regime, un campione del neoliberismo “europeista e antisovranista”, un fustigatore indefesso dei difetti del potere pubblico (tranne quando si parlava di polizia, servizi segreti, magistratura, ecc.). Uno di quegli “intellettuali” da decenni abituato a “timbrare il cartellino”, quasi ogni mattina.

Ad ospitare il “pensoso pensamento” non è qualche rivistina online della galassia di ultradestra, magari a metà strada tra Forza Nuova e CasaPound, ma il salotto buono della grande borghesia italica, il Corriere della Sera.

L’editoriale di ieri, a firma di Ernesto Galli Della Loggia, è sorprendente solo per chi davvero aveva creduto nella finta contrapposizione tra “sovranisti” – ovviamente di destra, retrogradi e scafessi – e “antisovranisti” (altrettanto ovviamente “democratici”, “europei”, “mondialisti”, “imperialisti umanitari”).

Di cosa s’è accorto, Della Loggia? Di cose che sono sotto gli occhi di tutti da molto tempo, ma che si è provato a negare per riaffermare la “grandezza” del progetto neoliberista. E dunque.

Sono anni che il processo chiamato “globalizzazione” segna il passo. Diciamo dalla crisi del 2007-2008, da cui l’Occidente neoliberista non è mai davvero uscito (e Paesi come l’Italia o la Francia meno degli altri, tra quelli medio-grandi). Un periodo che ha visto la crescita impetuosa della Cina, l’ansimante ritorno della Russia come soggetto geopolitico autonomo (a Genova 2001 si celebrò un G8, con Putin al fianco di Bush e Merkel, mentre nel G20 di quest’anno – in Italia – voleranno probabilmente insulti), l’emergere di potenze regionali che ormai schiaffeggiano apertamente gli ex “santi patroni” (chiedere a Ursula von der Leyen quale buon rapporto ci sia tra Unione Europea e Turchia).

Sono anni che il “libero mercato” coincide principalmente con la sfera finanziaria, mentre ogni ex potenza industriale cerca inutilmente di ri-localizzare parte delle produzioni ora posizionate nei Paesi emergenti.

Sono anni che le ricorrenti crisi impongono l’intervento dell’odiato “pubblico” per salvare il sistema delle imprese private. Quando va bene ci sono le banche centrali che “iniettano liquidità” in dimensioni inimmaginabili (senza che peraltro l’inflazione salga, come invece teorizzavano i Chicago boys e tutti i neoliberisti minori, come Giavazzi e Alesina).

Quando va peggio si arriva direttamente alla “socializzazione delle perdite”, con gli Stati che si accollano i fallimenti privati e tramortiscono di tasse le rispettive popolazioni (quasi soltanto i lavoratori dipendenti, in postacci come l’Italia).

Sono anni, infine, che le “istituzioni economiche sovranazionali” si dimostrano dannose, o quantomeno inutili. Il Wto, l’organizzazione internazionale del commercio, ha nella pratica chiuso i battenti. Non definisce più da tempo alcuna regola o standard, tanto non c’è nessuno che le rispetta più. A partire proprio dagli Usa...

La pandemia, infine, ha certificato che anche l’Unione Europea – un insieme di trattati e istituzioni che non sono ancora uno “Stato”, anche se il progetto è quello lì – è un organismo in grado di strangolare un Paese (la Grecia, e giusto un po’ meno l’Italia), ma assolutamente incapace di affrontare collettivamente un problema comune come il virus.

Il massimo che è riuscita a fare è la firma di contratti collettivi secretati con le multinazionali dei vaccini, con effetti pratici sotto gli occhi di tutti.

Per quanto riguarda le conseguenze economiche – dopo 14 mesi! – non è stato ancora stanziato o erogato un solo euro. Il Next Generation EU (o Recovery Fund) è una costruzione barocca densa di condizionamenti e poteri di veto, che probabilmente servirà giusto per finanziare il riarmo dei Paesi europei.

Il Mes – che aveva dominato il dibattito negli ultimi due anni – è scomparso senza lasciare traccia, non appena l’ex presidente della Bce ha assunto i pieni poteri in Italia. Ovvero al termine di quella che persino Goffredo Bettini non può chiamare altrimenti che “una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano [il governo precedente, NdR] sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile“.

Restano ovviamente le grandi alleanze strategiche (la Nato, la stessa Unione Europea), ma cambia radicalmente la prospettiva da cui l’establishment di ogni paese guarda a questi insiemi. È come se finisse il sogno di poter approdare alla pari – un giorno, e a forza di “sacrifici” per i propri sudditi – in un consesso imperiale più vasto e potente.

Ognuno fa il suo gioco, come sempre. Ognuno sfrutta le proprie risorse e le debolezze altrui.

Galli Della Loggia sa bene che in un contesto davvero “competitivo”, in cui tutti giocano contro tutti gli altri, con alleanze sempre strumentali e tendenzialmente variabili (un classico, nella storia della borghesia italiana), non si può far conto su nessuna benevolenza.

Sa che “certe cose” – siano armi o vaccini – è meglio sapersele costruire in casa. Anche avere una compagnia di bandiera o un sistema di telecomunicazioni autonomo, è “strategico”. Così come produrre acciaio, gestire porti ed aeroporti, istruzione di basso e alto livello e ricerca scientifica. Ecc.

Tutta roba buttata via, regalata ai “capitani coraggiosi”, rivenduta a concorrenti, mandata in discarica. Erano serviti decenni per tirarla su, prima che un Prodi o un Bersani qualsiasi si mettessero a farne carne da macello, conto terzi.

Per “tornare allo Stato nazionale” serve avere o costruire una struttura di qualità, fatta di dirigenti che non abbiano come scopo la distruzione del pezzo di amministrazione loro affidato. Innervata da funzionari che non si vendano al primo imprenditore che bussa alla porta. Popolata di impiegati orgogliosi del proprio ruolo e non additati al pubblico ludibrio come “fannulloni” da una casta di ignobili figuri che – sul serio – non ha mai fatto altro nella vita che cercarsi un padrone.

La “riforma” che Brunetta sta cercando di far passare è l’esatto opposto: trasformare la pubblica amministrazione in una riserva di caccia per figli di buona famiglia alla ricerca di un “posto fisso”.

Galli Della Loggia non si occupa di certi “dettagli”. Preferisce volare alto: “i tempi suggeriscono di convincersi che ormai non è più questione di sovranismo no o sovranismo sì. È questione solo di sovranità.”

Giochi di parole in una mente avvitata nella propria disonestà intellettuale. Non serve una cultura enciclopedica per sapere che “sovranismo” è stata un’invenzione lessicale ideologica, il cui unico scopo era liquidare come “destra” qualsiasi resistenza – popolare o di piccola borghesia straccionissima – all’affermazione del “libero mercato”, dell’interesse delle grandi multinazionali industriali e finanziarie.

Perché, come abbiamo provato a dire, “non si può abolire o combattere la sovranità in quanto tale, ma solo discutere e combattere per definire chi decide.” In qualsiasi comunità umana, di qualunque dimensione, si forma un luogo della decisione, che sintetizza – nel bene o, più spesso, nel male – la libera volontà collettiva.

Bastava la normale educazione civica del liceo, insomma, per capire che se la sovranità passa dal popolo ai “mercati” (l’Unione Europea è l’espressione più autentica di questo tentativo di “sussunzione”), non c’è un avanzamento della democrazia, ma la sua liquidazione.

Il che sarebbe ovviamente un enorme problema, ma ancora nell’ambito delle “filosofie della politica”, pur se con conseguenze terribili per le classi popolari, a quel punto strette tra la funzione produttiva, quella del consumo (limitato, e che diamine!) e del silenzio in attesa della morte (produci, consuma, crepa).

La cosa peggiore – come la pandemia si è incaricata di dimostrare – è che questo trasferimento non funziona nemmeno empiricamente.

Il motivo è semplice. La logica di “mercato”, privatistica, non ammette soluzioni collettive per problemi collettivi, ma solo “soluzioni private”. Tra profitto di Big Pharma e bisogno di proteggere la popolazione, nazionale o mondiale, non c’è possibilità di scelta. Vince sempre il primo.

E dunque il problema collettivo – in questo caso la salute, ma avviene lo stesso con l’ambiente e il cambiamento climatico – non può essere risolto. Si finge, si cercano nuove occasioni di business, si offrono soluzioni circoscritte per un pubblico pagante e benestante. Ma il problema sistemico resta intatto.

In ogni caso, il “discorso” di Galli Della Loggia è solo una presa d’atto. L’ideologia “pragmatica” impone di fare di necessità virtù. E dunque, se lo Stato deve tornare al centro, avere un ruolo economico-progettuale e non solo repressivo, va bene così. Viva lo Stato! come prima diceva abbasso il pubblico! (c’è una sottile differenza, tutta intenzionale).

E dunque, rispetto agli alleati di sempre bisogna cambiare cautamente registro: “mantenere saldamente tutti i nostri legami europei e atlantici, ma mantenendo fermo un presupposto che non sempre in passato abbiamo tenuto presente. E cioè che venga rispettata in maniera rigorosa una condizione di eguaglianza e di reciprocità: senza puntigliosità ragionieristiche ma con un’avveduta risolutezza.”

Altra musica, rispetto ai tempi in cui (qualche mese fa) questi stessi opinion maker ci dicevano “lo vuole l’Europa” davanti a qualsiasi decisione anti-popolare.

Questo nuovo “atteggiamento”, com’è ovvio, richiede di nuovo una classe politica fatta di statisti, non una manica di arraffoni che devono soltanto eseguire ordini di Bruxelles o Washington, schiacciare un bottone, fare una dichiarazione e pippare coca nel bagni del Parlamento.

Draghi, in questo senso, è il perfetto trait d’union tra passato e futuro, tra costante fedeltà euro-atlantica e un briciolo di “interesse nazionale” nel teatro mediterraneo. Un Andreotti competente in materia finanziaria, insomma.

Che intorno a lui possa nascere davvero una nuova classe politica, però, non ci sembra facilissimo.

Cambiare personale politico, paradigma culturale (il “pensiero unico” ha desertificato anche le università, non solo le redazioni o i think tank), strumenti istituzionali e operativi, catene di comando, centri di elaborazione, ecc, non avviene con un colpo di bacchetta magica.

Persino nello stesso Corriere questo di Della Loggia è solo il primo contrordine rispetto alla linea degli ultimi 30 anni. Nelle stesse pagine ancora impazzano i fan del taglio della spesa pubblica, delle privatizzazioni a prescindere, del “meno Stato solo mercato” e via fantasticando. Ci vorrà un po’ per far cambiare rotta all’insieme...

Ma questo è un problema dell’establishment, non nostro.

Il nostro problema è lo stato disastroso della capacità analitica “a sinistra”. Veniamo da un trentennio in cui l’”europeismo” è stato assunto come un surrogato dell’internazionalismo, la sovranità confusa con il sovranismo. I fatti curati con le parole...

Una maionese impazzita, sul piano logico e politico, che ha introiettato il pensiero liberale reazionario con la convinzione di poter combattere, così, il conservatorismo nazionalista espressione della piccola borghesia.

Ma se appoggi Draghi per combattere Salvini non è che si avvicina la rivoluzione... Anche perché, come si vede tutti i giorni, quelli riescono sempre a mettersi d’accordo per fottere chi sta “in basso”.

Vien da pensare al patetico Toni Negri che invitava i francesi, nel 2005, a votare a favore della “costituzione europea”. Ossia a favore del trasferimento della sovranità dal popolo al mercato. Chi glielo dice, adesso, che l’establishment, verificato di aver fallito, sta cambiando idea?

*****

La nuova e inattesa sovranità: così torna lo Stato nazionale

Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera

Con gli effetti che produce nella realtà delle cose e nelle mentalità delle persone la pandemia, che da tempo imperversa nel mondo, sta contribuendo potentemente a rendere evidente anche la crisi della globalizzazione. La crisi cioè — se non forse la fine — di quella fase storica che per almeno un trentennio ha dominato la realtà economica e ideologica del nostro pianeta. Sono almeno tre i fattori che stanno segnando la probabile fine del ciclo storico apertosi negli anni '80 del secolo scorso.

Il primo fattore è la definitiva frantumazione dell’ordine internazionale uscito dalla fine «guerra fredda« (1991). Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto — Cina, Russia, Turchia, Iran, India — e altre minori premono in cerca di spazio.

Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti. Né d’altro canto la globalizzazione sembra avere prodotto alcuna apprezzabile diffusione della democrazia, mentre il mito della pace — tanto più se «mondiale» — si rivela sempre più un mito.

Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio — che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001 — ha perduto buona parte del suo consenso.

Il libero scambio, infatti, ha determinato sì la crescita economica di alcuni Paesi (molto probabilmente però a scapito di quella di altri), ma ha mostrato un drammatico punto debole. Anzi due.

Innanzi tutto dietro il suo schermo e grazie ad esso ha potuto prendere forma l’inquietante progetto di Pechino volto a impadronirsi di punti geografici chiave, di risorse e di tecnologia strategiche dell’economia mondiale, al fine di costruire la propria egemonia planetaria. Così come del resto, bisogna aggiungere, ogni Paese ha cercato in realtà di far girare le cose a proprio esclusivo vantaggio.

In secondo luogo, proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo.

Ma oggi ci accorgiamo che proprio su questo punto è lecito nutrire più di un dubbio: davvero non ha alcuna importanza, ad esempio, che una fabbrica, mettiamo di vaccini o di mascherine, si trovi in Italia o chissà dove? Che essere in grado o no di produrre in casa propria certi dispositivi elettronici sia indifferente?

Il terzo elemento che induce a pensare che stia finendo il tempo della globalizzazione riguarda il ruolo dello Stato, che la globalizzazione stessa prevedeva e auspicava avviato al declino.

Discutibile o meno che sia l’auspicio quel che è certo è che almeno la previsione non si sta rivelando azzeccata. Infatti l’arrivo dei tempi difficili portati dall’epidemia ha obbligato tutti a rivolgersi allo Stato: per sperare di essere curati, per avere indicazioni su che cosa fare, per ottenere aiuti di ogni tipo, per immaginare un rilancio dello sviluppo economico.

Sotto gli occhi increduli di molti lo Stato, l’organizzazione dei pubblici poteri, il loro intervento nella sfera sociale, stanno oggi ricevendo in Occidente una fortissima rilegittimazione ideologica da cui sembra assai difficile che domani si possa tornare indietro.

Tanto più che, sopraggiunta l’emergenza, l’intera trama del multilateralismo e delle organizzazioni internazionali — in particolare quella di nostro maggiore interesse, l’Unione Europea — non hanno mostrato certo né una grande efficienza né un alto tasso di compattezza e di solidarietà.

Come punto di riferimento è rimasto in piedi bene o male solo lo Stato: e non dispiaccia a nessuno se per Stato s’intende ovviamente lo Stato nazionale. Se le cose fin qui dette sono vere esse significano un fatto molto importante: la riproposizione con forza del tema della sovranità e del suo ovvio intreccio con la politica.

Il tema cioè della capacità propria dello Stato di esercitare il potere al servizio di un progetto collettivo. Un potere che può trovare un limite solo in forza di una propria autonoma decisione: un potere sovrano dello Stato nazionale che nei regimi democratici come il nostro equivale alla sovranità del popolo, fonte attraverso i suoi rappresentanti di tutte le decisioni e azioni dello Stato stesso.

Un tale cambiamento di prospettiva non può che avere conseguenze positive sulla discussione politica italiana, negli ultimi anni avvitatasi in maniera in buona parte surrettizia proprio intorno al tema della sovranità. Con il centro-sinistra rivolto a sottolineare la positività di qualunque cessione o esercizio attenuato della sovranità da parte dell’Italia — quasi si trattasse di chissà quale manifestazione di una superiore civiltà — e la destra invece belluinamente contro, intendendosela con i peggiori impresentabili della scena europea e perciò attirandosi l’accusa di «sovranismo»: che ormai nel lessico del perbenismo ideologico suona più o meno come sinonimo di nazismo.

Ma i tempi suggeriscono di convincersi che ormai non è più questione di sovranismo no o sovranismo sì. È questione solo di sovranità.

Che oggi più che mai appare necessario riformulare per gli anni che abbiamo davanti un ruolo attivo e propulsivo a tutto campo dello Stato nazionale e della sua volontà politica.

Ciò che per un verso rende urgentissima la riforma di tutte le sue amministrazioni e l’opposizione più decisa alla frantumazione regionalistica, e per un altro ci deve spingere a mantenere saldamente tutti i nostri legami europei e atlantici, ma mantenendo fermo un presupposto che non sempre in passato abbiamo tenuto presente.

E cioè che venga rispettata in maniera rigorosa una condizione di eguaglianza e di reciprocità: senza puntigliosità ragionieristiche ma con un’avveduta risolutezza.

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