Ci siamo quasi. Il governo Draghi sta passando dalla fase in cui era centrale la campagna vaccinale a quella in cui si prendono le decisioni economiche previste dal Recovery Plan.
Sul piano strettamente politico, ciò significa che avremo certamente e ancora un gran chiacchiericcio dei partiti intorno a coprifuoco, orari, misure di sicurezza antivirus e gradi di apertura dei vari esercizi commerciali (le attività industriali, ricordiamo sempre, non sono mai state interrotte, amplificando la circolazione del contagio e la strage che continua). Ma questi starnazzamenti saranno molto più facilmente leggibili come puro “posizionamento politico”, un “piantar bandierine” per farsi notare e distinguere dal partito identico alla propria destra o “sinistra”.
Siamo alle cose serie, ora. Ossia alle “riforme chieste dall’Europa” in cambio di prestiti che dovranno essere in gran parte restituiti.
Le prime due uscite sono altamente indicative; riguardano il sistema degli appalti pubblici e il blocco dei licenziamenti. In entrambi i casi le soluzioni scelte dal governo – in cui, com’è noto, il “cerchio magico dei tecnici” decide e gli altri ministri “politici” seguono le cosette minori – sono decisamente di destra. Ossia totalmente a favore non solo delle imprese, ma persino della criminalità organizzata.
Occupiamoci prima della cosa per noi più importante, che sono ovviamente le condizioni dei lavoratori dipendenti. Il decreto in discussione a Palazzo Chigi prevedeva la proroga del blocco dei licenziamenti fino al 28 agosto. Confindustria, con il presidente Bonomi e tutta la corte dei servi contenti (i media, in primo luogo), hanno fatto le loro rimostranze pretendendo libertà di licenziamento subito (a partire dalla scadenza del precedente decreto; il 20 giugno).
Il banchiere centrale ha naturalmente accolto senza riserve questa pressione e così i tre scaglioni in cui era articolato il blocco scendono a due: dal 30 giugno le grandi imprese potranno cominciare a licenziare, mentre le piccole potranno farlo dal 31 ottobre (la cassa integrazione straordinaria finirà a quella data).
L’unica misura “limitativa”, si fa per dire, resta un semplice incentivo: se dal primo luglio le grandi aziende useranno la Cassa integrazione ordinaria senza licenziare, non pagheranno le addizionali previste dalla legge. Un bonus valido sei mesi, fino al 31 dicembre, del valore di pochi milioni (messi dallo Stato)
L’impianto messo in piedi dal ministro del lavoro Orlando per il lavoro resta identico per quanto riguarda agevolazioni, decontribuzione, sussidi.
L’appiglio “tecnico” cui si è aggrappata Confindustria è la cosiddetta “simmetria” fissata nei precedenti decreti anticrisi: le imprese che usavano la Cig-Covid (straordinaria, dunque, e interamente a carico dello Stato) non potevano licenziare. Se fosse stata approvata la proroga di due mesi, quelle stesse aziende avrebbero dovuto far ricorso alla Cassa integrazione ordinaria, che viene pagata invece da un fondo apposito cofinanziato da imprese e lavoratori (con trattenute sul salario).
La Cig ordinaria, oltretutto, può durare anche due anni: e dunque non si capisce quale “danno” ne avrebbero ricevuto le aziende stesse. Sembra palese che non ci sia alcuna ragione economica nella protesta confindustriale, ma solo la volontà politica di poter cominciare a sbattere fuori lavoratori dipendenti con contratti regolari e sostituirli (eventualmente) con precari ricattabili a basso prezzo.
La stessa Banca d’Italia, nei suoi studi, prevede che in questo modo diventino possibili 557.000 licenziamenti nei mesi estivi e/o alla ripresa di settembre. Il calcolo non è complicato, visto che l’Inps erogava ancora a febbraio 530.000 Cig-Covid.
La seconda questione, altrettanti indicativa della natura reazionaria di questo governo, riguarda il cosiddetto “decreto semplificazioni”. Il cui punto fondamentale è la modifica radicale del Codice degli appalti, che a sua volta presenta almeno due versanti diversi. Uno riguarda il sistema regolatorio dei subappalti (e relativi controlli) sul piano legale (certificazione antimafia delle aziende sub-appaltatrici, ecc); l’altro i rapporti contrattuali dei lavoratori dipendenti assunti in queste imprese di “serie B”.
La Lega vorrebbe addirittura l’azzeramento del Codice degli appalti, così da dare via libera a tutta una serie di imprese in odor di mafia o ‘ndrangheta (basta vedere le non molte inchieste sul “movimento terra” dei lavori Tav in Valsusa, per esempio; ma anche in altre regioni).
Il tutto, naturalmente, sotto la bandiera dell’”azzeramento della burocrazia”... Un tema che i padroni sentono molto, visto che l’algido Franco Bernabè – ancora non insediato sulla poltrona di primo dirigente dell’ex Ilva di Taranto – intervistato dalla Gruber spiegava ieri sera che “i controlli si possono fare ex post con il codice penale”. Ovvero solo se succedono disastri o arrestano qualcuno seguendo un’altra pista...
Non parliamo poi di cosa accade sul piano contrattuale e salariale... Già oggi, addirittura in aziende controllate dallo Stato come Fincantieri, lavorano operai assunti in Bangladesh, Pakistan, India, ecc., da imprese sub-appaltatrici registrate in quei paesi. Con salari che forse persino Bolkestein troverebbe vergognosi...
Anche qui, però, vien fuori che queste modifiche al Codice degli appalti arrivano direttamente... dall’Unione Europea. Ad esempio, la possibilità di allargare la quota di manodopera in subappalto dall’attuale 30% al 40%. Un progresso, no?
Se la situazione non fosse tragica ci sarebbe da ridere.
Queste misure vengono prese in un quadro sociale devastato. Proprio ieri il presidente dell’Istat, Giancarlo Blangiardo, illustrava i dati secondo cui nel 2020 in Italia è stato raggiunto il “livello più alto mai osservato della quota dei poveri“. Tanto che si trova in povertà assoluta “circa un milione di persone” in più.
Gli effetti sulla dinamica demografica sono devastanti, perché ovviamente le generazioni in età fertile rinviano ogni progetto di mettere al mondo figli, che non potrebbero probabilmente mantenere. Il che si somma alla strage da Covid, definita così dallo stesso Blangiardo: “Noi abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, la terza guerra mondiale. I 120 mila morti che ci sono stati da febbraio dell’anno scorso in più sono l’equivalente di ciò che è successo dal 10 giugno del 1940 all’8 settembre del 1943 (conteggiando i civili, i militari e anche i dispersi). In termini di vite umane quello che è successo è stata una catastrofe e i dati statistici ce lo dimostrano in maniera chiara“.
Tanto che lo scorso anno “ha segnato una forte riduzione della speranza di vita, circa un anno a livello nazionale e due anni e mezzo a livello lombardo. Vuol dire che siamo tornati indietro di 20 anni in certi luoghi, in provincia di Bergamo per esempio, ma in generale in Lombardia di almeno 10 anni. Mi auguro che il 2021, 2022 e il 2023 siano ben diversi dal 2020 ma ci dà una dimensione della portata di ciò che è accaduto“.
Anche la spiegazione di questa mattanza è ineccepibile, ma risulta più forte se fornita da una istituzione scientifica di grande livello: durante la pandemia di Covid-19 “abbiamo pagato un prezzo così alto anche perché, per qualche anno, l’investimento nella sanità era stato fortemente ridimensionato“.
Secondo il presidente dell’Istat, è cresciuta “l’età media dei medici e il carico sui medici stessi“, una “minor forza lavoro in alcune specialità e quindi anche decisamente meno risorse“. Il che, quando è scoppiata la pandemia, ha fatto crollare le possibilità di difesa.
Questo è il quadro. E il governo Draghi si premura di renderlo ancora più drammatico, pur di “favorire le imprese”...
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