Sulla vicenda del volo della Ryanair Atene-Vilnius, costretto a un atterraggio d’emergenza all’aeroporto Minsk-2 lo scorso 23 maggio si è scritto molto, ma non tutto.
L’attenzione si è per lo più concentrata, da un lato, sull’aspetto “tecnico-operativo” dell’arresto del nazista Roman Protasevič, gestore del canale Telegram “Nexta” e, dall’altro, sull’atterraggio (forzato o meno) dell’aereo civile scortato da un MiG-29 bielorusso, ricordando giustamente i vari casi non bielorussi di effettiva costrizione all’atterraggio, a conferma della massima del quod licet Iovi non licet bovi.
Tutto giusto. Ma non è tutto. Per prima cosa, solo in pochi casi si è posta la prima domanda di prammatica: a chi giova? E si è generalmente sorvolato anche sulla seconda: perché proprio ora?
Si è pressoché trascurata la domanda sul perché l’aereo civile, ormai prossimo al confine lituano al momento della mail con l’allarme-bomba – la mail proveniente da un indirizzo Protonmail recapitata dall’aeroporto di Minsk e da qui comunicata all’equipaggio del velivolo: inizialmente attribuita a Hamas e poi smentita dalla stessa Hamas – abbia deciso di dirottare su Minsk e non, per dire, su L’vov, o Varsavia, o sulla stessa Vilnius.
Ovviamente, gli indignati “democratici” hanno tuonato che vi sia stato costretto sotto minaccia delle armi e se ne sono rimasti zitti, quando la pubblicazione della registrazione dei colloqui tra piloti e controllo aereo ha smentito ogni costrizione.
Secondo le autorità bielorusse, i piloti stessi avrebbero chiesto il permesso di atterrare a Minsk; dato che il traffico radio del controllo aereo bielorusso è registrato di routine anche nei paesi vicini, non dovrebbero esserci particolari problemi a verificare la cosa. Volendo farlo...
Se la decisione di atterrare a Minsk è stata davvero presa liberamente dai piloti, come mai essi, invece di dirigersi verso l’aeroporto più vicino (Vilnius) hanno deciso di far rotta su Minsk?
La domanda dovrebbe esser girata alla direzione di Ryanair che, a quanto pare, avrebbe dato l’indicazione ai piloti. I fatti sono questi: l’aereo è entrato nello spazio aereo bielorusso alle 12:30 ed è stato subito informato della mail con l’allarme-bomba; ma solo alle 12:47 i piloti hanno inviato il segnale di mayday e fatto rotta su Minsk.
Dopo di che, come da prassi mondiale, si è alzato in volo il MiG-29 bielorusso. La cosa potrebbe esser confermata dalle registrazioni radar NATO, ma è poco probabile che ciò avvenga, perché cadrebbe ogni montatura.
Il “dittatorello” Aleksandr Lukašenko – i democratici tutti d’un pezzo hanno deciso che anche la qualifica di “dittatore” affibbiata al bats’ka gli renda troppo onore – ha rivelato ciò che era chiaro: né Vilnius, né L’vov, né Kiev, né Varsavia hanno voluto accordare l’atterraggio sul proprio territorio e qualcuno aveva interesse che l’aereo prendesse terra proprio a Minsk.
Dopo l’allarme-bomba, ha detto Lukašenko, il pilota «ha riflettuto un quarto d’ora. Si è consultato sia con la proprietà – questo lo sappiamo – che con l’aeroporto di Vilnius... Immaginatevi: 15 minuti in una situazione del genere, forse anche di più, tra chiamate e consultazioni».
Immaginatevi: con chi doveva consultarsi la proprietà prima di dare indicazione ai piloti?
Anche il periodo in cui si è verificato l’incidente non è esattamente “casuale”: certi fatti non si verificano mai casualmente. Quella che è probabilmente la principale concorrente di Minsk, specialmente in campo energetico – i rapporti bielorussi-ucraini meritano un discorso a parte – e cioè Varsavia, è rimasta abbastanza scioccata dalle ultime dichiarazioni (ufficiali) di Joe Biden a proposito del fatto che il “North stream 2” è quasi ultimato e introdurre ora sanzioni contro la Russia sarebbe controproducente per i rapporti USA-Europa.
Varsavia ha replicato, affermando che «il mantenimento delle sanzioni sarebbe stato importante» e che la realizzazione del «gasdotto equivale a consegnare le armi alla Russia».
Infatti, il 21 maggio, Washington ha sanzionato altre 13 navi e tre organizzazioni russe che partecipano alla realizzazione del gasdotto, ma due giorni prima Anthony Blinken aveva annunciato la rinuncia USA a sanzioni contro la tedesca “North Stream 2 AG” e il suo AD Matthias Warnig. Per Varsavia e le capitali baltiche era dunque urgente recuperare posizioni.
Così, dopo il 23 maggio, si è aperto un fuoco di fila a favore di sanzioni contro Minsk e anche contro Mosca, tanto che, già il giorno successivo, erano in molti a porsi la domanda se fosse stato Lukašenko a inscenare l’incidente per arrestare Protasevič, o invece a Ovest (anche agli immediati confini con la Bielorussia) si fosse tesa una trappola a Lukašenko per avere un pretesto per nuove sanzioni.
Ora Minsk, oltre a iniziare le indagini sugli autori della falsa mail con l’allarme-bomba, ha proposto a Vilnius di condurre un’indagine congiunta sulla vicenda e ha anche invitato CAO, IATA, EASA e funzionari dell’aviazione civile europea e statunitense a recarsi sulla scena per valutare le circostanze dell’incidente.
Anche questa circostanza poco risponde allo scenario di un Lukašenko che decide di sfidare regole e leggi internazionali per acciuffare un “dissidente”, pur anche al soldo del Dipartimento di Stato USA.
Dunque, l’altra domanda che sorge automatica è se Minsk abbia tratto vantaggio dalla vicenda. Si può rispondere affermativamente, avendo potuto metter le mani su un nazista ricercato per terrorismo.
Ma, davvero Minsk aveva bisogno di inscenare quello spettacolo e dare così la stura alle reazioni occidentali? Ha davvero senso porre la questione nei termini di un “incidente con l’aereo fatto atterrare a Minsk per arrestare l’oppositore”? Davvero la polizia bielorussa non disponeva di altri sistemi o occasioni per bloccare l’ex terrorista di “Azov”? Questo non vuol dire che a Minsk non si sapesse chi viaggiava sull’aereo; ma non vuol dire altro.
Come scrive Thomas Röper su Anti-Spiegel, dopo il fallito colpo di stato orchestrato dagli USA, che prevedeva l’uccisione di Lukašenko e dei suoi figli, è improbabile che bats’ka sia interessato a un’ulteriore destabilizzazione del paese, ed è altrettanto improbabile che Protasevič sia così importante per lui: dunque, a conti fatti, Lukašenko, più che guadagnare dalla vicenda, ci ha rimesso.
Dall’altro lato, l’Occidente ha tratto beneficio dalla storia? Sufficientemente, dato che a ovest si è interessati a destabilizzare la Bielorussia e avere un pretesto per nuove sanzioni che, provocando una crisi economica, potrebbero portare al rovesciamento di Lukašenko.
Inoltre, con il relativo silenzio calato sulla “presidente” Svetlana Tikhanovskaja (poco tempo prima di Protasevič, lei stessa aveva effettuato lo stesso volo, ma non era stata fermata allo stesso modo del blogger nazista) c’era bisogno di un “martire” più fresco, sinora sconosciuto.
Per inciso, nota ancora Thomas Röper, questo potrebbe anche essere un «motivo per cui Protasevič ha immediatamente confessato, quando ha capito che i suoi curatori occidentali lo avevano sacrificato, usandolo per una campagna mediatica. Rischia 15 anni, ma confessando e rivelando gli obiettivi e i nomi di chi gli sta alle sue spalle, può ridurre notevolmente la pena».
L’aspetto più interessante della vicenda verrà comunque a galla, probabilmente, allorché la polizia bielorussa renderà pubblici i file di Protasevič: non solo la “stipendiata Tikhanovskaja” ha già dato avvisaglie di nervosismo, ma anche i Servizi polacchi e lituani sono in stato di preallarme.
Solo di sfuggita, ricordiamo come la Lituania costituisca il rifugio di tutta la “dissidenza democratica”, anche di quella russa. Sempre per inciso, diciamo che, insieme a Protasevič, il 23 maggio è stata fermata anche la sua amica e collaboratrice di “Nexta”, Sofia Sapega (russa, ma anche lei residente in Lituania), accusata di aver pubblicato dati personali di funzionari del Ministero degli interni bielorusso: stesso metodo dell’ucraino “Mirotvorets”, che pubblicava nomi, indirizzi e tutti possibili dati sui piloti russi impegnati in Siria, dandoli in pasto ai terroristi islamisti e continua a stilare “liste nere” di simpatizzanti (anche italiani) delle Repubbliche popolari del Donbass.
Più che direttamente a ovest, Christelle Néant, su Donbass-insider, punta il dito dei possibili registi della vicenda a sud della Bielorussia: su Kiev, ricordando sia il caso del volo Belavia dell’ottobre 2016, sia l’episodio del luglio 2020, con il tentativo (fallito) di cattura da parte ucraina di 33 russi arrestati dal KGB bielorusso, sottolineando anche come molte Protonmail provengano proprio dall’Ucraina.
Per quanto riguarda direttamente il bats’ka, egli, parlando il 26 maggio di fronte al Parlamento, ha ammonito sul pericolo di conflitto mondiale in caso di attacco alla Bielorussia. «Siamo un piccolo paese» ha detto, «ma risponderemo adeguatamente. Prima di fare movimenti bruschi e sconsiderati, ricordate che la Bielorussia è al centro dell’Europa. E se qualcosa scoppia qui, ci sarà l’ennesima guerra mondiale».
In caso di aggressione, ha detto, la Bielorussia «non conta di ottenere la vittoria, ma le sue forze armate possono arrecare al nemico un danno per lui inaccettabile... Come dimostrano le vicende degli ultimi due giorni, non ci lasceranno vivere in pace... Ma dobbiamo resistere».
La vicenda del volo Ryanair è stata un «autentico regalo per i Paesi baltici» afferma l’analista di Rubaltic.ru, Aleksej Il’jaševič, «soprattutto per la Lituania, ma anche per Estonia e Lettonia, che da tempo osservavano preoccupate la stabilizzazione bielorussa».
Ci sono appelli a boicottare i prodotti petroliferi e i fertilizzanti bielorussi: due delle sue principali fonti di bilancio. E in effetti Washington ha già riattivato le sanzioni contro varie imprese del trust “Belneftkhim”, colpendo così anche le ditte europee che operano con le compagnie inserite nella “lista nera” USA.
A dirla tutta, e per concludere, a trarre vantaggio dalla vicenda, soprattutto per gli aspetti economici e per la collaborazione nel settore militare-industriale, alla fin fine potrebbe essere la famosa integrazione russo-bielorussa. Ma questa è un’altra storia, che va avanti da anni ma che stenta a decollare davvero: in questo caso, non pare proprio potersi parlare di “decollo forzato”!
Insomma, il 23 maggio, se ha dimostrato qualcosa, è che a ovest non si è per nulla abbandonato il piano di fare della Bielorussia un’altra “Ucraina majdanista” ai confini russi, ma che bats’ka Lukašenko non ha proprio nulla del fuggitivo Viktor Janukovič.
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