Per un presidente del Consiglio che parla poco e – quando lo fa – pronuncia frasi che diventano subito “perle di saggezza”, il rischio di dire cazzate è alto. Tutto dipende da fortuite coincidenze che possono convalidare o ridicolizzare la sua ultima “sentenza”.
E quando accadono fatti gravissimi come quelli della funivia del Mottarone, l’effetto è terribile.
Prendiamo il caso del “rischio ragionato”, con cui ha deciso di accelerare le riaperture degli esercizi commerciali in tutta Italia, nonostante l’ancora alto numero di contagi e morti. Gli è andata bene, fin qui, grazie a una campagna di vaccinazione che finalmente ha potuto contare su forniture adeguate di “munizioni” (le dosi di vaccino) e il passaggio alla stagione calda, che aumenta il tempo passato all’aperto e diminuisce gli assembramenti al chiuso.
Con il “decreto semplificazioni”, invece, la fortuna ha abbandonato il banchiere centrale venuto a metter ordine mittel-europeo nell’incasinato ingorgo amministrativo di una Stato mediterraneo.
Neanche il tempo di analizzare il testo, immaginare le possibili conseguenze di medio e lungo periodo, ed ecco una cabina di funivia schiantarsi al suolo, portandosi via 14 vite e lasciando conseguenze inimmaginabili, fisiche e psicologiche, su un bambino di 5 anni, l’unico sopravvissuto.
L’impatto mediatico, proporzionale a quello fisico, ha spinto la magistratura ad operare in modo adeguato, portando alla scoperta del segreto di pulcinella: per non perdere l’occasione della “ripartenza” del turismo, il concessionario privato della funivia (di proprietà pubblica), aveva scelto di disinserire i freni di emergenza, che davano problemi da più di un mese. Quando ha ceduto il cavo trainante – ed anche questo avrebbe dovuto essere monitorato con tecniche specifiche, con grande frequenza – niente ha più trattenuto la cabina, precipitata per oltre 500 metri.
«Per evitare continui disservizi e blocchi della funivia, c’era bisogno di un intervento radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone», ha spiegato il magistrato dopo gli interrogatori e le confessioni dei primi tre imputati.
Per assicurarsi quattro lire di profitto in più – la società, come è emerso già ieri, era oltretutto in attivo e senza problemi economici – il gestore dell’impianto ha insomma deliberatamente corso il “rischio ragionato” di bloccare l’impianto frenante di emergenza, ultima difesa dalla tragedia in caso di incidente.
Pari pari a quanto fatto da un imprenditore di ben più grandi dimensioni, la famiglia Benetton, nel caso di Autostrade e del Ponte Morandi.
Lo stesso “metodo” produttivo era stato messo in pratica sull’orditoio che ha ucciso Luana D’Orazio, la giovanissima operaia e madre di Montemurlo: una saracinesca di sicurezza tolta per “non rallentare il lavoro” e garantire quattro spicci in più al datore di lavoro.
La stessa logica agisce nelle fabbriche e nei cantieri, uccidendo da anni in media tre persone al giorno, record europeo ancora ineguagliato.
Lo stesso accade persino nelle Ferrovie dello Stato – società pubblica, ma gestita in modo “manageriale” fin dai tempi di Mauro Moretti – dove i controlli sulle motrici, le carrozze, i binari, “è meglio farli alla buona”, senza fermare mai nulla. Altrimenti ti licenziano o ti mandano in reparti confino. Anche se poi, quando gli “incidenti” avvengono, i morti sono un numero imprevedibile.
Ma tanto, anche se FS deve pagare i risarcimenti alle vittime, quelle cifre sono inferiori a quanto risparmi sulla “sicurezza”.
Il Corriere della Sera, oggi, ha sfornato un pensoso editoriale di Antonio Polito intorno all’”etica del capitalismo” che sarebbe andata smarrita. Un’opera di alta ipocrisia per deviare l’attenzione dalla pratica effettiva, quotidiana e omicida del capitalismo reale, invitando ad occuparsi di quanto sarebbe altrimenti bello il capitalismo ideale, raggiungibile con adeguate “riforme”.
C’è metodo, in questa apparente follia. Una razionalità omicida, in questa “avidità irragionevole”.
La libertà d’impresa conosce da sempre un solo obbiettivo: il massimo guadagno. Nulla, neanche la morte, deve poter fermare la produzione, la circolazione, la vendita delle merci. Ogni istante dedicato alla manutenzione, alla messa in sicurezza di chi lavora oppure viaggia sui servizi (pubblici o privati, non fa differenza, ormai), è “tempo perso”, “burocrazia”, “mancanza di cultura di impresa”.
I controlli – come blaterano tutti i manager e il loro servi di redazione – “si possono fare dopo”, a babbo morto, magari con ispettori Inail sotto organico ed obbligati ad avvertire prima le aziende sulla propria prossima visita.
Poi, “se c’è un guaio”, sono problemi del singolo imprenditore “sfortunato” (il “rischio ragionato” non pretende mica la perfezione). Ma lo show deve andare avanti a tutti i costi.
Neanche la pandemia ha incrinato di una virgola questo schema fisso. Ricordiamo il presidente di Assolombarda inveire contro la chiusura delle fabbriche della bergamasca, fino ad ottenere obbedienza politica e il più alto numero di morti d’Europa in rapporto alla popolazione.
Ricordiamo il suo collega di Macerata chiedere le stesse cose accompagnandole con un più cinico “e anche se qualcuno morirà, pazienza”.
Si potrebbe andare avanti all’infinito. In questo sistema la vita non vale nulla, se non serve a produrre guadagno, profitto, ricchezza estorta e privatizzata. Vale per gli esseri umani come per l’ambiente, in caso di pandemia come per l’ordinaria amministrazione. Per gli anziani come per i giovani.
Il “decreto semplificazioni” di Mario Draghi, che recepisce in pieno le indicazioni dell’Unione Europea e di Confindustria (nell’ordine), vuole segnare l’affermazione assoluta di questa logica stragista.
Potrà perciò essere ribattezzato “decreto Mottarone”. Non se ne dorrà per così poco.
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