Il caos a Bamako è riesploso lunedì dopo che il vice-presidente e leader della giunta golpista, colonnello Assimi Goïta, ha ordinato la detenzione degli esponenti più importanti dello stato e del governo del Mali. Il presidente, Bah N’daw, il primo ministro, Moctar Ouane, e il ministro della Difesa appena nominato, Souleymane Doucoure, sono finiti in stato di fermo nella base militare di Kati, a una manciata di chilometri dalla capitale.
La decisione di Goïta è stata annunciata in un’apparizione televisiva, nella quale l’alto ufficiale maliano ha spiegato che i tre arrestati hanno agito “al di fuori delle loro funzioni” e l’intervento si è reso necessario per “salvare l’accordo di transizione e la repubblica”. L’accordo a cui ha fatto riferimento Goïta era stato sottoscritto nell’ottobre scorso, dietro pressioni internazionali, per aprire un percorso condiviso verso il ristabilimento entro 18 mesi della democrazia formale in Mali dopo il colpo di stato dell’agosto precedente.
Il processo di transizione aveva fatto nascere un nuovo governo ad interim, guidato appunto dal premier Ouane. Quest’ultimo nei giorni scorsi ha però deciso la rimozione di due ministri alleati di Goïta, i colonnelli Sadio Camara e Modibo Koné, rispettivamente alla Difesa e alla Sicurezza, senza consultare lo stesso vice-presidente. La mossa di Ouane sembrerebbe essere motivata dal desiderio di limitare l’influenza dei militari sul governo e ha fatto scattare subito l’intervento di Goïta e degli ufficiali golpisti.
Da un punto di vista formale, l’accusa contro il governo non ha fondamento, visto che l’accordo di transizione non prevede alcuna consultazione con il vice-presidente per la nomina dei ministri. Inoltre, l’organo che aveva assunto i poteri dopo il golpe dell’agosto 2020, il cosiddetto Consiglio Nazionale per la Salvezza del Popolo (CNSP), non ha ufficialmente prerogative di supervisione del processo politico, in quanto disciolto lo scorso gennaio.
Il venir meno della presenza di personalità legate alle forze armate nel governo dopo il rimpasto di breve durata non sembra essere la ragione principale, almeno non in maniera diretta, dei fatti accaduti lunedì in Mali. Lo stesso presidente N’daw è ad esempio un ex ufficiale, mentre i due sostituti dei ministri della Difesa e della Sicurezza rimossi provengono anche loro dall’ambiente militare. A scatenare la nuova crisi è stato in primo luogo il precipitare della situazione interna, con un paese attraversato da scioperi e proteste sempre più massicce.
In questo scenario, la principale forza politica che appoggia il governo di transizione, il Movimento 5 Giugno – Raggruppamento delle Forze Patriottiche (M5-RFP), avrebbe fatto pressioni sul presidente per operare dei cambi in alcuni ministeri, in modo da dare l’impressione di un allentamento del controllo dei militari sull’esecutivo. Il M5-RFP era emerso nei mesi scorsi come il soggetto più importante nella resistenza al golpe militare ed era stato perciò coinvolto nei negoziati che avrebbero portato all’accordo per il ristabilimento della “democrazia”.
Questo movimento aveva ricevuto l’appoggio della Francia per incanalare verso il piano di transizione le proteste popolari contro la presenza dei soldati di Parigi in Mali. Il malcontento e le frustrazioni in uno dei paesi più poveri del pianeta non hanno fatto però che aumentare nei mesi successivi, fino a sfociare in una vera e propria ondata di scioperi. La settimana scorsa, in particolare, ampi settori dell’economia maliana, incluse le banche e i servizi pubblici, si erano bloccati per protestare contro il mancato accordo sull’aumento dei salari, già in fase di discussione con il precedente governo.
Il secondo golpe promosso dal colonnello Goïta si inserisce in questo clima e, così come le pressioni sul governo da parte del M5-RFP, è da collegare all’incapacità delle autorità civili ad interim di mettere fine alla mobilitazione popolare e stabilizzare la situazione nel paese. Una stabilizzazione che serve anche alla Francia per conservare la propria presenza militare in un’area del continente africano di enorme importanza strategica, soprattutto per le risorse energetiche di cui dispone.
La situazione attuale del Mali ha parecchie analogie con quella che aveva portato al colpo di stato dell’agosto 2020. L’allora presidente, Boubacar Keita, era stato costretto a leggere un comunicato in cui annunciava le sue dimissioni dalla stessa base militare di Kati dove sono avvenuti i fatti di lunedì. I militari erano intervenuti dopo avere preso atto dell’incapacità del governo, nonostante la mano pesante delle forze di polizia, di reprimere le proteste di massa che si susseguivano da mesi. A scatenare la rabbia popolare erano state anche allora la disastrosa situazione economica, la pessima gestione della pandemia di COVID-19, la presenza militare francese e le ripetute atrocità collegate alla guerra contro le milizie fondamentaliste nel nord del paese.
Dopo il secondo golpe di questa settimana è arrivata l’immediata condanna della comunità internazionale. L’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’Unione Africana e le Nazioni Unite hanno emesso comunicati per denunciare la nuova iniziativa dei militari maliani e per chiedere la scarcerazione dei politici arrestati, così come il reinsediamento del governo nominalmente civile e il rispetto degli accordi sulla transizione.
Il presidente francese Macron ha parlato di “golpe nel golpe”, mentre ha minacciato sanzioni e chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza ONU. La reazione di Parigi nasconde tuttavia obiettivi decisamente più sfumati. Il problema per l’Eliseo non è la nuova rottura del fragilissimo equilibrio democratico in Mali, ma piuttosto la restituzione di una parvenza di legittimità al processo di transizione, in modo da contenere le proteste anti-francesi e continuare a mantenere la propria presenza nel paese del Sahel. Il ministro degli Esteri, Jean-Yves le Drian, ha fatto intravedere le intenzioni di Parigi in un intervento all’Assemblea Nazionale, dove ha evitato di definire esplicitamente i fatti di Bamako come un “golpe militare”, per poi insistere sul lancio di negoziati tra Goïta e le autorità civili, in modo da rimettere in carreggiata la transizione.
Lo sdegno di Macron e del suo governo per i fatti del Mali è quindi a dir poco vergognoso, anche perché la situazione nella ex colonia di Parigi è la diretta conseguenza dell’intervento militare francese che risale ormai a quasi un decennio fa. Il Mali era finito nel caos a causa dei contraccolpi del rovesciamento del regime di Gheddafi in Libia, anche in quel caso orchestrato dalla Francia in collaborazione con Londra e Washington.
Quegli eventi avevano innescato una sorta di ribellione contro il governo centrale da parte dei Touareg che vivono nel nord del Mali, coalizzatisi momentaneamente con gruppi islamisti. La perdita di territorio e pesanti sconfitte militari subite da Bamako avevano portato all’intervento francese, lanciato ufficialmente per combattere il “terrorismo” nell’area sub-sahariana, ma con l’obiettivo di salvare le strutture statali dal collasso e garantire gli interessi di Parigi.
Negli anni successivi, le operazioni militari francesi avrebbero aggravato la situazione, provocando un inasprimento dei conflitti interetnici, sfociati in ripetuti massacri di civili e ondate di profughi. Gli stessi soldati francesi e le forze armate del Mali, assieme alle quali operano, sono stati protagonisti di numerosissimi episodi di violenza e di assassinii, contribuendo ad alimentare i sentimenti di avversione della popolazione maliana contro la ex potenza coloniale.
Uno dei casi più clamorosi, che ha trovato spazio recentemente anche sui media occidentali, è stata la strage provocata da un bombardamento aereo francese nel mese di gennaio. Sull’episodio avevano indagato le Nazioni Unite e il rapporto definitivo, pubblicato alla fine di marzo, stabiliva che il raid aveva causato la morte di almeno 19 civili durante una festa di nozze. Il governo e i militari francesi avevano invece sostenuto e continuano a sostenere che le vittime dell’attacco appartenevano tutti a una milizia terroristica affiliata ad al-Qaeda.
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