I migranti sono merce di scambio. Per qualsiasi paese abbia la sorte di trovarseli sul proprio territorio. Se c’è qualcuno per cui la retorica dei “diritti umani” si mostra, appunto, solo un repertorio di frasi cui non corrisponde nella di concreto, quel qualcuno è un migrante.
Lo abbiamo visto ieri sulle spiagge di Ceuta, enclave spagnola – militare, naturalmente – sulle coste del Marocco.
Almeno 8.000 persone – tra cui adolescenti, donne e bambini – in meno di due giorni si sono buttate in mare e hanno nuotato per aggirare le altissime reti di sbarramento innalzate sul confine di terra, per raggiungere un territorio ufficialmente “europeo”.
La Spagna – ancora guidata da “socialisti” e Podemos – ha schierato l’esercito e ne ha già rimandato indietro almeno la metà.
A partire dalla notte tra sabato e domenica le guardie di frontiera marocchine hanno smesso di pattugliare. Sempre più persone a quel punto si sono riversate in mare.
Non si tratta di una “disattenzione”, ma di una mossa politica in stile Erdogan. Usando appunto i migranti come arma di pressione nei confronti della Spagna.
La ragione sta nell’ospitalità per ragioni mediche offerta da Madrid a Brahim Ghali, 74 anni, leader del Fronte Polisario per la liberazione del Sahara Occidentale, regione a sud del Marocco, lungo l’oceano Atlantico, ex colonia spagnola. Un territorio conteso con Rabat nel ruolo del colonizzatore e il Fronte Polisario che combatte per l’indipendenza, con un Parlamento in esilio che ha sede nel campo profughi di Tindouf, in Algeria.
A complicare il risiko, è stata proprio l’Algeria richiedendo il ricovero di Ghali, colpito dal Covid-19, facendo pesare il suo ruolo di primo fornitore di petrolio e gas alla Spagna.
Il Sahara Occidentale è un deserto roccioso ricco di minerali e fosfati, con una popolazione piuttosto limitata e dunque una debolezza strategica che ha sempre stuzzicato le ambizioni di Rabat.
Per controbilanciare il peso energetico di Algeri, insomma, re Muhammad VI ha lasciato via libera alle decine di migliaia di migranti africani che stazionano sul suo territorio intorno alle due enclave spagnole (l’altra è Melilla) in attesa di un improbabile passaggio in Europa.
Non si tratta di un’illazione. L‘ambasciatrice di Rabat a Madrid, Karima Benyaich, ha praticamente rivendicato la scelta davanti all’agenzia di stampa Europa Press, poco prima di essere ricevuta a colloquio dalla ministra degli Esteri spagnola, Arancha González Laya: “Ci sono atti che comportano delle conseguenze e bisogna accettarle“.
Patetico il tentativo spagnolo di negare il legame con la presenza del leader del Fronte Polisario, e ovvia la scelta di coinvolgere nella gestione di questa crisi tutta l’Unione Europea. “Questo è un atto di sfida. L’assenza di controlli ai confini da parte del Marocco non è una dimostrazione di mancato rispetto alla Spagna, ma all’Unione Europea”, ha dichiarato il premier Pedro Sanchez.
Le scene raccapriccianti di Ceuta, con la polizia spagnola a manganellare la gente in acqua (una forma assassina di “respingimento in mare”, in stile nazifascista italico), e i carri armati sulla spiaggia, ha fatto sollevare qualche sopracciglio nel quarto soggetto di questa complessa partita: l’Unione Europea, meta ambita di ogni migrazione contemporanea dall’Africa.
In questo quadro arriva la visita congiunta, a Tunisi, del ministro dell’interno italiano Lamorgese e della commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson. L’obiettivo dichiarato è quello di velocizzare i “rimpatri” dall’Italia, specie per quanto riguarda i cittadini tunisini (che non vengono considerati “meritevoli” di asilo politico o umanitario, visto che la Tunisia è una repubblica parlamentare).
Ma in prospettiva la Ue comincia a lavorare per una blindatura delle frontiere a Sud, nel Mediterraneo. Come spiegato da Lamorgese, nell’attesa del Migration Pact, per il quale “servirà ancora tempo” perché “l’attuale formulazione della Commissione non è soddisfacente per l’Italia”, si lavora a un “protocollo di intenti” per affrontare l’emergenza dell’estate.
Lo stallo europeo è provocato in parte dalla “resistenza” dei paesi del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), indisponibili ad accogliere anche un solo migrante sul proprio territorio. Fin qui, infatti, la “ripartizione” infraeuropea avviene solo su “base volontaria”, e dunque si tratta di un meccanismo inventato per non poter funzionare.
La pressione europea sui quattro stati dell’Est non ha avuto fin qui effetto. E dunque l’orientamento dell’Unione sta diventando alquanto “meloniano”, con la commissaria Johans che sibillinamente si fa scappare l’obbiettivo di “impedire le partenze” dalle coste africane.
“Se vogliamo salvare vite – ha spiegato – la cosa più importante è fare in modo che i migranti non partano, non comincino proprio questi viaggi trovando l’occasione di intraprendere dei percorsi legali o anche di trovare lavoro nel loro paese e poi gestire meglio le frontiere.
Con il nuovo patto proponiamo un meccanismo di solidarietà specifico per l’Italia. Ogni anno con un anno di anticipo ci sarà un numero prefissato di rilocalizzazioni, per cui chi arriverà in Sicilia, per esempio, verrà mandato nei Paesi membri che si sono impegnati per quel numero di migranti. Questo è un meccanismo che ha la prevedibilità necessaria e spero che il nuovo patto per la migrazione verrà approvato presto“.
Un patto contro le migrazioni, voleva dire...
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