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29/05/2021

Perché la UE si schiera contro la Cina

di Manlio Dinucci

da il manifesto 25 maggio 2021

Il Parlamento europeo ha congelato il 20 maggio la ratifica dell’Accordo Ue-Cina sugli investimenti, siglato in dicembre dalla Commissione europea dopo sette anni di trattative. La risoluzione è stata approvata a schiacciante maggioranza con 599 voti favorevoli, 30 contrari e 58 astenuti. Essa viene formalmente motivata quale risposta alle sanzioni cinesi contro membri del Parlamento europeo, decise da Pechino dopo che suoi funzionari erano stati sottoposti a sanzioni con l’accusa, respinta dalla Cina, di violazione dei diritti umani in particolare degli Uighur. I legislatori Ue sostengono che, mentre le sanzioni cinesi sono illegali poiché violano il diritto internazionale, quelle europee sono legali poiché si basano sulla difesa dei diritti umani sancita dalle Nazioni Unite.

Qual è il vero motivo che si nasconde dietro il paravento della «difesa dei diritti umani in Cina»? La strategia, lanciata e guidata da Washington, per reclutare i paesi europei nella coalizione contro la Russia e la Cina. Leva fondamentale di tale operazione è il fatto che 21 dei 27 paesi dell’Unione europea sono membri della Nato sotto comando Usa. In prima fila contro la Cina, come contro la Russia, ci sono i paesi dell’Est allo stesso tempo membri della Nato e della Ue, i quali, essendo più legati a Washington che a Bruxelles, accrescono l’influenza statunitense sulla politica estera della Ue. Politica che segue sostanzialmente quella statunitense soprattutto tramite la Nato.

Non tutti gli alleati sono però sullo stesso piano: Germania e Francia si accordano sottobanco con gli Stati Uniti in base a reciproche convenienze, l’Italia invece ubbidisce tacendo a scapito dei suoi stessi interessi. Il segretario generale della Nato Stoltenberg può così dichiarare, al termine dell’incontro col presidente francese Macron il 21 maggio: «Sosterremo l'ordine internazionale basato sulle regole contro la spinta autoritaria di paesi come la Russia e la Cina».

La Cina, che finora la Nato metteva in secondo piano quale «minaccia» focalizzando la sua strategia contro la Russia, viene ora messa sullo stesso piano. Ciò avviene sulla scia di quanto stanno facendo a Washington. Qui la strategia contro la Cina sta per diventare legge. Al Senato degli Stati Uniti è stato presentato il 15 aprile, su iniziativa bipartisan dal democratico Menendez e dal repubblicano Risch, il progetto di legge S.1169 sulla Competizione Strategica con la Cina. La motivazione della legge non lascia dubbi sul fatto che il confronto è a tutto campo: «La Repubblica Popolare Cinese sta facendo leva sul suo potere politico, diplomatico, economico, militare, tecnologico e ideologico per diventare un concorrente globale strategico, quasi alla pari, degli Stati Uniti. Le politiche perseguite sempre più dalla RPC in questi ambiti sono contrarie agli interessi e ai valori degli Stati Uniti, dei suoi partner e di gran parte del resto del mondo». Su tale base, la legge stabilisce misure politiche, economiche, tecnologiche, mediatiche, militari ed altre contro la Cina, miranti a colpirla e isolarla.

Una vera e propria dichiarazione di guerra, non in senso figurato. L’ammiraglio Davidson, che è a capo del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, ha richiesto al Congresso 27 miliardi di dollari per costruire attorno alla Cina una cortina di basi missilistiche e sistemi satellitari, compresa una costellazione di radar su piattaforme spaziali. Intanto aumenta la pressione militare Usa sulla Cina: unità lanciamissili della Settima Flotta incrociano nel Mar Cinese Meridionale, bombardieri strategici della US Air Force sono stati dislocati sull’isola di Guam nel Pacifico Occidente, mentre droni Triton della US Navy sono stati avvicinati alla Cina trasferendoli da Guam al Giappone.

Sulla scia degli Stati Uniti, anche la Nato estende la sua strategia all’Asia Orientale e al Pacifico dove – annuncia Stoltenberg – «abbiamo bisogno di rafforzarci militarmente insieme a stretti partner come Australia e Giappone». Il Parlamento europeo non ha dunque semplicemente compiuto un ulteriore passo nella «guerra delle sanzioni» contro la Cina. Ha compiuto un ulteriore passo per portare l’Europa in guerra.

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