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17/05/2021

Sul senso della sconfitta e nient'altro (purtroppo)

Per la serie "compagni basta"... quando leggiamo articoli come quello che seguono ci viene in mente solo una cosa: non si costruirà mai niente se ogni discorso, riflessione ma anche supercazzola è fondata più o meno esplicitamente su un senso della sconfitta ("storica") ancora da elaborare.

Dalla caduta del muro di Berlino sono trascorsi 32 anni, e dal G8 di Genova 20, i tempi sono più che maturi per finirla di guardare sempre indietro.

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Ci sono alcune storie particolari che hanno fatto breccia nel panorama attuale dei media e dei social, con prese di posizioni precise, chiare o di facciata da parte di partiti politici, operatori culturali e singoli cittadini.

Dalla storia di Luana, giovane operaia morta stritolata in un orditoio di Prato, alla telefonata di Fedez con i dirigenti di Rai 3 e il suo discorso sul palco del 1 maggio a Roma, dalle manifestazioni alle discussioni infinite sul Covid, sul complotto che ci sta dietro, sul numero dei contagi in India, con tanto di foto spettacolari su roghi e morti, ai vaccini, prenotazioni, Big Pharma e brevetti, fino ad arrivare alle notizie pilotate e confezionate sugli scontri in Palestina, dove a chiamarli scontri si rischia davvero di toccare il fondo del ridicolo del giornalismo e della scrittura. Ma cosa possiamo fare davanti a questa produzione interminabile di notizie pilotate e organizzate in un insieme economico, sociale e culturale ormai incontrollabile?

In tutto questo dove siamo noi? Dove sono la rabbia, la memoria, i sogni, la politica, il progetto di cambiare le regole del gioco? Dove è volata la sinistra?

Il racconto

A partire dagli anni '80 si è registrata una progressiva spettacolarizzazione di alcune notizie che vengono sfruttate da tv, giornali e ora da social vari per orientare e moltiplicare il dibattito politico e culturale. Morti, disagio sociale, malattia e povertà forniscono materia di consumo e di spettacolo, con narrazioni semplicistiche e unilaterali. Noi parliamo e siamo parlati da un discorso di fondo che costituisce un brusio continuo d’informazioni e di sensazioni. Anno dopo anno, lo spazio culturale e politico si è trasformato in uno luogo virtuale di scandali, polemiche, risse da salotto e fake news. Anche un articolo o un’analisi precisa e completa di un fatto specifico rischia di naufragare in un mare di notizie, immaginari, contesti e narrazioni. Lì, dentro e attraverso quel mare, noi non riusciamo più a nuotare.

Il dominio

Dentro questo racconto pervasivo e multilineare il capitale si è inserito perfettamente e ha vinto la sua guerra per mantenere il potere contro e anche attraverso le classi oppresse. Nel suo ultimo libro “Dominio” Marco D’Eramo ci dice che la guerra in corso negli ultimi 40 anni è stata vinta dal capitale, come disse anche Warren Buffett anni fa, sia sul piano materiale e finanziario sia sul piano dell’ideologia, imponendo la ragione liberale dovunque, dentro ognuno di noi, nelle mille linee che ci avvolgono e nei mille piani in cui siamo inseriti. Nel libro risulta interessante la parte relativa al ruolo che hanno avuto le fondazioni americane, a partire dagli anni '70, per finanziare progetti politici e culturali della destra neo liberale. In questo tipo di analisi rimane fondamentale il concetto di egemonia culturale di Gramsci: “la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi: come dominio e come direzione intellettuale e morale”. In questo senso i concetti di forza, coercizione, consenso, leadership, corruzione, stato, nazione, razza si intersecano e si confondono in ogni aspetto della nostra vita materiale e culturale.

Capitalismo digitale

Il capitalismo digitale (da Google a Facebook, da Amazon a Apple, a tutte le società del settore della robotica e della sorveglianza) sta mettendo a regime tutti i nostri desideri, movimenti, post, tweet, emozioni, parole, idee e molto altro ancora. Attraverso algoritmi sempre più precisi e database più completi, le notizie che girano, di cui scriviamo e in cui siamo proiettati inesorabilmente sono inserite dentro un insieme economico e sociale che da una parte appare perfetto e invincibile ma dall’altra sembra indicare un mondo senza futuro. “È in questo spazio di attesa, di emergenza non ancora «normalizzata», che si annidano i bisogni di radicalità: non basta dire «no», «forse», «sì ma», serve pensare a mettere in discussione l’intero sistema su cui poggia l’estrazione e l’utilizzo dei Big Data, la vita delle piattaforme e quella dei lavoratori che hanno come compito principale quello di nutrire le macchine di dati.” (Simone Pieranni).

In questo preciso momento storico, di fronte a queste morti senza senso e di fronte a queste news (fake o no) costruite a tavolino è giusto porsi una domanda: “Gli attuali sistemi di produzione culturale possono essere riformati? Dipende dai destinatari della domanda. In un certo senso, è una questione di classe. Soltanto coloro che nascono all’interno delle cosiddette «classi creative» credono veramente che il sistema sia aperto e democratico, che sia riformabile. Per la maggior parte degli altri sembra irrimediabilmente chiuso." ( Jacob S. Boeskov)

La sinistra che non c’è

Oltre la sinistra di destra (dal libro di Mauro Vanetti), quella dove liberisti, sovranisti e populisti ci hanno portato dall’altra parte del conflitto e salvo qualche eccezione, irrilevante in termini numerici, si muove qualcosa?

Mark Fisher ci ricordava sempre, nei suoi scritti, l’importanza del futuro, quel futuro che il realismo capitalista sembra aver ormai cancellato: per noi tutti “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. La sinistra, europea o italiana, per quello che ne rimane e per quello che ancora può valere questo nome, sembra proprio aver assimilato questo realismo pervasivo e multilineare del capitale in tutte le sue forme: strutturali, finanziarie e digitali.

In troppi piani del mondo attuale non siamo riusciti a comprendere e ad arginare il capitale nelle sue variabili; non abbiamo capito il racconto, la narrazione e l’orizzonte di senso degli ultimi 40 anni: proprio in quel preciso spazio temporale abbiamo perso terreno, luoghi, tempo, linguaggio, forme di lotta e piani d’azione.

Non abbiamo saputo vedere il dominio nel suo insieme e nelle sue molteplici linee: il consumismo delineato da Pasolini, la società dello spettacolo di Debord, il bio potere di Foucault, la società del controllo di Deleuze, le molteplici correnti e visioni del marxismo, le anticipazioni del movimento femminista non sono bastate. Perché?

Non ci siamo accorti nemmeno che il capitalismo digitale stava conquistando velocità, spazi, tempi, algoritmi, automatismi, immaginari, consenso: siamo rimasti lontani, dalle persone e dai loro problemi, anche e soprattutto in questi ultimi due decenni.

Al momento non riusciamo nemmeno a unire le politiche per il salario minimo, per il reddito incondizionato di base, il lavorare tutti e meno, il ripensare che cosa è il lavoro e cosa è la vita vera, rilanciare le battaglie fondamentali del movimento femminista, arginare e combattere ovunque il razzismo e il fascismo, cercare di salvare la terra da barbarie, degrado e inquinamento e tentare almeno di riprenderci tutto quello che ci hanno tolto.

La memoria e il quotidiano

Ripensare a chi non c’è più, a tutti quei morti del '900, da Auschwitz a Hiroshima, dal Rwanda al Medio Oriente, a quelle persone che hanno perso la vita fuggendo da guerra e miseria, lavorando in condizioni disastrose per un salario di sopravvivenza, a chi ha scelto il suicidio rispetto a questa società assente, a tutte quelle tragedie che avvengono quotidianamente nei regimi totalitari e sovranisti del nulla, in quella Palestina defraudata di terre, acqua e vite umane, in quel Kurdistan dimenticato da politica e geografia, in quei lunghi secoli che non hanno restituito memoria. Come legare quelle morti invisibili a una memoria collettiva che diventi albero della vita, radice, linfa e seme per un rinnovamento e ripensamento globale e culturale del nostro modo di essere al mondo? La lezione infinita di Primo Levi: restituire memoria ai sommersi e superare la zona grigia dei salvati; quella zona grigia del nostro quotidiano che non riesce più a ricordare quella storia profonda e collettiva da cui veniamo e in cui siamo immersi ogni secondo della nostra vita.
«La superficialità della “vita quotidiana”, in questo senso più appropriato del termine, consiste appunto in ciò, che l’uomo il quale vive entro di essa non diventa consapevole, e neppure vuole diventarlo, di questa mescolanza di valori mortalmente nemici, condizionata in parte psicologicamente e in parte pragmaticamente; ed egli si sottrae piuttosto alla scelta tra “dio” e il “demonio”, evitando di decidere quale dei valori in collisione sia dominato dall’uno, e quale invece dall’altro. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover conoscere questi contrasti e nel dover quindi considerare che ogni importante azione singola, e anzi la vita come un tutto rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere»,

(Weber, Il significato della “avalutabilità” delle scienze sociologiche ed economiche Einaudi, Torino, 1958).
Fonte

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