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29/05/2021

Palestina - Esodo, memoria, identità

La questione palestinese oltre lo schermo del linguaggio mainstream (Intervista parallela a una dissidente israeliana e a un esule palestinese)

“Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l’avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall’uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre palestinesi da parte di Israele nel 1948” (Ilan Pappé – La pulizia etnica della Palestina)

Quest’affermazione dello storico ebreo anti-sionista Pappé, che sintetizza la questione palestinese dalla Nakba (la catastrofe) del 1948 a oggi, ci pone inevitabilmente di fronte a un interrogativo: come è stato possibile nell’epoca di internet, dei social media, dei milioni di telefonini capaci di documentare i fatti, che la questione palestinese sia stata condannata alla damnatio memoriae? Come è stata possibile una tale gigantesca operazione di rimozione?

Senza pretesa di esaustività, tra fattori e cofattori, è possibile iscrivere la questione palestinese in quel particolare laboratorio della comunicazione costituito dalla narrazione occidentale, dal suo uso mistificatorio delle parole, dalla strumentalizzazione della Shoah.

In sintesi, l’apartheid, la pulizia e la sostituzione etnica, le illegittime detenzioni amministrative, l’esproprio sistematico, la strategia della tensione israeliana e il violento e terroristico regime di polizia, hanno la loro ragion d’essere ancor prima nelle parole che nei fatti.

Espressioni come “Stato ebraico”, “diritto ad esistere”, “sicurezza”, “conflitto israelo-palestinese”, “terrorismo”, attestano che le parole non sono mai neutrali e, soprattutto nel caso della questione palestinese, reificano in modo mistificatorio, le narrazioni occidentali. Ecco che la resistenza palestinese viene sistematicamente travisata e diventa terrorismo e la sospensione del diritto internazionale a danno dei palestinesi diventa “diritto alla difesa”.

Nello scritto del filosofo del linguaggio americano J.L. Austin, How to do things with words (Come fare cose con le parole) appare chiaro che il linguaggio deve essere inteso come azione e che non esiste cesura o contraddizione tra “dire” e “fare”: ogni dire è anche un fare, per cui il linguaggio svolge un’azione performativa, agendo sugli altri. Come si è potuto evincere anche dalla narrazione della recente aggressione sionista nei confronti di Gaza, il linguaggio è un sistema di potere con finalità manipolative.

La scelta di intervistare parallelamente due testimoni, Taffy Levav e Khaled Ayyad, nasce proprio dalla necessità di decostruire la narrazione mainstream.

Taffy si definisce dissidente israeliana o ex israeliana: “Quando io e il mio compagno abbiamo lasciato lo Stato di Israele, siamo partiti come dissidenti con l’idea di non far più parte di un posto come Israele, con la decisione di voler vivere in qualsiasi altro paese, non di scegliere un altro paese, ma di scegliere di non essere più appartenenti a Israele. La nostra identità deriva da una negazione, non da un’affermazione. Khaled è fortunato, almeno lui ha un’identità”.

Taffy Levav è un’ex soldatessa. Nel 1987 operava presso il servizio di intelligence nella base paracadutisti di Gerico e, durante la prima Intifada, si rifiutò di obbedire all’ordine di sgombero e distruzione di case abitate da donne palestinesi.

All’epoca solo le soldatesse potevano agire sulle donne palestinesi. Nel racconto di Taffy affiora la tristezza di chi, benché proveniente da una famiglia di sinistra e pacifista, facendo il servizio militare, pensava di fare solo il proprio dovere. Suo malgrado, invece, si rese conto di dover attuare forme arbitrarie di ritorsione contro i civili.

Come lei stessa racconta, si trattava dei primi casi di sgombero delle abitazioni palestinesi. Il suo atto di insubordinazione le è costato la galera e un regime punitivo.

Khaled, nato a Nazareth si definisce palestinese, termine che in Israele si è potuto utilizzare legalmente solo a partire dal 1976, dopo la “Giornata della Terra”. Fino ad allora i palestinesi potevano solo definirsi arabi in Israele.

Khaled ha completato gli studi secondari a Nazareth e ha militato nel partito comunista israeliano. Ha lasciato Israele dopo aver tentato inutilmente di iscriversi alla facoltà di medicina: non era così facile per un arabo. Khaled è diventato medico in Italia, dove ha deciso di rimanere a seguito del fallito tentativo di reinserirsi nella sua terra d’origine.

Si può parlare di conflitto israelo – palestinese?

Taffy: “Sì, è un conflitto tra due parti. In verità preferirei non usare le parole, le parole sono importanti... la cosa giusta sarebbe parlare di tragedia palestinese... ma questo deresponsabilizzerebbe Israele. Finché i palestinesi hanno un problema, gli israeliani hanno un problema. Se separassimo queste due parti gli israeliani starebbero bene, si sentirebbero a posto”.

Khaled: “Si tratta di un conflitto. I palestinesi subiscono la pulizia etnica e l’esproprio della loro terra... anche se la responsabilità principale di quanto accade ed è accaduto ricade in primo luogo sull’Occidente. L’esito, ad oggi, è l’occupazione israeliana del 78% della Palestina storica e lo sterminio continuo dei palestinesi.

La sottrazione della terra attraverso la colonizzazione israeliana ha impoverito la popolazione palestinese, costringendola a vendere la propria forza lavoro a Israele. Il problema non è tra arabi ed ebrei, il problema è il sionismo. Sì, c’è un conflitto, c’è un conflitto perché c’è un’occupazione militare e razzista e se c’è un’occupazione c’è una Resistenza”.

“Israele ha diritto a difendersi”: questa è la giustificazione addotta dalla narrazione mainstream a garanzia delle azioni politiche che Israele intraprende in Cisgiordania e a Gaza. Ha ragion d’essere tale preoccupazione?

Taffy: “Quello che stanno facendo a Gaza non rientra nel diritto, è un’occupazione. Cosa vuol dire diritto? Io non capisco questa parola, diritto legittimato da chi? Da Dio? Cosa significa difesa? La difesa non è un attacco”.

Khaled: “Quali sono le cause del conflitto? L’occupazione. La migliore difesa per Israele sarebbe porre fine all’occupazione. È l’occupazione che provoca la reazione dei popoli oppressi”.

Si può parlare di Israele come unica democrazia del Medio Oriente?

Taffy: “No. È una cosa ridicola. È un paese che separa due popoli…non è un paese democratico nemmeno verso gli ebrei che non possono decidere di vivere dove vogliono e sposare chi vogliono. Inoltre, in Israele tutti i non ebrei sono considerati esseri umani di serie B. Il razzismo sionista viene esercitato non solo nei confronti dei palestinesi ma anche verso i lavoratori immigrati, asiatici o africani. In Israele c’è un regime di apartheid”.

Khaled: “Come può essere democratico un paese che ha confiscato le terre ai contadini palestinesi? Come può essere democratico un paese che distribuisce diversamente le risorse alle pubbliche amministrazioni a seconda della composizione etnica dei comuni.

Anche al giorno d’oggi, se pensiamo allo sciopero generale effettuato a maggio, mi domando come possa essere democratico un paese nel quale la polizia spara contro la popolazione palestinese e i coloni aggrediscono i palestinesi protetti dalla polizia e dall’esercito. Comunque, non può esserci democrazia in una situazione di malessere globale”.

I recenti fatti di Gaza e Gerusalemme rappresentano una delle tante interruzioni di annunciati periodi di “tregua” o costituiscono una crepa che apre uno squarcio nella narrazione ordinaria?

Taffy: “Spero proprio che accada qualcosa di nuovo. Rispetto al passato, oggi gli abitanti di Gaza ritengono che Hamas stia facendo di tutto per proteggerli. E questo è molto diverso rispetto a quanto accadeva prima. Il 30% della popolazione di Gaza ha meno di 29 anni. I giovani non ce la fanno più.

Forse accadrà qualcosa. Forse c’è proprio bisogno di un’escalation perché il mondo si svegli. Il fatto che Tel Aviv sia per la prima volta in pericolo potrebbe far cambiare qualcosa... prima erano solo gli israeliani poveri che abitavano al Sud a rischiare... forse ora i cittadini privilegiati di Israele avranno voglia di cambiare qualcosa”.

Khaled: “Taffy ha ragione, questi ultimi fatti di Gerusalemme, i fatti della spianata delle moschee e di Gaza hanno determinato una risposta unitaria da parte di tutti i palestinesi. Lo stesso sciopero generale è stato coordinato dai comitati popolari che riuniscono tutti i palestinesi all’interno dello Stato d’Israele. Hanno aderito tutti: i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e quelli della diaspora, di tutti i partiti politici.

Ma torniamo al punto cruciale. Ormai i coloni sono ovunque. Non è più possibile parlare di due stati. Oggi bisogna costruire un unico Stato democratico, uno Stato per tutti”.

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