L’amico Peter Daugherty, che lavorava per Mtv, gli aveva da poco fatto ascoltare i Red Hot Chili Peppers, ma Rubin aveva fatto spallucce, dato che il suo desiderio era quello di ascoltare roba molto più pesante. Quel desiderio si realizzò proprio al CMJ New Music Seminar e per la precisione quando sul palco salirono gli Slayer. La loro performance spazzò via quella dei Megadeth, degli Exodus, degli Anthrax e di tutti quelli che provarono a dire la loro in fatto di thrash durante quella sera di fine estate.
Qualche settimana dopo, Rubin comprò una copia di “Hell Awaits” in un negozio di dischi newyorkese. Caso volle che, durante uno scambio di battute sulla band con il commesso Scott Koenig, Rubin scoprisse che si trattava di un loro amico. Senza battere ciglio, chiese a Koenig di incontrare la band, adducendo una motivazione piuttosto convincente: per loro, era già pronto un contratto discografico. L’incontro avvenne alla fine di un concerto che gli Slayer tennero a L’Amour di Brooklyn. Mollata la loro vecchia etichetta, la Metal Blade, Tom Araya, Kerry King, Jeff Hanneman e Dave Lombardo si imbarcarono nell’avventura musicale che li avrebbe condotti al loro capolavoro assoluto, "Reign In Blood", universalmente riconosciuto come uno dei dischi metal più importanti e influenti di sempre.
Ma andiamo per ordine.
Nato nel 1961 a Viña del Mar, in Cile, Tomás Enrique Araya Diaz aveva raggiunto gli Stati Uniti, per la precisione Los Angeles, quando aveva appena cinque anni. Stuzzicato dal fratello Cisco, che si dilettava a suonare la chitarra, a otto anni imbracciò il basso e cominciò a darci dentro con le scale, prima di iniziare a suonare qualche brano dei soliti Beatles e Rolling Stones. All’età di circa vent’anni, Araya (all’epoca impegnato a suonare rock con un gruppo chiamato Tradewinds e, quindi, Quits) conobbe il chitarrista Kerry King (1964), che lo invitò a suonare nella sua band. King, che aveva passato gli ultimi anni tra lavoretti di fortuna e il desiderio ossessivo di suonare in una band, si era guadagnato la reputazione di chitarrista di talento e durante quei giorni era solito fare delle jam con un altro chitarrista, Jeff Hanneman (1964), e con il batterista Dave Lombardo (1965).
Il primo proveniva, al pari di King, dai sobborghi di Los Angeles, mentre il secondo era nato a L’Avana e aveva lasciato Cuba quando aveva solo due anni, per raggiungere la California, dove frequentò una scuola privata cattolica, le cui tediose lezioni cercò di dimenticare suonando i bonghi. Appena nati, gli Slayer fecero di tutto per farsi conoscere in giro. Fu soprattutto nell’ambito delle scuole del circondario che la band diffuse volantini e fece la voce grossa con concerti organizzati alla meno peggio. Erano violenti e precisi e questo i metallari che andavano a sentirli lo notarono subito.
All’epoca, infatti, molte formazioni o avevano un sound robusto e violento oppure erano dotate tecnicamente ma non erano capaci di incidere veramente in termini di assalto sonoro. Combinando entrambe le cose, gli Slayer (che avevano nel batterismo esplosivo di Lombardo e nel picking precisissimo di King le loro armi migliori) divennero immediatamente un’attrazione per quanti avevano fatto del metal una ragione di vita.
Cominciarono anche a scrivere qualche brano originale, ma senza molta convinzione. C’era, infatti, ancora un po’ di confusione sulla direzione da prendere. Tutti e quattro erano cresciuti ascoltando l’hard-rock che durante gli anni Settanta aveva guadagnato una buona fetta di pubblico tra i più giovani, ma alla fine di quel decennio, con l’avvento della NWOBHM, le loro orecchie si erano lasciate poi incantare dalle sonorità di Judas Priest e compagnia bella. Ma furono i Venom, con la loro malefica fusione di Motörhead e Black Sabbath, a influenzare profondamente i quattro.
A partire dal 1982, anno della pubblicazione dello storico “Black Metal”, la formazione inglese divenne un vero e proprio faro per gli Slayer, incidendo profondamente sulla loro estetica, che da quel momento in poi iniziò a percorrere i sentieri del satanismo. Tuttavia, anche l’hardcore-punk fece la sua parte. Finì così che, un bel giorno, Jeff Hanneman si presentò alle prove con la testa rasata e qualche cassetta piena zeppa di siluri sonori. Quella musica piacque anche agli altri membri della band, per cui, man mano che scrivevano pezzi nuovi, si accorsero che, oltre alla violenza e alla precisione, una buona dose di velocità era proprio quello di cui avevano bisogno. Durante un concerto al Woodstock Theater di Anaheim, gli Slayer furono notati da Brian Slagel, un grande fan dell’heavy metal britannico e dei Venom, che da qualche tempo si divertiva a buttare giù le sue ossessioni per quella musica nella propria fanzine “The New Heavy Metal Revue” e attraverso la Metal Blade, un’etichetta discografica che stava dando spazio ad alcune formazioni metal e rock della zona di Los Angeles attraverso “Metal Massacre”, una serie di compilation il cui primo volume raccoglieva anche “Hit The Lights” degli allora giovanissimi Metallica.
Messo nero su bianco sul contratto della Metal Blade, gli Slayer esordirono nel 1983 con “Show No Mercy”, un debutto che gridava al mondo tutta la loro passione per quella fusione di hardcore e metal satanico di cui si è già detto. Il retaggio NWOBHM era ancora pesante (soprattutto nel lavoro chitarristico di King e Hanneman), ma la band scorrazzava a velocità sostenuta, mostrando tra le righe una personalità sul punto di esplodere. Le reazioni della critica furono discordanti, ma il disco fece segnare un discreto successo per la Metal Blade (15mila furono le copie vendute), cosa che spinse gli Slayer a non abbassare la guardia. L’Ep “Haunting The Chapel”, uscito l’anno successivo, mostrò un’invidiabile maturazione sia in fase di scrittura che di esecuzione, trasformando la band in un potentissimo meccanismo di brutalità e velocità, cosa confermata, di lì a poco, dalla pubblicazione di “Live Undead”.
Curiosamente, nel 1984 King militò brevemente anche nei Megadeth di Dave Mustaine, una mossa che fece temere a Hanneman di dover cercare un nuovo chitarrista per la band. La vicenda e il suo sviluppo, che porterà a un attrito fra le due formazioni che faticherà a placarsi oltre trent’anni dopo, ci racconta qualcosa del ruolo che gli Slayer hanno scelto di rivestire nell’ambito del thrash-metal. Sicuramente gli Slayer dovevano conoscere i classici che ispirano i primi vagiti del thrash-metal, dall’iconica “Symptom Of The Universe” dei Black Sabbath alla paradigmatica “Am I Evil?” dei Diamond Head, ma tutta la loro attenzione si concentrerà sugli aspetti più violenti del primo thrash-metal, abbandonando velocemente gli elementi settantiani che pure permangono nei primi lavori dei già citati Megadeth, Metallica e Anthrax.
L’estremismo che ammalia gli Slayer dopo i primi due album è lo stesso che muove altre importanti realtà del metal estremo quali i Bathory o i Mayhem, ai quali i losangelini si accomunano non tanto per lo stile musicale quanto per l’immaginario mefistofelico e sulfureo. Se volessimo usare un’analogia chimica per spiegare con un’immagine lo stato dell’estremismo metallico all’altezza del biennio 1984-85, potremmo definirlo il “punto triplo” del genere: è il momento in cui coesistono in instabile equilibrio tendenze al passato hard’n’heavy che (ri)portano al glam-metal, propaggini di thrash-metal che poi diverrà istituzionale e una terza, esoterica, via verso un estremismo più radicale e incompromissorio. Gli Slayer percorreranno proprio questa terza via, ma lo faranno senza mai uscire totalmente dal proprio ambito thrash-metal, semmai esplorandone il confine ultimo e indicando ad altri la direzione.
Tale direzione è molto diversa da quella dei sodali del thrash-metal statunitense ai quali sempre sono accomunati, attraverso il topos dei “Big Four”. Se i Metallica sono inizialmente mossi da consistenti tendenze all’estremismo di una rabbia viscerale, si veda il fondamentale esordio “Kill’ Em All” (1983), è anche vero che nel giro di altri due album, all’altezza del capolavoro “Master Of Puppets” (1986), hanno già incanalato quella violenza adolescenziale, eminentemente hardcore-punk, in una forma molto più lambiccata, sontuosa e progressiva. Nel loro terzo album, i Megadeth di Dave Mustaine dimostrano che quel che risultava ancora truculento agli esordi era soprattutto una questione di produzione e di inesperienza agli strumenti, visto che “So Far, So Good... So What!”, il terzo album, è un concentrato di velocità e virtuosismi chitarristici che ha poco o nulla dell’urgenza dei primordi. Un discorso simile si può articolare con gli Anthrax, inizialmente i più attempati e quindi, nel giro di tre album, giunti a un esaltante, e anche ironico e fumettistico, proprio modo di intendere il thrash-metal.
Nessuno degli altri “big”, insomma, intraprende la strada che dalla violenza, l’urgenza, la visceralità tipica di un esordio porta verso un’esaltante sublimazione di quel primo sussulto, un compimento definitivo di quella prima ondata di esaltante, epidermica aggressività. Ottenuti i mezzi tecnici ed economici, gli altri celebri gruppi thrash-metal statunitensi scelgono di utilizzarli per rifinire la materia sonora, dettagliare le composizioni o ampliare lo spettro stilistico.
Non a caso, per individuare delle formazioni con evoluzioni simili si ha poca fortuna a rimanere nel continente americano, anche allargando ad altre formazioni con una certa celebrità, quali Testament, totalmente epurati da ogni scoria di malvagità fra “The Legacy” (1987) e “The New Order” (1988), o Exodus, che pure qualche flessione in termini di estremismo la registrano fra l’esordio del 1986 “Bonded By Blood” e una cover dei War di Eric Burdon nel 1989.
In molti altri casi, le vicende hanno portato a poter solo immaginare quale sarebbe stata la reale evoluzione, sul lungo periodo, di alcune formazioni del thrash-metal più estremo, quali i Possessed, che sforneranno il terzo album solo nel 2019, o i Dark Angel, titolari del bestiale “Darkness Descends” (1986) ma sostanzialmente esauritisi poco dopo, anche a causa di un successo mainstream mai arrivato.
In Europa, e non negli Stati Uniti, l’interpretazione del thrash-metal come viatico verso un estremismo senza compromessi era invece ben più diffusa, grazie a formazioni senza compromessi, come il trittico tedesco di Sodom, Kreator e Destruction, o ancora l’esperienza degli svizzeri Hellhammer (poi confluiti negli sperimentali Celtic Frost). In questi casi non solo si parla di realtà ben meno influenti sull’andamento del metal in generale, anche a causa di mercati nazionali assai più modesti rispetto a quello statunitense, ma che avrebbero visto nell’esempio degli Slayer una chiara fonte d’ispirazione. Volendo semplificare, si può ricondurre l’estremismo thrash-metal europeo proprio al modello degli Slayer, se non nei risultati ultimi quantomeno nelle ispirazioni.
Fondamentale, poi, è la questione non solo del cosa venisse suonato, ma del quando: se pure esiste qualcosa di assimilabile agli Slayer, quasi sempre nasce dopo che Araya e soci hanno già consegnato alla storia il loro buon esempio. È, in altre parole, la dimostrazione del loro impatto sulla scena metal, quello di generare con i loro album più celebrati una nutrita schiera di ammiratori, che senza vergogna si ispirano al modello prescelto. Il quando, si diceva, è di grande importanza, e nel nostro caso l’anno da cerchiare in rosso è il 1986. Gli Slayer concordano con il produttore e manager Brian Slagel che il seguito di “Hell Awaits” può essere il loro lavoro della svolta, anche perché il mercato è maturo e la richiesta di formazioni thrash-metal è più florida che mai. Si curano allora i dettagli per assicurarsi che niente sia lasciato al caso, con tanto di photo-shoot professionale e l’elaborazione della giusta copertina, a firma di Larry Carroll, diventata nei decenni una delle più apprezzate e iconiche del metal tutto. La band si ritrova con Rick Rubin e l'ingegnere Andy Wallace all’Hit City West di Los Angeles e inizia a esplorare la terza via di cui si è detto sopra: invece di arretrare sulle tendenze estreme, sfrutta una produzione professionale per spingere al massimo sulla velocità senza perdere un grammo di violenza.
La ricerca dell’intensità è quello che guida la formazione durante le registrazioni in studio nei mesi di giugno e luglio del 1986, tanto che i brani sono suonati alla massima velocità, aggirandosi sulla vertiginosa media dei 220 battiti per minuto, e spogliati di ogni ripetizione superflua. Quando concludono il mixing, la lancetta si ferma dopo appena 28 minuti e 55 secondi, tanto che la formazione incontra Rubin per valutare di aggiungere qualche altro pezzo per allinearsi agli standard delle altre formazioni. Per fortuna, niente ha diluito la densità della materia sonora, e così il 7 ottobre 1986, dopo alcuni ritardi dovuti al rifiuto di Columbia di distribuire l’album a causa di alcuni riferimenti al gerarca nazista Joseph Mengele, il terzo album degli Slayer, “Reign In Blood”, arriva nei negozi distribuito dalla Geffen.
Quello che molte band dell’epoca stavano ancora inseguendo (condensare, in una serie ispirata di brani, velocità d’esecuzione, strutture riconoscibili e tecnica), gli Slayer riuscirono a realizzarlo alla grande. Intorno al 1986, poco prima che uscisse l’epocale “Scum” dei Napalm Death (la fondazione del grindcore, per intenderci), diverse erano state le band di area metal e hardcore (anche in Europa) che avevano fatto della velocità il loro vessillo. Ma i risultati erano stati tutt’altro che memorabili. Anche il nome con cui, in certi casi, quella musica sparata a velocità supersonica veniva indicata (“chaoscore”: i brasiliani Brigada Do Odio e gli olandesi Lärm sono i primi nomi che ci tornano in mente) suggerisce l’idea di musicisti alle prese con qualcosa che, in fin dei conti, andava oltre le proprie possibilità.
Ma gli Slayer che entrarono agli Hit City West per incidere il loro terzo disco erano ormai diventati una macchina perfetta. Brutali, velocissimi, precisi. Esplosero nelle orecchie degli appassionati di metal come una bomba intelligente.
Le registrazioni di “Reign In Blood” durarono un paio di mesi, tra il giugno e il luglio di quello che, ancora oggi, viene ricordato come l’anno d'oro del thrash-metal. Lo studio Hit City West si trovava in una zona residenziale a Ovest di Hollywood e tutti i giorni il primo ad arrivare era sempre Lombardo (all’epoca, l’unico della band ad aver messo su famiglia), di solito seguito da Rubin.
Conosciuto negli ambienti musicali come “il produttore fantasma”, perché solitamente andava a farsi un giro mentre le band erano impegnate a mettere su nastro le proprie idee, quella volta Rubin decise che avrebbe fatto un’eccezione, dimostrando che sugli Slayer non aveva scommesso così per puro caso. Seduto su di un divano, con le mani giunte e gli occhi chiusi, Rubin seguì così con attenzione tutte le fasi delle registrazioni, ogni tanto dando qualche consiglio a quelli che apparivano ormai come dei musicisti più che smaliziati.
Nelle retrovie, l’ingegnere del suono Andy Wallace si limitò invece a fare quello che Rubin gli diceva di fare, il che potrebbe essere riassunto più o meno così: un suono asciutto, senza riverbero (“il riverbero appassisce il suono”, era una delle massime preferite di Rubin) e, soprattutto, aggressivo come un pugno in faccia. Anzi, l’ascoltatore doveva avere la sensazione di essere nel bel mezzo di un incontro di boxe, solo che lui (lo spettatore, si intende) faceva da sparring partner...
Chitarre e basso furono quasi sempre registrate dal vivo in studio, e ciò fu possibile perché la band aveva ormai raggiunto un invidiabile livello di affiatamento, frutto dei tanti concerti macinati in giro.
Rubin voleva più assoli, ma i due chitarristi non gliela diedero vinta. Hannemann avrebbe poi ricordato, con il sorriso stampato sulle labbra, che, se fosse stato per il barbuto produttore, su “Reign In Blood” non vi sarebbe stata alcuna traccia di chitarre ritmiche, ma solo di assoli e ancora assoli. Per fortuna, le cose andarono diversamente, come si può sperimentare una volta che la puntina viene lasciata andare lungo i solchi concentrici del vinile.
Il primo innesco, “Angel Of Death”, alterna groove thrash a vertiginose accelerazioni, mentre tutto intorno si disegnano i contorni dell’Angelo della Morte. Un anno prima che il disco vedesse la luce, alla fine di lunghe serate passate tra un party e l’altro insieme ad Araya, Hanneman era solito passare il tempo nella propria stanza a leggere libri su Josef Rudolf Mengele, il medico criminale nazista che si era macchiato di crimini efferati conducendo esperimenti medici e di eugenetica su cavie umane (anche bambini) nel campo di concentramento di Auschwitz. Il modo freddo e distaccato con cui Hanneman descrive nel testo quegli esperimenti lasciò increduli anche molti aficionados della band. Ma a Hanneman non interessava tanto dare un giudizio (a suo dire, era scontato condannare quelle atrocità) quanto piuttosto mostrare, senza filtro alcuno, l’orrore. Così, quando Araya, dopo l’urlo iniziale in high-pitch (un’aggiunta dell’ultimo momento: c’era qualcosa che mancava nella take prescelta dalla band, così Hanneman chiese ad Araya di gridare, di gridare nel modo più forte possibile), pronuncia le prime parole del disco (“Auschwitz, the meaning of pain/ The way that I want you to die”), piombiamo nel bel mezzo della mattanza thrash che gli Slayer avevano così certosinamente preparato. E la sensazione di essere dinanzi a un capolavoro è già nitidissima.
Non si esce dall’incubo con “Piece By Piece”, un brano che supera appena i due minuti di durata, laddove il precedente si spingeva quasi alle soglie dei cinque. “Piece By Piece” si materializza con cadenze arcigne, prima di precipitare in una vorticosa galleria di decapitazioni, corpi smembrati, arti decomposti e via di questo passo. “Modulistic terror/ A vast, sadistic feast/ The only way to exit/ Is going piece by piece”, i primi versi di quello che è, a tutti gli effetti, un concentrato di thrash-metal al fulmicotone, forte della straordinaria dialettica chitarristica della coppia Hanneman/King e di una sezione ritmica che tesse la propria tela metronomica senza perdere un colpo, anzi puntellando splendidamente, all’altezza degli ottanta secondi, uno stacco carico di groove che è pura euforia prima del rettilineo finale.
Dopo un brano a firma del solo Hanneman (“Angel Of Death”) e uno approntato dal solo King (“Piece By Piece”), “Necrophobic” suggella la collaborazione dei due, su cui si regge tutta la scrittura di “Reign In Blood”. Del trittico iniziale, “Necrophobic” è il brano più veloce e anche quello più breve (1:40), quasi a voler simboleggiare la volontà di contrarre nel più breve tempo possibile potenza e velocità d’esecuzione. Il risultato è devastante: le chitarre sono mulinelli di elettricità impazzita (con il picco rappresentato da uno degli assoli più eccitanti del disco), la batteria un tornado geometrico (per alcuni, è qui che Lombardo ha offerto in assoluto la sua performance più efficace), le parole di Araya quelle di una malefica entità che enumera diverse tipologie di torture e modi di morire, a sottolineare ancora la forte impronta “gore” che pervade, da cima a fondo, tutto il disco.
Con “Altar Of Sacrifice”, i tempi rallentano, ma la combinazione di martellamento thrash, assoli allucinati e geometria del Male è ancora efficacissima. Si tratta del brano più scopertamente satanico del disco. In decelerando, “Altar Of Sacrifice” lascia dunque spazio a “Jesus Saves” (una feroce condanna della religione come potere organizzato), la cui prima parte è tutta giocata su una panoramica digressione in odore di sludge, prima di staccare su nuove e incendiare traiettorie strumentali, ma questa volta con un approccio più simile a quello di una band hardcore alle prese con un’indiavolata slam-dance, in cui le parole di Araya smettono di essere semplici veicoli di significati per tramutarsi in pallottole. Per la cronaca, il brano ripesca alcuni riff già comparsi in “Ice Titan”, registrato dalla band nel 1982.
Se avete il vinile, a questo punto dovete girare lato e far partire “Criminally Insane”, che apre con batteria solitaria a passo marziale e procede cadenzata come un carrarmato in territorio nemico, tra riff rocciosi suonati all’unisono dalle due chitarre e il racconto dei piani di evasioni dal carcere di un maniaco che non risparmia di farci sapere che ha ancora progetti omicidi (“For my victims, no tomorrow”).
Prospettiva femminile (nello specifico, quello di una strega condannata al rogo che lancia minacce ai suoi carnefici) è quella assunta da “Reborn”, in cui riemerge l’animo più punk-hardcore della band. Nonostante sia uno dei brani meno suonati dal vivo, “Reborn” vive di una ferocia a tratti quasi insostenibile. Araya sputa letteralmente le parole dall’ugola (“Convicted witch, my life will end at midnight on the stake/ My dedicated life was spent to insubordinate”); Lombardo è una drum-machine fatta di carne e ossa; King e Hannemann due terroristi prestati alla sei corde, le cui rispettive traiettorie sonore sono giocate, qui, come un po’ lungo tutto il disco, più che su soluzioni eterodosse (per quanto l’utilizzo di accordi “fuori scala” in più di un’occasione possa far pensare a un approccio jazz), su una continua tensione tra bruta energia e versatilità.
Una spettacolare rullata di Lombardo suona la carica per “Epidemic”, un midtempo che mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto l’introverso batterista sia stato fondamentale nella realizzazione di “Reign In Blood”. Di epidemia, come da titolo, tratta il testo. Ma è un’epidemia che simboleggia una “malattia permanente”, una “macchina della morte” che infesta anche i cadaveri. E una macchina permanente sono gli Slayer, capaci, all’altezza dell’ottavo brano, di mantenere ancora la barra dritta, di non mostrare segni di cedimento, di macinare thrash-metal con la stessa spavalda enfasi con cui, qualche minuto prima, avevano annunciato al mondo che l’orrore di Auschwitz è ancora qui, tra noi. Ma non siamo ancora giunti alla meta. Manca il dittico finale: “Postmortem”/“Raining Blood”.
Il primo ricorda un po’ la struttura a due facce di “Jesus Saves”, procedendo da un granitico groove (con un riff la cui grinta strisciante è pari solo alla gelida sequenza di immagini di un testo incentrato sull’ignoto che si annida dietro la parola “morte”) verso l’ennesima accelerazione a rotta di collo (si presti attenzione alla cieca bestialità del tono vocale di Araya...), preparata da una digressione strumentale che evoca lo spettro del progressive.
Non-rising body from the grave
showing new reality
What I am, what I want,
I’m only after death
Il secondo brano, introdotto dallo scoppio di un tuono e dal suono di una fitta pioggia, a coprire come un sudario l’ultimo accordo di “Postmortem”, nasce in un’ambientazione sinistra, sabbathiana (Hannemann pare avesse in mente uno scenario metropolitano carico di sinistri presagi), prima che uno dei riff più selvaggi dell’intera storia del metal spinga lo sguardo verso la figura di Satana, seduta sul suo trono infernale, circondato da corpi impalati e assediato da una pioggia di sangue. La stessa che resterà da sola a riempire gli ultimi solchi del disco, non prima di aver ascoltato gli Slayer sfondare la barriera dei bpm, come un battaglione della morte cui non resta altro che consegnarsi alla leggenda.
Raining blood
From a lacerated sky
Bleeding its horror
Creating my structure
Now I shall reign in blood
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