Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

23/10/2023

USA alla frutta, o forse all’amaro

Se non esistesse un Federico Rampini bisognerebbe inventarlo. Perché parliamo di uno dei più fedeli agit-prop dell’imperialismo euro-atlantico, senza mai l’ombra del dubbio sulla “giustezza” della propria collocazione e sull’erroneità dei “nemici della civiltà”, ossia dell’America.

Una dei suoi ultimi articoli sul Corriere – ne scrive a profusione... – segnala però un brivido che deve essergli corso per la schiena.

Già il titolo è un gridarello d’allarme: Perché l’America potrebbe essere costretta ad abbandonare le «guerre gemelle» contro Putin e Hamas. Come se il dubbio sulla prosecuzione della guerra sia ormai così forte, dall’altra parte dell’Atlantico, da far temere che la sconfitta possa essere ormai prossima.

Già il fatto di chiamarle “guerre gemelle” può sembrare sorprendente a chi non segue troppo attentamente la politica internazionale. Perché l’Ucraina e la Palestina – o più precisamente i loro antagonisti, Russia e Israele – non potrebbero essere più diversi.

Ma per l’imperialismo euro-atlantico si tratta esattamente della stessa guerra: quella per il mantenimento della propria egemonia sul resto del mondo.

Non a caso appena il giorno prima lo stesso Rampini aveva rilasciato un allarme della stessa natura: Quello che stiamo vivendo è solo un assaggio del mondo post-americano. Senza il “poliziotto del mondo”, insomma, avremo un profluvio di conflitti da cui alla fine guadagneranno solo i “nemici della civiltà”, ossia Cina, Russia, Iran, ecc.

Ergo “l’Asse del Bene” non si dovrebbe far distrarre da sirene pacifiste e ancor meno da dubbi, andando dritto verso guerre sicuramente costose ma – vivaddio! – purtroppo “indispensabili al mantenimento dell’ordine”.

Purtroppo per i tanti Rampini qualche scricchiolio sinistro si avverte proprio nella casa-madre. E qui la sua paura (quella della fetta di borghesia italiana ranicchiata in modo subordinato nel “disegno europeista”, che controllo tra l’altro il Corriere e La7), prende corpo.

“L’America non perde mai le sue guerre. Le abbandona spesso” è un incipit efficace, nella testa dell’autore, per indicare “il pericolo” che si delinea all’orizzonte (o più vicino) di una superpotenza “invincibile” ma che si stanca troppo presto delle guerre che scatena.

Il problema – che sembra incomprensibile per tutti i Rampini del pianeta – sono le “contraddizioni interne” a quel paese, tra gruppi di potere differenti per interessi economici (tra multinazionali industrial-finanziarie e affaristi dal raggio d’azione più limitato), complicate da “contraddizioni di classe” (gli scioperi che vanno riprendendo piede, non solo nell’industria dell’auto o a Hollywood), da quelle inter-etniche (gestite con il solito razzismo poliziesco), ecc.

E dunque quell’incipit si rivela un non innocente menzogna: anche l’America perde le guerre, e negli ultimi tempi sempre più spesso.

Il sintetico excursus storico premesso da Rampini illumina del resto il suo modo di pensare. Gli Usa, secondo lui, mollarono la presa sul Vietnam perché “metà degli americani consideravano ingiusto e immorale” condurre quella guerra. Idem per la Corea, l’Iraq e l’Afghanistan (per stare solo alle guerre maggiori)...

Non lo sfiora insomma il dubbio che ogni guerra si fa, si vince o si perde, in base ad un calcolo costi/benefici che tiene assieme economia, rapporti internazionali, risorse, consenso sociale, ecc. Quando l’equazione diventa concretamente troppo negativa o c’è un tracollo militare oppure il “fronte interno” si rompe, fino a imporre una sospensione della guerra (trattative di pace, ritirata, fuga dal paese invaso, ecc.).

Non ricorda insomma neppure che, tra le cause del ritiro dal Vietnam, c’era proprio l’alto numero delle perdite dell’esercito USA, composto allora in base alla “leva obbligatoria di massa”. Perdite, insomma, che resero quella guerra per i più incomprensibile, anche socialmente insostenibile. Decise non la “morale”, ma il sangue versato.

Non capire questi fondamentali, oppure cercare di argomentare prescindendone, porta i Rampini a grattare sugli specchi, al punto da fantasticare sulla infinita potenza politica, negli Usa (!), della lobby... palestinese! Ad un passo, insomma da “Protocolli dei sette savi di Gaza”...

Anche i propagandisti dell’Occidente più navigati, al dunque, cominciano a sfarfallare. Abituati al passo trionfale degli eserciti euro-atlantici alle prese con avversari minimi (veniamo da 30 anni di “guerre asimmetriche”, tecnologicamente impari), improvvisamente si trovano con formule ormai inadeguate a cogliere la dinamica delle guerre in corso.

Rovesciano qualche vecchia categoria democratico-progressista (tipo i neonazisti del battaglione Azov ribattezzati “partigiani”), accusano un popolo semita (i palestinesi) di essere “antisemiti” come i suprematisti della “razza bianca” di casa nostra. Ma sentono di stare alla frutta, forse all’amaro... come l’America che devono vendere al pubblico occidentale.

Se il paese che muove guerra è la superpotenza da tre decenni egemone sul pianeta è evidente che al proprio interno, e da molto tempo, ci siano opinioni differenti su quale debba essere il “nemico principale”. E non in base a ragionamenti sui “valori”, ma fondati più seriamente sul “valore”: dove abbiamo da guadagnare di più?

Ed è su questo frangiflutti che gli States sembrano spiaggiati da parecchi anni. La “globalizzazione” ha arricchito in modo fenomenale le frazioni più internazionalizzate del capitale, ma ha lentamente bloccato le prospettive di crescita per quelle più “geograficamente limitate”. Bloccando brutalmente anche la quota di reddito e il benessere che andavano ai lavoratori di casa propria.

Con lo stesso processo, le “delocalizzazioni” produttive allungavano – sì – le “catene del valore”, sfruttando le abnormi differenze salariali con il resto del mondo, ma al prezzo di permettere l’ascesa dei paesi più capaci di cogliere l’occasione della modernizzazione a ritmi accelerati (Cina docet...).

L’America, insomma, è come una squadra di calcio che si è “allungata troppo” (ha fatto crescere le proprie diseguaglianze sociali interne), non riesce più a coprire contemporaneamente le zone strategiche del campo e – diciamolo pure – ha pochi “assi”, per di più impigriti da guadagni facili.

Che i principali candidati alla prossima presidenza siano due ottuagenari diversamente impresentabili ne è una riprova di evidenza solare.

Le “divisioni interne” che preoccupano i Rampini non sono insomma fastidiosi “pidocchi” sul mantello di un animale pur sempre nobile e poderoso, ma le pustole che rivelano anche all’esterno l’evoluzione di numerose malattie interne.

Incurabili con i farmaci del neoliberismo, che le hanno scatenate.

Ma vaglielo a spiegare, a chi ci ha costruito sopra una carriera e il proprio individuale benessere...

*****

Perché l’America potrebbe essere costretta ad abbandonare le «guerre gemelle» contro Putin e Hamas

L’America non perde mai le sue guerre. Le abbandona spesso. È una storia che si ripete da quando è diventata la più grande potenza globale. In Corea nel 1953 finì con un «pareggio» tra le forze Usa e quelle nordcoreane-cinesi perché l’opinione pubblica americana era esausta dai sacrifici della seconda guerra mondiale.

In Vietnam non fu sconfitta sul terreno militare, ma nelle proprie piazze dove divampavano le proteste contro un conflitto che metà degli americani consideravano ingiusto e immorale. In Iraq, in , di nuovo: non ci sono state disfatte militari ma una disaffezione e un logoramento politico interno, che hanno regalato Bagdad all’influenza di Teheran e hanno restituito Kabul a quella dei talebani.

Rischiamo di vedere lo stesso spettacolo con le guerre attuali?

Di sicuro la debolezza maggiore per l’America di Biden è quella di sempre: il fronte interno.

Sull’Ucraina le defezioni più vistose sono a destra. Donald Trump sostiene da tempo che quella era una guerra evitabile, lui l’avrebbe risolta a tu per tu con Putin. Altri repubblicani magari esitano a fare i putiniani, per fedeltà alla propria storia, però ripiegano su forme collaudate di isolazionismo: «Abbiamo tanti problemi da risolvere a casa nostra, non siamo neppure capaci di difendere il nostro confine Sud dall’invasione di migranti, occupiamoci di questo e lasciamo perdere le guerre degli altri».

Tutto questo viene aggravato dal caos alla Camera, dove il partito repubblicano si è bruciato il terzo candidato per il ruolo di Speaker of the House, il potentissimo presidente di quel ramo del Congresso. La paralisi della Camera rischia intanto di ritardare l’approvazione dei nuovi aiuti per Ucraina e Israele; inoltre è di cattivo augurio per il 2024, anno di campagna elettorale.

Comunque nel fronte americano pro-Putin non manca qualche spezzone di sinistra radicale: Robert Kennedy Jr, che ha deciso di uscire dal partito democratico e si presenterà come indipendente per la Casa Bianca nel novembre 2024, sull’Ucraina dà ragione al leader russo.

Poiché le ultime elezioni americane si sono decise per margini ridottissimi, basta che un Kennedy ultra-ambientalista porti via uno o due punti percentuali a Biden (o chi per lui), per cambiare le sorti dell’America… e del mondo.

Di fronte interno ce n’è un altro: è Israele che divide il partito democratico. Anche in America la sinistra radicale è filo-palestinese; spesso è anche filo-Hamas: evidentemente senza cogliere l’incompatibilità delle due posizioni. Questa sinistra radicale filo-palestinese negli Usa è molto più potente di quanto si pensi di solito all’estero.

Che sia ben insediata dentro l’establishment lo dimostra il fatto che un suo esponente, Josh Paul, si è dimesso dal Dipartimento di Stato in segno di protesta per l’aiuto di Biden a Israele.

Quelle dimissioni hanno fatto scalpore ma sono solo la punta dell’iceberg: dentro il Dipartimento di Stato, cioè il ministero degli Esteri, cova la protesta della lobby filo-palestinese rappresentata a molti livelli. Anche al Congresso c’è una fronda di parlamentari che contestano il viaggio di Biden a Tel Aviv e l’abbraccio con Benjamin Netanyahu.

Le posizioni pro-Hamas di cui mi sono già occupato a proposito delle università di élite, sono ancora più estese e radicate nella comunità afroamericana, in particolare gli estremisti dell’antirazzismo come Black Lives Matter e tutta la galassia affine. Uno degli intellettuali più rispettati in quegli ambienti, il professore afroamericano Cornel West, ha deciso pure di lui di candidarsi come indipendente nell’elezione presidenziale dell’anno prossimo.

Cornel West è un estremista, proprio per questo è popolare tra i giovani, black e non solo. Inoltre la sua posizione filo-palestinese gli può conquistare voti nella comunità di immigrati arabi. Vale lo stesso ragionamento già fatto per Robert Kennedy Jr: queste sono candidature «di disturbo», destinate a raccogliere piccole percentuali.

Ma tutti e due hanno profili che piacciono nel mondo giovanile e dell’estrema sinistra, quindi sono suscettibili di danneggiare soprattutto Biden (o un candidato democratico alternativo, se Biden decidesse all’improvviso di ritirarsi).

Questo presidente, pur logorato dall’età, è un «uomo della storia». Nel senso che ha attraversato tutta la storia della guerra fredda, ne ha assorbito le lezioni.

È l’ultimo presidente Usa nato durante la seconda guerra mondiale. È l’unico leader politico in carica che può vantarsi di aver incontrato la premier israeliana Golda Meir durante la guerra dello Yom Kippur 50 anni fa. Perciò è convinto di capire come nessun altro la posta in gioco nei due «conflitti gemelli» in Ucraina e Israele.

Nonostante l’esperienza, potrebbe essere condannato a ripercorrere la traiettoria di tanti suoi predecessori: costretti a perdere i conflitti non dai nemici esterni ma dalle divisioni interne.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento