Il Governo Meloni è nel pieno di un’offensiva violenta e senza quartiere contro i pensionati, le fasce meno abbienti della popolazione e la sanità pubblica, coerentemente con un progetto politico che mira a disciplinare i lavoratori ed erodere i residui di stato sociale che ancora resistono nel nostro Paese. Nulla di tutto questo avviene per caso, d’altronde, ma è semplicemente un Governo che prova, negli angusti spazi concessi dai vincoli di bilancio europei, ad elargire mance al proprio blocco sociale di riferimento, costituito da padroni, padroncini, ricchi professionisti ed evasori fiscali.
La legge di bilancio appena presentata chiarisce ulteriormente e definitivamente, per chi avesse ancora dubbi, la natura classista della politica economica di questo Governo. Le proposte sul fisco, e tre misure in particolare, ne sono un chiaro esempio.
L’ampliamento del regime forfettario
La prima misura riguarda l’allargamento del regime forfettario, un regime fiscale (esistente già dal 2015 con successive modifiche) riservato a persone fisiche che svolgono attività d’impresa o attività professionali. Questi contribuenti, oltre a tutta una serie di semplificazioni nei vari adempimenti contabili, determinano il proprio reddito non in maniera analitica (cioè sommando le proprie entrate e sottraendo i costi sostenuti per l’attività lavorativa) ma appunto in maniera forfettaria, applicando dei “coefficienti di redditività” stabiliti per legge al totale di quanto fatturato. Dopodiché, e qui sta il trattamento di favore, su tale reddito – ulteriormente diminuito dei contributi previdenziali dovuti (pari al 24%) – è dovuta una imposta solo del 15% (sostitutiva sia dell’IRPEF sia delle addizionai regionali e comunali) o addirittura del 5% se il nostro imprenditore/professionista fosse nei primi cinque anni di attività. Sostanzialmente su questo reddito non si applica il sistema progressivo delle aliquote crescenti per i vari scaglioni di reddito, ma un sistema sostitutivo e ovviamente molto più vantaggioso per chi può accedervi.
Facciamo due conti per capire meglio: prendiamo per esempio un avvocato, che fattura nel corso dell’anno 60.000 euro. Considerato il coefficiente di redditività stabilito per questa attività (78%), il suo reddito lordo viene calcolato forfettariamente in € 46.800. Su tale reddito vanno calcolati e dedotti i contributi previdenziali (€ 11.232), per cui il reddito imponibile effettivo diventa € 35.568,00; su tale reddito si calcolerà la tassa piatta del 15% (€ 5.335) o addirittura del 5% (1.778) se il nostro avvocato è all’inizio della sua attività. Per capire l’enormità di questa ingiustizia, possiamo effettuare il confronto con le stesse imposte dovute se quei 60.000 euro non fossero un reddito da attività autonoma ma un reddito da lavoro dipendente: in questo caso (e sempre dopo aver dedotto i contributi a carico del lavoratore), la sola IRPEF sarebbe pari a poco più di 16.000 euro, cui si dovrebbero poi aggiungere fra i 2.000 e i 2.300 euro fra addizionali regionali e comunali: insomma il peso fiscale sarebbe più del triplo che nel caso precedente.
Gli effetti nefasti non finiscono qui e non si limitano a un regalo fatto a pochi privilegiati. Se da un lato, infatti, il regime forfettario attribuisce un trattamento estremamente favorevole, in confronto al lavoro dipendente, ai “veri” professionisti e/o imprenditori individuali, dall’altro ha un connotato politico esplicito e molto chiaro, in quanto rappresenta un tassello ulteriore dell’attacco portato al lavoro dipendente e a tutte le garanzie e i diritti che esso comporta. Il messaggio veicolato è, infatti, quello di un incentivo e un invito a trasformare in lavoro (apparentemente) autonomo una serie di posizioni lavorative che sarebbero “strutturalmente” da lavoro dipendente (ad esempio in merito alla libertà di organizzazione, di decidere gli orari di lavoro, etc. etc.), come ad esempio il giovane e certamente non benestante avvocato che ha un unico “cliente” (ad esempio un grosso studio legale, i cui titolari decidono quanto deve essere loro fatturato, quando l’avvocato può andare in ferie, etc. etc.), o l’infermiere che lavora sempre e solo presso la stessa clinica, o un geometra che sta sempre e solo nei cantieri della medesima impresa edile, e così via.
Insomma, questo regime offre un regalo a professionisti e imprenditori (esentandoli dalla progressività fiscale) e contribuisce alla disarticolazione del lavoro (barattando la maggiore precarietà con uno sconto fiscale), e il Governo Meloni cosa pensa bene di fare? Amplia il regime stesso: se fino ad oggi era limitato a chi fatturava 65.000 euro l’anno, dal 1 gennaio lo stesso limite sarà elevato a ben 85.000 euro!
La flat tax incrementale
La seconda perla inserita in legge di bilancio è appunto la flat tax incrementale che – oltre ad essere una sfida alle leggi della grammatica e della geometria – rappresenta in maniera ancora più evidente un “regalo” alle fasce reddituali più alte.
Si tratta di un’opzione (al momento limitata al 2023) riservata sempre a professionisti e imprenditori individuali (ma che non rientrano nel regime forfettario visto in precedenza) di tassare sempre con un’aliquota piatta del 15% (e quindi ancora una volta sottraendosi in parte alla progressività) la quota di reddito conseguito nel 2023 che eccede il valore più alto dei redditi dichiarati nel triennio precedente (il maggior reddito agevolato non può comunque superare la soglia di 40.000 euro).
Di nuovo, un esempio aiuta a capire: un ingegnere ha dichiarato negli anni i seguenti redditi:
L’ingegnere in questione – che non rientra nel regime forfettario e dunque paga le tasse secondo il sistema a scaglioni e progressivo di tutti noi comuni mortali – nel 2023 dichiara un “maggior reddito” rispetto al valore più alto del triennio precedente, i 100.000 euro dichiarati nel 2022, di 60.000 euro. L’agevolazione è limitata a 40.000 (troppa grazia...) ma comunque vuol dire che su quei 40.000 euro pagherà appena 6.000 euro mentre normalmente quei 40.000 euro avrebbero dovuto scontare un’aliquota del 43% e quindi 17.200 euro di tasse (e questo sempre mettendo da parte le addizionali regionali e comunali); insomma un vero e proprio regalo di oltre 11.000 euro senza nessuna spiegazione logica, se non si vuol credere alla favoletta (peraltro ben rappresentativa dell’interpretazione che il pensiero economico dominante offre relativamente al funzionamento del mercato del lavoro) che in virtù di quest’incentivo il nostro ingegnere diventa molto più produttivo; noi, che siamo malpensanti, immaginiamo che semplicemente spingerà chi può farlo a “concentrare” nel prossimo anno una serie di redditi che magari si sarebbero dovuti dichiarare quest’anno, oppure nel 2024. Inoltre, non deve sfuggire che gli anni inseriti nel “triennio di osservazione” (dal 2020 al 2022) sono proprio gli anni della crisi pandemica, in cui si è avuto un generale decremento di molti redditi, per cui saranno in molto ad avere gioco facile a dimostrare un incremento nel corso del 2023.
Ma quanto costano tutti questi regali fiscali a imprenditori e professionisti: secondo la Banca d’Italia il costo di solo questi due interventi è pari a 300 milioni nel 2023 e 1,2 miliardi nel 2024, somme che in ossequio al placido rispetto della disciplina di bilancio osservato dal Governo Meloni si riverseranno (in negativo) su tutti gli altri cittadini, soprattutto nella forma di minori servizi e trasferimenti garantiti dallo Stato.
Lo sconto per i redditi da capitale
Sarebbe tuttavia ingeneroso pensare che il Governo Meloni si curi solo di imprenditori e professionisti, ed ecco infatti comparire un terzo omaggio, stavolta dedicato a chi detiene azioni di società quotate in borsa e/o investimenti effettuati tramite società di gestione del risparmio, fondi comuni, etc.
Normalmente, i redditi provenienti da tali investimenti vengono tassati al momento del loro “realizzo”, con un’aliquota sempre fissa (per la gran parte dei titoli pari al 26%, e già questa è una “normale” ingiustizia perché è l’ennesima sottrazione di quote di reddito al sistema della progressività fiscale). Ad esempio, se compro un titolo a dicembre 2020 e lo pago 100 euro, e poi lo rivendo ad aprile 2023 al valore di 300 euro, sulla plusvalenza (pari a 200 euro) dovrei pagare un’imposta del 26 (quindi pari a 52 euro).
Con due articoli nella legge di bilancio il Governo permette invece (senza che ci sia cessione dei titoli) di calcolare una plusvalenza “teorica” prendendo come riferimento il valore di mercato del titolo al 31 dicembre 2022 e pagare un’imposta ancora più ridotta, pari solo al 14%, “liberando” in questo modo il titolo dalla futura tassazione quando sarà veramente ceduto.
Questa norma viene presentata con la possibilità di anticipare al 2023 un’entrata fiscale che altrimenti si avrebbe solamente in seguito, al momento appunto del disinvestimento, ma è evidente che tale giustificazione non regge di fronte all’enorme sconto fiscale di cui beneficeranno principalmente, come evidente, quei soggetti che traggano una quota rilevante del loro reddito dalla ricchezza finanziaria: ancora una volta, quindi, un regalo alle fasce più abbienti, con un costo posto a carico della collettività.
Quali conclusioni traiamo quindi da questo primo assaggio del “fisco ai tempi della Meloni” (e di Maurizio Leo, fidato viceministro dell’economia con delega al fisco)? Dopo una campagna elettorale passata ad abbaiare alla luna di una “flat tax generalizzata” che tutti sapevano essere impossibile da realizzare (e per fortuna!), il Governo interviene con la sapienza tecnica di chi sa dove mettere le mani per far male davvero, con buona pace di un’opposizione parlamentare che (incredibile ma vero!) attacca la manovra di bilancio... da destra, in quanto minerebbe la solidità dei conti pubblici.
La parte fiscale della legge di bilancio, come detto, non accresce solamente le iniquità del nostro già malmesso sistema fiscale, ma è un ulteriore attacco al mondo del lavoro dipendente (ormai il solo, insieme ai pensionati, ad essere rimasto nell’alveo della progressività fiscale). È quindi un esempio cristallino di lotta di classe agita da chi detiene le leve del potere, e su questa base va costruita l’opposizione ad essa.
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