di Andrea Fumagalli
A distanza di 10 mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russia sono usciti alcuni interessanti saggi che analizzano la nuova situazione geo-politica e riflettono sulle possibili tendenze internazionali[1]. Tra loro merita sicuramente un posto in prima fila il recente contributo di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano, 2022, uscito in libreria lo scorso 25 novembre.
Il libro è suddiviso in tre parti, con l’aggiunta di tre appendici finali e una postfazione di Roberto Scazzieri. La prima parte inizia con la “sconcertante presa d’atto di un Marx ‘rapito dal nemico’: tanto dimenticato dai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo quanto studiato e rivalutato dagli agenti del capitale” (p. 10). Tale punto di partenza è particolarmente utile per soffermarsi sulla marxiana “legge di centralizzazione”, il nodo teorico che ha più affascinato la riscoperta mainstream di Marx all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007. Nel testo, infatti, gli autori propongono “una nuova teoria della riproduzione e della tendenza verso la centralizzazione capitalistica, un approccio che si contrappone al paradigma teorico mainstream ma solleva obiezioni anche ai filoni di pensiero critico che hanno ridotto il marxismo a un intoccabile reliquiario anti-scientifico, o che da lungo tempo tacciono sul grande tema delle “leggi” generali”. (p. 10).
A partire da queste premesse, la seconda parte approfondisce l’evidenza empirica della tendenza della centralizzazione capitalistica, che viene definita “un inedito della letteratura scientifica in materia” (p. 10). Tale evidenza parte dall’utilizzo di moderne tecniche dei “network” proprietari, con riferimento alla proprietà azionaria. Poiché tale fenomeno interessa soprattutto gli Stati Uniti e i paesi anglosassoni oltre che Cina e Russia, l’analisi condotta mette giustamente in luce come parlare di oligarchia facendo esclusivamente riferimento alla Russia non solo è improprio ma anche fuorviante, poiché la struttura oligarchica è di gran lunga prevalente negli Stati Uniti e nei paesi Occidentali.
La terza parte del libro contiene stralci riveduti e aggiornati di interviste e articoli del solo Emiliano Brancaccio ispirati dalla guerra in Ucraina, ma centrati sulla questione più generale del rapporto tra centralizzazione del capitale e conflitto militare e sui due più importanti blocchi imperiali che emergono: da un lato, il consolidato imperialismo dei paesi debitori (Usa e Uk in testa), con al traino l’Europa, dall’altro il nascente imperialismo dei paesi creditori, a partire da Cina e India.
La tesi del libro è molto semplice e chiara. Secondo gli autori, nel capitalismo contemporaneo è ravvisabile, dati alla mano, una “legge” di tendenza verso la centralizzazione del capitale, che inevitabilmente porta alla distruzione della democrazia e fomenta la guerra.
Tale lettura non è quindi allineata con le interpretazioni giornalistiche dominanti relative alla guerra in corso, che sottolineano esclusivamente l’aggressione di Putin ai danni dell’indipendenza di un stato e della sua sovranità e con ciò giustificano l’invio di armi da parte dei paesi cosiddetti “amici della democrazia” al fine di sostenere la resistenza ucraina e la sua battaglia di civiltà a favore della libertà dei popoli. Il contesto politico in cui nasce la guerra ha origini ben più profonde e complesse.
L’attenzione viene perciò rivolta al concetto di centralizzazione, un concetto coniato da Marx. Gli autori riconoscono che “il termine ‘centralizzazione’ viene spesso sostituito dall’espressione ‘concentrazione’. Gli stessi Marx e Hilferding, in alcune circostanze, adoperano questi termini alla stregua di sinonimi” (p. 38) […] “ma si allude anche alla possibilità che i gruppi di controllo delle società governino una massa di capitale più grande di quella che formalmente possiedono” (p. 39). Tuttavia, per Marx i due concetti sono diversi: la centralizzazione è l’esito di una incessante lotta tra capitali in competizione tra loro per la conquista dei mercati, mentre il termine concentrazione corrisponde “alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti sia in rapporto alla forza lavoro disponibile” (p. 39).
Che cosa si intende con il termine “conquista dei mercati”? Marx intende probabilmente quella che definisce “l’espropriazione del capitalista da parte del capitalista”, ovvero la conquista non tanto di quote di mercato ma della proprietà. Si tratta di un processo di selezione delle imprese, esito della concorrenza tra imprese singole. La concentrazione, invece, indica un processo di gerarchizzazione del mercato verso forme oligopolistiche, a prescindere dai cambiamenti degli assetti proprietari. Possiamo aggiungere, tuttavia, che il processo di centralizzazione induce alla concentrazione di mercato. Si tratta di qualcosa di diverso della creazione di nuovi mezzi di produzione, ovvero dell’effetto schumpeteriano dell’innovazione tecnologica.
Non a caso Hilferding, a partire dal testo seminale del 1910 Il capitale finanziario[2], seguendo Marx, individua due modalità principali che favoriscono il processo di centralizzazione della proprietà e quello della concentrazione produttiva: il fallimento delle imprese più deboli che non riescono a sottostare alle gerarchie di mercato e le strategie di acquisizioni e fusione che “predano” le imprese più piccole e più innovative che diventano invitanti per l’ingordigia delle grandi.
Le analisi di Marx e poi di Hilferding fanno riferimento al sistema “factory”, ovvero allo sviluppo della grande industria, magistralmente descritto da Marx nel cap. XIII del Libro I de Il Capitale. In tale contesto, la riorganizzazione della produzione consente lo sfruttamento del lavoro, l’attivazione di economie di scala positive che portano a rendimenti crescenti di scala e favoriscono, in tal modo, sia un processo di concentrazione produttiva che la centralizzazione della proprietà con il diffondersi della forma manageriale di impresa.
Tale processo arriverà a pieno compimento con il pieno affermarsi del paradigma taylorista-fordista del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, ampiamente preconizzato dall’analisi di Marx. Il processo di valorizzazione del capitale tramite la produzione tangibile di merce (D-M-D’) raggiunge qui il suo apice.
Siamo in presenza di un modello di produzione per stock, dove la proprietà dei mezzi di produzione è centrale per definire il comando del capitale sul lavoro. La tendenza alla centralizzazione si manifesta con la proprietà diretta degli asset azionari delle grandi imprese. La proprietà fa rima con controllo, anche se questi elementi necessitano di due attori differenziati e spesso, negli anni del fordismo, potenzialmente conflittuali: azionisti di maggioranza, da un lato, e management, dall’altro. La potenza del capitale e le sue lotte intestine si traducono in un aumento della concentrazione della produzione e nell’aumento delle dimensioni di impresa[3].
Con la crisi del paradigma taylorista-fordista nei primi anni Settanta, lo scenario cambia. La diffusione del nuovo paradigma tecnologico linguistico-comunicativo apre a nuove modalità di produzione e di organizzazione di mercato. Il prevalere negli anni Novanta del modello della subfornitura internazionalizzata, basata sulla gestione per flussi dei nodi produttivi, porta alla centralità della leva finanziaria e della leva tecnologica come i due fattori principali in grado di ridefinire le gerarchie di mercato e gli assetti geo-economici internazionali. Assistiamo al più poderoso processo di concentrazione finanziaria e tecnologica che la storia del capitalismo ricordi, da far impallidire il periodo della formazione dei grandi trust nell’economia americana a cavallo tra XIX e XX secolo.
Tale processo è analizzato con esempi nella seconda parte del libro, dove la tesi della centralizzazione viene messa alla prova dei fatti. L’analisi fa riferimento a studi precedenti condotti dallo stesso Brancaccio e altri, in cui viene introdotto il concetto di “net control” come misura della concentrazione della proprietà azionaria. Tale termine può creare qualche equivoco, dal momento che nella parte empirica del libro non viene poi tracciata in modo chiaro una netta distinzione tra proprietà e controllo, nonostante un intero capitolo venga dedicato al managerialismo e alle sue teorie (da Marx, a Weber sino a oggi). In questo caso il termine “controllo” fa riferimento al controllo delle azioni.
I risultati a cui giungono gli autori non sorprendono. La crescente concentrazione dei mercati che abbiamo visto nelle ultime decadi, all’indomani del periodo di maggior concorrenza che ha accompagnato i tardi anni Settanta nell’avvio del processo di internazionalizzazione, si è accompagnata a una fortissima centralizzazione dei capitali in poche mani.
Con riferimento ai due anni considerati, 2007 e 2017, si ottengono
“due panoramiche delle reti della proprietà azionaria. In entrambi gli anni, le società finanziarie occupano una posizione cruciale nei nodi centrali. In particolare, i primi tre detentori del controllo (azionario, ndr.) nel 2007 sono Fidelity Management & Research Company, Capital Research & Management Company e BlackRock Institutional Trust Company, NA. Nel 2016, la classifica dei primi tre detentori del controllo è simile: Vanguard Group, Inc., BlackRock Institutional Trust Company, NA, Fidelity Management & Research Company. È interessante notare che, dopo la crisi, mentre il numero di mani che tirano i fili del capitale globale diminuisce cospicuamente, il nucleo di giganti della finanza situati al comando della rete mondiale del capitale non muta granché” (p. 118-119).
Il primato dei mercati finanziari non stupisce. Nel capitalismo contemporaneo (quello bio-cognitivo e finanziarizzato, dell’egemonia della produzione intangibile, della vita messa direttamente a valore tramite le piattaforme), i mercati finanziari sono diventati il centro dell’accumulazione e della valorizzazione capitalistica. In un articolo pubblicato più di 10 anni fa, poco dopo la crisi finanziaria globale del 2007-08, scrivevo:
“Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 trilioni di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 trilioni di dollari, le borse di tutto il mondo 50, i derivati 466 (otto volte di più della ricchezza reale). Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione. Nel mercato bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500 (dati Federal Reserve). Al I° trimestre 2011, cinque società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (dati OCC, Office of Comptroller of the Currency). Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate”.
Negli ultimi 10 anni i suonatori sono cambiati ma la musica è rimasta la stessa. Negli Usa, i dati dell’Office of Comptroller of the Currency (organo indipendente di vigilanza che afferisce al Dipartimento del Tesoro americano) ci dicono che nel secondo quadrimestre del 2022 sul mercato statunitense sono stati scambiati un totale di 193.731.717 milioni di dollari di derivati. Il 95,35% è stato gestito da sole cinque banche d’affari: Jp Morgan Chase Bank per il 29,01%, Goldman Sachs Bank il 25,54%, Citibank National 23,47%, Bank of America, l’11,42%, Wells Fargo Bank, il 5,92%.
A differenza del controllo azionario, occorre ricordare che tali titoli non sono di proprietà delle banche ma sono gestiti per conto degli effettivi proprietari. In questo caso il processo di centralizzazione assume forme nuove. Al “net control” si aggiunge un’altra forma di controllo: quello che non presuppone esclusivamente la “nuda” proprietà, ma la gestione di proprietà altrui. Ciò, tuttavia, non è in contrasto con la tendenza verso una concentrazione proprietaria nel campo azionario, anzi.
Con il ruolo sempre più egemone e pervasivo dei mercati finanziari il processo di centralizzazione /concentrazione dunque si modifica. Non si manifesta più solo nella proprietà azionaria ma nella capacità di indirizzare e organizzare le convenzioni speculative grazie alla messa in moto di aspettative in grado di autorealizzarsi se accompagnate da un adeguato volume di investimenti che solo le grandi multinazionali della finanza sono in grado di fare. Siamo cioè in presenza di un circuito virtuoso per il capitale. La centralizzazione finanziaria della proprietà azionaria favorisce la concentrazione nella gestione dei portafogli finanziari con il duplice effetto di lucrare elevate plusvalenze grazie anche alle tecniche del “payback” e dello “shareback”, ovvero lo scambio reciproco di azioni tra le stesse società finanziarie con lo scopo di far lievitare sia le plusvalenze che il livello di proprietà delle azioni.
Il fenomeno della centralizzazione assume così oggi aspetti inediti rispetto al passato. È questo un aspetto che, a mio parere, non è stato sufficientemente indagato. È anche il risultato di una tendenziale ridefinizione degli assetti geo economici mondiali, che tende a mettere in discussione l’egemonia americana e spinge verso una tendenza multipolare.
Relativamente a questo aspetto, è opportuno parlare di forme diverse di centralizzazione. Al caso Usa, magistralmente descritto nella seconda parte del libro, occorre infatti aggiungere che un simile processo si sta sviluppando in Cina ma con caratteristiche assai diverse. L’acronimo BATX (Baidoo, Alibaba, Tencent e Xiaomi) diventa sempre più l’alter ego dei giganti della Silicon Valley e sempre più si diffondono fondi di investimento collegati a queste grandi imprese cinesi, in parte di proprietà statale: ad esempio, il Fidelity Funds – China Consumer Fund A.
Il crescente ruolo della Cina anche nel campo della finanza è oggi uno degli aspetti più rilevanti per spiegare le crescenti tensioni sul piano geo-economico mondiale e sulla tenuta del dollaro come valuta di riserva internazionale e della borsa americana come luogo simbolo dell’oligarchia finanziaria. Una tendenza, quest’ultima, già in parte preconizzata da Giovanni Arrighi nel suo Adam Smith a Pechino, recentemente ripubblicato ma stranamente ignorato in questo libro.
* * * * *
La complessità e eterogeneità della situazione attuale ci impone, infine, una riflessione di natura metodologica. Il libro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli ritiene che il sistema capitalistico e la sua evoluzione possano essere descritti da leggi che, a prescindere dai tempi e dai contesti spaziali, siano in grado di definire “scientificamente” (quindi in modo rigoroso e inoppugnabile) le principali linee di tendenza in atto.
La legge più nota e più discussa nell’ambito del dibattito marxista è sicuramente la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. La legge della centralizzazione del capitale è meno nota ma altrettanto importante ed è rilevante per comprendere l’analisi marxiana. È possibile infatti individuare un nesso tra queste due leggi, che non è il caso di discutere in questa sede. Rimane tuttavia aperta la questione se questi leggi sono universalmente valide nel tempo e nello spazio capitalistico. Al riguardo il testo di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli è molto chiaro: l’analisi di Marx si rivela scientificamente corretta alla prova della storia, almeno per quanto riguarda la legge della centralizzazione del capitale. I dati ne confermano la validità anche ai nostri giorni. Ogni interpretazione del pensiero di Marx che non coglie l’oggettività di questa grande legge di tendenza sono in contraddizione con la corretta interpretazione del pensiero di Marx. La critica è chiaramente rivolta a quelle correnti eretiche marxiste che hanno preso origine principalmente (ma non solo) dal pensiero operaista degli anni Sessanta e le sue declinazioni nell’attuale pensiero neo-operaista e che vengono definite “non scientifiche” (p. 10).
Una teoria è scientifica solo se è in grado di suggerire quali esperimenti e osservazioni potrebbero dimostrarla falsa. È il noto principio della falsificabilità della scienza di Karl Popper. Nel nostro caso (la centralizzazione della proprietà), la confutazione della teoria sta nell’applicarla in un contesto non capitalistico di produzione e, di conseguenza, in un contesto capitalistico viene confermata se gli esperimenti e le osservazioni la invalidano.
Ma nel campo delle scienze umane (a differenza di quelle naturali), l’ambito in cui si cerca di mostrare la validità di una teoria è storicamente contestualizzato e le modalità con le quali un dato fenomeno si manifesta sono in continua metamorfosi. Una metamorfosi che il più delle volte è attivata dall’azione umana (oltre che da accadimenti naturali), azione di per sé stessa soggettiva e non misurabile, nonostante i vari tentativi intrapresi in tal senso, soprattutto per quanto riguarda lo studio dell’economia politica.
Le leggi di tendenza di Marx sono valide solo se si definisce il preciso periodo storico di riferimento anche all’interno del periodo capitalistico stesso. La dinamica del capitalismo non è infatti lineare ma ciclica e segnata da rotture; è caratterizzata dalla successione di paradigmi di natura tecnologica (Kondratieff), sociale e politica, che ridefiniscono ogni volta i due perni che definiscono lo stesso sistema capitalistico: la proprietà privata e il rapporto capitale – lavoro come fattori-base da cui estrarre valore di scambio. Ma il loro ruolo non è immutabile nel corso dell’evoluzione del capitalismo. Di conseguenza, le leggi di tendenza che ne scaturiscono (non a caso relative a questi due aspetti: la centralizzazione per quanto riguarda la forma della proprietà e la caduta tendenziale del profitto per quanto riguarda l’estrazione di valore) non possono ripetersi all’infinito allo stesso modo, ma mutano al variare del paradigma socio-economico in quel momento dominante.
Note
[1] Si vedano, ad esempio, Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, Asterios, Trieste, 2022; Marco Ottaviani, La riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche, Egea, Milano, 2022; Giulio Palermo, Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo americano alla conquista dell’Europa, L.A.D. Gruppo Editoriale, Roma, novembre 2022.
[2] Di cui l’ultima edizione è pubblicata da Mimesis con un’introduzione dello stesso Emiliano Brancaccio, 2012.
[3] Si veda il seminale testo di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino, 1968 (ed. orig. 1966).
Fonte
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