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20/12/2022

La globalizzazione ai tempi del friend-shoring

È interessante la tesi sostenuta da Emiliano Brancaccio secondo cui tra le cause della guerra in corso in Ucraina ci sarebbe la dottrina “friend-shoring”, così come è stata enunciata da Janet Yellen, segretaria al Tesoro degli USA: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di realizzare un commercio libero ma sicuro facciamolo con i paesi su cui sappiamo di poter contare. Favorire il friend-shoring delle catene di approvvigionamento, contando su un gran numero di paesi fidati, in modo da poter continuare a garantire in modo sicuro l’accesso al mercato, ridurrà i rischi per la nostra economia […]” (Cfr. pag. 222, “La guerra capitalistica”, E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli, Mimesis/Eteropie.)

È interessante perché porta fuori il conflitto dalle logiche prettamente geopolitiche, per proporre un respiro più ampio sulle strategie imperialiste post globalizzazione. Fare affari solo con gli amici è possibile se si produce la lista di proscrizione dei nemici e quindi se si impone a paesi amici o alleati di schierarsi, in una sorta di nuovo imperativo che si potrebbe esprimere con il vecchio o con noi o contro di noi.

Ecco che la retorica delle democrazie euro atlantiche che si devono difendere dalle “autocrazie” russa e cinese ha la funzione di spingere le opinioni pubbliche, e di conseguenza i consumatori, le imprese e i governi locali ad accettare le regole del nuovo assetto dei mercati.

Se finora la globalizzazione era venduta come veicolo propagandistico per il più grande assortimento di merci a basso prezzo della storia, perché, come spiegava Deng Xiaoping, “non importa se il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi”, la nuova dottrina “friend-shoring” ha bisogno di convincere, al contrario, che il colore dei soldi è importane, tanto che è meglio comprare dai “paesi amici”, anche se il prezzo è maggiore, come, per esempio, nel caso del GNL statunitense.

Ovviamente, a proposito di friend-shoring, la domanda dovrebbe essere: ma paesi amici di chi? “Io tendo a vedere il friend-shoring come un gruppo di partner con i quali sentiamo sintonia con la nostra geopolitica [...]”, precisa Janet Yellen (ibidem).

Amici degli USA, dunque e della loro geopolitica. Per la quale l’UE deve dimostrare nei fatti un sentimento di legame indissolubile, a cominciare dalla fedeltà alla NATO, cui si sono aumentati i contributi, fino al 2 per cento di PIL da parte di ciascuno degli stati membri.

Una fedeltà onerosa, per la quale si sta accettando l’idea che una nuova guerra nel Vecchio Continente sia giusta, non importa quanto pericolosa possa diventare. E non importa neppure se questa sudditanza acritica metta seriamente in crisi la retorica che voleva l’Unione come garanzia della pace, come conquista di civiltà giuridica in Europa, che è stato il leitmotiv della pubblicistica di Bruxelles.

Ma soprattutto si è dovuto accettare – ecco il punto – di far saltare ogni accordo per la fornitura del gas russo, col risultato di veder schizzare i prezzi dell’energia, che alimentano l’inflazione, creando grosse difficoltà alle imprese e alle famiglie, nonché ai bilanci pubblici, per via di misure che calmierino l’aumento dei prezzi.

L’Amministrazione Biden è riuscita a esportare la paura che gli USA potessero perdere la propria supremazia economica nel mondo – che tanto ossessionava Trump con il suo “make America great again” – allo stesso tempo è riuscita a serrare i ranghi dell’alleanza militare. Tuttavia il fatto che la supremazia economica sia già da tempo in forte declino è proprio alla base della dottrina del “friend-shoring”.

“Prima che la guerra in Ucraina dilaghi fuori controllo o che scoppi il conflitto per Taiwan, non sarebbe ragionevole […] trarne spunto non per una vera pace – orizzonte coperto da troppe nubi – ma verso una successione di tregue e intese limitate, sulla base della garanzia reciproca ‘non scritta’ ma effettiva della rinuncia a sovvertire il regime avverso, fosse solo per non doversi caricare i costi della gestione di un popolo umiliato e offeso? E non potrebbe l’Italia, assieme a europei consentanei e altri soggetti non necessariamente statuali ma influenti, promuovere simile percorso?”, scrive Lucio Caracciolo, a conclusione del suo recente “La pace è finita” (Feltrinelli).

Ora, senza entrare nel merito di codesta visione geopolitica del conflitto esposta da Caracciolo, appare evidente, però, l’accettazione ormai generalizzata dell’assioma della dottrina “friend-shoring” come dato di fatto nei nuovi rapporti di forza. Perché è chiaro che se Cina, Russia, India e gli altri paesi asiatici applicassero una loro speculare “friend-shoring”, le ripercussioni sarebbero critiche per molti paesi occidentali.

Janet Yellen in visita a Tokyo ha detto: “Non possiamo permettere a Paesi come la Cina di utilizzare le loro posizioni di mercato in materie prime, tecnologie o prodotti chiave per disturbare la nostra economia o esercitare un’indesiderata leva geopolitica”.

Ecco la verità: “esercitare la leva geopolitica” deve rimanere di esclusivo appannaggio, con le buone o con le cattive, degli USA.

Le ripercussioni della dottrina “friend-shoring” si stanno facendo sentire in Europa, in Turchia, nei paesi del Golfo.

E in Italia? Come al solito ci sono gli entusiasti, che nel Belpaese non mancano mai, che arrivano a immaginare il friend-shoring come un sorta di globalizzazione 2.0.

“Il concetto di friend-shoring aggiunge una componente valoriale alla ri-localizzazione in atto, che tiene in particolare evidenza le condizioni geopolitiche e geo-economiche in cui l’impresa si muove: vengono così scelti paesi di investimento che abbiano principi e valori vicini e condivisibili, diritti riconosciuti e un clima generale di sostenibilità, sia ambientale che sociale”, è quanto sostiene Alessandro Minon, presidente di Finest, finanziaria per l’internazionalizzazione del Nordest, sentito da furtuneita.com, che poi ci spiega più chiaramente cosa vuol dire in pratica la ri-localizzazione.

“Col friend-shoring – continua Minon – si ambisce a costruire catene del valore sicure e prive di rischi anche reputazionali, dove interruzioni improvvise o cambiamenti delle condizioni sono altamente improbabili”.

Per scendere nel concreto, Minon dice che “La costruzione e il rafforzamento di catene del valore comunitarie, collocando ad esempio in Est Europa quelle produzioni che erano state sviluppate in nell'estremo oriente, dovrebbe essere una scelta strategica da perseguire con convinzione: si creerebbero così poli produttivi e distretti sovranazionali sostenibili, sicuri e ad alto contenuto tecnologico, permettendo agli stati membri di competere sui mercati internazionali coi i colossi americani o asiatici.” (ibidem).

A questo punto è chiaro a che è servita la strategia politico militare che va sotto il nome di allargamento a Est dell’Alleanza atlantica: la costruzione di “poli produttivi sicuri”, con manodopera a basso costo fisso, e scarsa sindacalizzazione, controllati all’interno e militarizzati ai confini con la Russia.

Tuttavia, la dottrina friend-shoring crea perplessità nei piani alti della finanza italiana. “In un recente discorso, il governatore della Banca d’Italia Visco ha spiegato che la riorganizzazione del commercio mondiale in aree costituite da paesi politicamente affini, o uniti da accordi economici regionali rischia di mettere in crisi un modello economico che, negli ultimi trent’anni, ha permesso di elevare dalla povertà assoluta numerosi Paesi.” (fortuneita.com).

Perché queste dichiarazioni, apparentemente progressiste non debbano creare stupore, ce lo spiega bene Emiliano Brancaccio. “L’Italia è sempre stato un paese crocevia delle relazioni economiche internazionali, verso occidente e verso oriente, e pagherà quindi più di altri la nuova politica del ‘friend-shoring’” (Emiliano Brancaccio, intervistato da Rai News 24, il 6 giugno 2022).

Se a questo, poi, aggiungessimo che il nuovo governo sovranista ha una visione mistica del made in Italy, basata su superstizioni nazionalistiche, ciò che ci aspetta non è per niente una prospettiva friendly.

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