L’automobile, oltre a essere il simbolo del tipo di “libertà” promessa dal capitalismo (individuale, ma solo se te la puoi pagare), è stata la merce-pivot di tutto il Novecento. Ossia la merce al centro dell’immenso sistema produttivo mondiale, per dimensioni di vendita, fatturato, occupati, indotto, abitudini di massa, immaginario. La sua crisi, ancora oggi, destabilizza il sistema.
Sull’auto si sono scaricate anche tutte le responsabilità per il cambiamento climatico. In parte giustamente, in parte maggiore per occultare il peso delle emissioni nocive degli apparati industriali e dei riscaldamenti a idrocarburi, nel nord sviluppato del pianeta.
Il passaggio a motori basati su energie alternative ha perciò occupato gran parte delle preoccupazioni in varia misura “ambientaliste” (da quelle autentiche a quelle pelose degli industriali del settore), diramandosi immediatamente tra le diverse soluzioni a disposizione: elettrico, idrogeno, ibrido, ecc..
Siccome la pubblicità è pur sempre l’anima del commercio, uno dei più abili “comunicatori” sembrava aver trovato l’uovo di Colombo: l’auto elettrica per eccellenza, Tesla.
Orde di giornalisti acefali hanno tirato su il mito di Elon Musk e quindi anche le quotazioni di borsa, facendone per qualche settimana l’uomo (teoricamente, ossia in base a quelle quotazioni) più ricco del mondo.
Ricordate il numero di puntate che Repubblica o il Corriere gli hanno dedicato per farne l’ultimo simbolo dell’”uomo fatto da sé”? Già dimenticate, eh? Ora sono occupati a promuovere le pischelle che fanno i soldi (molti meno di Musk) mostrandosi su OnlyFans...
Nel mondo reale, quindi, improvvisamente l’auto elettrica si sta rivelando un mito insostenibile. A dirlo è stato nientepopodimeno che Akio Toyoda, padre-padrone della Toyota (che si trascina dietro anche Lexus e Daihatsu), ovvero il marchio che vende di più al mondo e soprattutto può vantare parecchi record di affidabilità per i suoi prodotti. Insomma: il Numero 1 dell’auto dice che il futuro dell’auto non sarà elettrico. Con buona pace dell’Unione Europea che ha fissato al 2035 la data limite per l’abbandono di benzina e diesel.
Non per ragioni “ideologiche” o per un atteggiamento “conservatore”, ma proprio perché crea più problemi di quel che intendeva risolvere. Anche su piano ambientale.
Gli scienziati più seri, già oltre venti anni fa, avevano avvertito che le “energie alternative” per i motori erano in realtà un ballon d’essai, quanto ad “ecologia”: un semplice spostamento del costo ambientale dal luogo di circolazione delle auto (allora quasi soltanto o soprattutto l’Occidente neoliberista) ai territori di estrazione delle materie prime occorrenti (dal litio in giù).
Anche l’idrogeno è stato un mito tutto sommato breve. Bisogna infatti produrlo, nonostante sia l’elemento più presente sulla Terra. E con diversi procedimenti che sono in ogni caso ad energia negativa, come impone il secondo principio della termodinamica (l’elettrolisi dell’acqua, il reforming del gas...).
Ora ci si aggiunge il colpo di grazia: il parere dei consumatori. Le auto elettriche o ibride costano molto di più, ma soprattutto non vanno lontano quando si usa solo l’energia elettrica. Le reti di ricarica sono troppo rarefatte e i tempi necessari per “fare il pieno” sono incompatibili con il viaggiare.
Idem per le “ibride”, che in realtà hanno una certa utilità ma limitatamente al traffico cittadino. Poi, se vuoi ricaricare la batteria o fare viaggi più lunghi, vai a benzina come prima. E infatti la parte del settore auto che tira di più è quella... dell’usato! Altro che “sostituzione”, insomma.
Cambiare un intero sistema di produzione richiede una programmazione a partire dai dati scientifici. Le “improvvisazioni” di singoli imprenditori possono attirare per qualche tempo investimenti e pubblicità, ma difficilmente possono diventare soluzioni adeguate a “dirottare” un modo di produzione.
Era stato possibile agli albori del capitalismo, quando tutto era ancora da inventare, scoprire, manipolare (dalle materie prime alle tecnologie produttive, alle macchine). Quando al di fuori della “fabbrica” tutto sembrava ed era “in-finito”.
Oggi il mondo è industrializzato pressoché totalmente. Le materie prime hanno limiti chiarissimi di disponibilità. Le tecnologie che ci sono e quelle che si sperimentano, idem.
E la “narrazione” dei media, per quanto servile, non copre questa realtà di fatto. L’in-finito è finito, bisogna fare i conti con quel che c’è secondo le leggi del “ricambio organico”...
Un’analisi più dettagliata della situazione specifica, come spesso accade, la fornisce l’ottimo Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, che non è una testata “comunista” o “ecologista-integralista”.
Segno che il limite è stato incontrato. E l’urto comincia far male...
Sull’auto si sono scaricate anche tutte le responsabilità per il cambiamento climatico. In parte giustamente, in parte maggiore per occultare il peso delle emissioni nocive degli apparati industriali e dei riscaldamenti a idrocarburi, nel nord sviluppato del pianeta.
Il passaggio a motori basati su energie alternative ha perciò occupato gran parte delle preoccupazioni in varia misura “ambientaliste” (da quelle autentiche a quelle pelose degli industriali del settore), diramandosi immediatamente tra le diverse soluzioni a disposizione: elettrico, idrogeno, ibrido, ecc..
Siccome la pubblicità è pur sempre l’anima del commercio, uno dei più abili “comunicatori” sembrava aver trovato l’uovo di Colombo: l’auto elettrica per eccellenza, Tesla.
Orde di giornalisti acefali hanno tirato su il mito di Elon Musk e quindi anche le quotazioni di borsa, facendone per qualche settimana l’uomo (teoricamente, ossia in base a quelle quotazioni) più ricco del mondo.
Ricordate il numero di puntate che Repubblica o il Corriere gli hanno dedicato per farne l’ultimo simbolo dell’”uomo fatto da sé”? Già dimenticate, eh? Ora sono occupati a promuovere le pischelle che fanno i soldi (molti meno di Musk) mostrandosi su OnlyFans...
Nel mondo reale, quindi, improvvisamente l’auto elettrica si sta rivelando un mito insostenibile. A dirlo è stato nientepopodimeno che Akio Toyoda, padre-padrone della Toyota (che si trascina dietro anche Lexus e Daihatsu), ovvero il marchio che vende di più al mondo e soprattutto può vantare parecchi record di affidabilità per i suoi prodotti. Insomma: il Numero 1 dell’auto dice che il futuro dell’auto non sarà elettrico. Con buona pace dell’Unione Europea che ha fissato al 2035 la data limite per l’abbandono di benzina e diesel.
Non per ragioni “ideologiche” o per un atteggiamento “conservatore”, ma proprio perché crea più problemi di quel che intendeva risolvere. Anche su piano ambientale.
Gli scienziati più seri, già oltre venti anni fa, avevano avvertito che le “energie alternative” per i motori erano in realtà un ballon d’essai, quanto ad “ecologia”: un semplice spostamento del costo ambientale dal luogo di circolazione delle auto (allora quasi soltanto o soprattutto l’Occidente neoliberista) ai territori di estrazione delle materie prime occorrenti (dal litio in giù).
Anche l’idrogeno è stato un mito tutto sommato breve. Bisogna infatti produrlo, nonostante sia l’elemento più presente sulla Terra. E con diversi procedimenti che sono in ogni caso ad energia negativa, come impone il secondo principio della termodinamica (l’elettrolisi dell’acqua, il reforming del gas...).
Ora ci si aggiunge il colpo di grazia: il parere dei consumatori. Le auto elettriche o ibride costano molto di più, ma soprattutto non vanno lontano quando si usa solo l’energia elettrica. Le reti di ricarica sono troppo rarefatte e i tempi necessari per “fare il pieno” sono incompatibili con il viaggiare.
Idem per le “ibride”, che in realtà hanno una certa utilità ma limitatamente al traffico cittadino. Poi, se vuoi ricaricare la batteria o fare viaggi più lunghi, vai a benzina come prima. E infatti la parte del settore auto che tira di più è quella... dell’usato! Altro che “sostituzione”, insomma.
Cambiare un intero sistema di produzione richiede una programmazione a partire dai dati scientifici. Le “improvvisazioni” di singoli imprenditori possono attirare per qualche tempo investimenti e pubblicità, ma difficilmente possono diventare soluzioni adeguate a “dirottare” un modo di produzione.
Era stato possibile agli albori del capitalismo, quando tutto era ancora da inventare, scoprire, manipolare (dalle materie prime alle tecnologie produttive, alle macchine). Quando al di fuori della “fabbrica” tutto sembrava ed era “in-finito”.
Oggi il mondo è industrializzato pressoché totalmente. Le materie prime hanno limiti chiarissimi di disponibilità. Le tecnologie che ci sono e quelle che si sperimentano, idem.
E la “narrazione” dei media, per quanto servile, non copre questa realtà di fatto. L’in-finito è finito, bisogna fare i conti con quel che c’è secondo le leggi del “ricambio organico”...
Un’analisi più dettagliata della situazione specifica, come spesso accade, la fornisce l’ottimo Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, che non è una testata “comunista” o “ecologista-integralista”.
Segno che il limite è stato incontrato. E l’urto comincia far male...
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Abbiamo già perso tutti la Tesla?
Abbiamo già perso tutti la Tesla?
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa
Il mercato non sembra più credere più ai miracoli: il futuro dell’auto elettrica si è fatto assai confuso, e non è stato solo Akio Toyoda, il numero uno di Toyota oltre che presidente di Japan Automobile Manufacturers Association l’associazione dei costruttori di automobili giapponese, a lanciare l’allarme: “È un business immaturo, con costi energetici e sociali insostenibili“, ha affermato, confermando la scelta di lavorare su modelli ibridi.
Insomma, l’alimentazione tradizionale rimane comunque quella preferibile, insieme a quella elettrica da attivare in condizioni favorevoli, quando si circola a bassa velocità e nei centri urbani.
A dicembre di tre anni fa, alla fine del 2019, la straordinaria performance di Tesla non era neppure cominciata: al Nasdaq il titolo veniva scambiato ad appena 18,08 dollari, una sciocchezza rispetto alla straordinaria performance di 384 dollari raggiunti nei primi di novembre del 2021, appena un anno fa.
Da allora, il titolo non ha fatto altro che scendere, fino ad arrivare ai 109,10 dollari del 27 dicembre, ancora in calo di ben 14,05 dollari rispetto alla chiusura precedente, ritornando al valore che aveva toccato il 1° luglio del 2020.
C’è di vero che a Tesla non hanno giovato affatto né l’avventura di Twitter, la piattaforma social su cui Elon Musk ha puntato tanti soldi e la sua reputazione di imprenditore dal tocco infallibile, né la notizia che a fine di novembre lo stesso Musk abbia venduto 22 milioni di azioni per un controvalore di 3,6 miliardi di dollari. Una decisione, questa, che non poteva che deprimere il valore del titolo.
C’è di vero, però, che un forte calo del valore delle azioni si era già verificato a partire dallo scorso mese di luglio, quando le azioni di Tesla erano tornate a quota 293 dollari: Musk ha venduto quando il mercato era già in calo.
Anche l’altra avventura imprenditoriale di Musk, quella della gestione della costellazione satellitare Starlink, sembra ormai più legata alle connessioni attivate in Ucraina ed a quelle ipotizzate in Iran per superare il deficit delle reti di un Paese in guerra e le possibili censure governative a Teheran: per il resto del mondo, le reti di telecomunicazioni tradizionali sono più che adeguate ed i prezzi accessibili.
Ci sono poi le notizie sulla produzione della Tesla in Cina che non sono confortanti: approfittando delle festività per il Capodanno, lo stabilimento di Shanghai si fermerà questo mese per ben 17 giorni, dal 3 al 19, lavorando quindi solo dal 20 al 31. Davvero troppo poco.
La domanda non tira come ci si attendeva, nonostante un taglio del 9% dei prezzi dei due modelli più famosi, la Model 3 e la Model Y.
Si annunciano innovazioni anche sul fronte dei nuovi modelli della marca statunitense, per ridurre sia i costi di produzione che i prezzi di vendita: nonostante gli incentivi pubblici e gli sconti dei produttori, i recenti aumenti delle bollette elettriche hanno raffreddato di molto gli entusiasmi iniziali.
Anche la Nio, la principale concorrente cinese di Tesla, sta affrontando le medesime difficoltà: non solo un forte calo in Borsa e consegne inferiori alle attese, ma soprattutto trentamila unità in meno rispetto alle 450 mila previste per l’ultimo trimestre di quest’anno.
Nonostante l’entusiasmo per la ripresa del mercato europeo, nei primi dieci mesi del 2022 sono state registrate vendite in calo del 31,1% rispetto allo stesso periodo del 2019, prima che iniziasse la pandemia. E, comunque, tra gennaio ed ottobre di quest’anno c’è stato ancora un calo del 7,8% rispetto allo stesso periodo del 2021. Il mercato dell’auto sembra davvero molto debole.
Il paradosso è rappresentato dall’andamento del prezzo delle auto usate, che nel giro di tre anni è aumentato del 30%: In Italia, a luglio di quest’anno, il valore medio di un’automobile usata è di 21.600 euro, ossia il 21,7% in più rispetto al mese di luglio del 2021 e il 33,6% rispetto allo stesso mese del 2019.
I lunghi tempi di consegna delle nuove auto, ormai tutte elettriche o almeno ibride, gli elevati costi iniziali, le incertezze su quelli di gestione hanno contribuito a raffreddare gli entusiasmi.
Paradosso dei paradossi, poi, l’età media delle auto in circolazione sta aumentando anziché diminuire: nel 2021 per ogni 100 automobili vendute solo 28 erano nuove di fabbrica, mentre 37 avevano meno di 10 anni di vita e addirittura 35 auto ne avevano più di dieci.
Nel 2010, in proporzione, le automobili nuove erano state 39, quelle usate ed immatricolate da meno di 10 anni erano state 47, e quelle con oltre 10 anni di vita erano state 14. Nel 2021, le auto acquistate di seconda mano, con più di dieci anni di vita, sono più che raddoppiate rispetto al 2010.
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