“L’evidenza scientifica supporta una ‘legge’ di tendenza verso la centralizzazione del capitale, che distrugge la democrazia e fomenta la guerra.” Così si apre l’introduzione dello splendido libro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli e altri autori: “La guerra capitalista”, Mimesis editore.
Siamo tutti i giorni bombardati da una propaganda di guerra che esclude qualsiasi razionalità e che spiega tutto come una disfida tra bene e male, tra buoni democratici e cattive tirannie, tra sani e pazzi. I pazzi, in generale paragonati ad Hitler, sono stati numerosi in questi ultimi trent’anni e contro di essi l’Occidente ha scatenato molte guerre, alcune vincenti altre concluse con sonore sconfitte.
Ora il pazzo di turno è Vladimir Putin, mentre l’angelo è Volodymir Zelensky; e chi non si schiera con il bene diventa immediatamente complice del male.
Il libro “La guerra imperialista” invece ci spiega come tutto ciò che sta avvenendo è frutto di un processo economico e politico, sviluppatosi particolarmente negli ultimi trent’anni, di centralizzazione dei capitali e di conseguente utilizzo degli Stati a supporto della competizione tra i diversi interessi.
L’80% del patrimonio azionario delle imprese è detenuto ormai dal 2% di azionisti, con una percentuale ancora più ristretta nei paesi a capitalismo liberale e un po’ più ampia in quelli che oggi vengono definiti come sistemi autoritari.
Se dunque vi sono oligarchi che detengono il potere economico e determinano quello politico in Russia, nell’Occidente gli oligarchi sono ancora più potenti e in circoli ancora più ristretti.
Sotto questo punto di vista l’attuale guerra in Ucraina appare come uno scontro tra diverse oligarchie che usano per i propri scopi il potere militare degli Stati.
È paradossale che Marx, in gran parte abbandonato in Occidente da quello che è o si considera il mondo progressista, venga invece oggi utilizzato a piene mani dal potere per spiegare e capire quello che sta avvenendo. Forse la fine, almeno in Occidente, dell’uso rivoluzionario di Marx ne ha liberalizzato l’utilizzo scientifico e così le classi dominanti usano sempre più schemi marxisti per spiegare la crisi del proprio sistema.
La centralizzazione del capitalismo ha sostanzialmente distrutto la globalizzazione e soprattutto i suoi miti universalistici. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica il mondo pareva destinato a diventare un unico mercato americano con regole americane. Così allora Henry Kissinger definì la globalizzazione: ”il nostro sistema esteso in tutto il pianeta.” E il politologo Francis Fukuyama aggiunse che “la Storia era finita”.
Ma il mondo è più complesso di come lo descrivono o lo vorrebbero i grandi intellettuali del capitalismo. Per quella eterogenesi dei fini che spesso muove la storia, il capitalismo occidentale con la globalizzazione ha allevato i propri concorrenti e antagonisti sul piano mondiale. La Cina, l’India e altri paesi asiatici, il Sudafrica e il Brasile, la stessa Russia hanno alla fine usufruito degli anni della globalizzazione per ribaltare i rapporti di potere economici a livello mondiale.
Un poco alla volta gli Stati Uniti e l’Occidente sono diventati paesi debitori negli scambi commerciali e finanziari mondiali. Viceversa la Cina e altri paesi sono diventati progressivamente paesi creditori.
Tutto questo all’interno di un processo di centralizzazione dei capitali che, come già abbiamo detto, ha affermato il potere enorme di poche e sempre più ristrette élite economiche.
Gli Stati Uniti e i paesi occidentali, insomma, hanno perso la guerra della globalizzazione e da dominanti hanno rischiato di diventare economicamente dominati.
La crisi del 2008 ha accelerato questa tendenza. La reazione a questo processo è stata la guerra, anzi le guerre, quella ‘terza guerra mondiale a pezzi’ che Papa Francesco ha denunciato esistere da decenni. Fino all’intervento militare russo in Ucraina la guerra è stata intrapresa sempre dai paesi occidentali a guida USA e Nato.
La ritirata dall’Afghanistan ha però segnato un punto di svolta. I paesi debitori hanno dovuto registrare l’impossibilità di mantenere un impegno militare globale perennemente offensivo. Di questa crisi ha approfittato la Russia di Putin, sostanzialmente anche se non formalmente sostenuta dalla Cina, per affermare il proprio potere e soprattutto per saggiare la forza reale dell’avversario occidentale.
Nella sostanza la Russia di Putin ha voluto provare se per le nuove potenze emergenti fosse possibile utilizzare lo stesso interventismo militare di cui la Nato e gli USA hanno fatto pieno uso negli ultimi trent’anni.
Non ci sono quindi valori morali, libertà e diritti dei popoli a motivo della guerra, ma puri calcoli di interesse. Calcoli coperti da una retorica militarista e patriottica che rimanda alle stagioni passate dell’imperialismo, quelle analizzate economicamente da Hilferding, Rosa Luxemburg, Lenin. Come disse Jean Jaures poco prima di essere assassinato da un fanatico nazionalista alla viglia della prima guerra mondiale: “il capitalismo porta la guerra come il vento la tempesta.”
La tesi di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli è documentata con un rigoroso lavoro di ricerca che fa davvero pensare all’enorme potenzialità di una scienza economica finalmente liberata dalla servitù verso il profitto e gli interessi del potere.
I meccanismi oggettivi che stanno portando verso la guerra totale non sono ovviamente inevitabili. Le leggi del capitalismo non sono leggi naturali, bensì tendenze profonde della società. Quindi le cose possono essere cambiate, ma solo se non si resta dentro lo schema ideologico e culturale dominante.
La tendenza alla guerra è così profondamente innervata nei meccanismi di competizione e centralizzazione del capitalismo attuale, che può essere davvero fermata solo con un rovesciamento di sistema. Altrimenti la marcia verso lo scontro totale tra due sistemi di interessi e di centralizzazione andrà avanti, vista l’accelerazione verso la guerra, di cui una parte fondamentale è il colossale riarmo in atto, e vista anche la totale incapacità delle élite dominanti di definire scenari che non siano quelli dell’annientamento dell’avversario.
E allora? Allora bisogna prendere atto come nell’epoca attuale il riformismo progressista – quello liberista e reazionario è già stato assorbito dalla destra – non sia più praticabile.
Il limite di tutti i grandi generosi movimenti di questi ultimi vent’anni, sostiene Brancaccio, è stato proprio quello di credere possibile riforme graduali, a passi, del sistema. In realtà il riformismo progressista non è in grado di fare nulla, perché ha di fronte il blocco di potere della centralizzazione capitalista, che oramai è diventato anche potere politico.
Le democrazie occidentali dichiarano di scontrarsi contro i sistemi autoritari del resto del mondo, ma in realtà sono sempre più autoritarie anch’esse. Prima di tutto per il totale dominio dei soldi sulla politica, la finanziarizzazione dei partiti e delle scadenze elettorali, che sempre di più assomigliano a giochi di Borsa. Poi perché il dominio del mercato sulle persone le trasforma in oggetti mercificati. E infine perché la logica stessa della guerra impone sempre più restrizioni alla democrazia e alla libertà.
La più grande falsità dei liberisti come Milton Friedman è che il capitalismo coincida con “la libertà”. La realtà sta mostrando l’esatto contrario, cioè che i sistemi capitalisti abbiano sempre più bisogno di poteri autoritari, di discriminazione ed esclusione, per poter funzionare.
Torna quindi di attualità una parola scomparsa dal lessico politico del mondo progressista, degli oppressi e degli sfruttati: rivoluzione.
Oggi questa parola viene usata solo da destra. Negli anni '80 la svolta liberista e reazionaria di Reagan e Thatcher fu chiamata rivoluzione. Cosi il dominio capitalista mondiale è stato definito la rivoluzione della globalizzazione. Tutti processi che invece possono rientrare nella definizione gramsciana di rivoluzione passiva.
Sono infatti le classi dominanti che, dall’alto, rivoluzionano i rapporti sociali, per accrescere il proprio dominio e per avere più forze nella corsa alla centralizzazione del potere capitalistico.
Oggi è la stessa rigidità, l’impermeabilità al cambiamento di un sistema che spinge verso la guerra ad imporre il ritorno a ragionare e, magari ad agire, in termini di rivoluzione.
È diventato più facile pensare alla fine del pianeta che alla fine del capitalismo, affermano gli autori, ed in effetti è proprio così. La crisi climatica sempre più vicina ai limiti dell’irreversibilità dimostra che senza un cambiamento radicale di sistema la società umana si dirige verso l’autodistruzione.
Si possono avere obiezioni su questa o quella conclusione e giudizio del libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, ma nulla si può opporre al rigore scientifico con il quale gli autori dimostrano la marcia verso il baratro della società in cui viviamo.
Mentre gli apologeti della guerra si lanciano in proclami ideologici e fanno pieno uso della falsa coscienza che nasconde la realtà, i nostri autori, quasi cinicamente, partendo dagli scambi commerciali e finanziari nelle e tra le grandi aree globali, dimostrano che se non c’è una rottura di sistema, la marcia delle forze dominanti verso la catastrofe della guerra totale continuerà fino alle estreme conseguenze.
E non è vero che le sanzioni economiche siamo un’alternativa alla guerra con le armi. Anzi ne sono una causa, visto che i principi del friend-shoring – cioè si commercia da amici solo con gli amici – sono stati enunciati dal ministro del Tesoro americano prima della guerra in Ucraina. Le sanzioni, cioè il protezionismo occidentale contro le altre economie, non seguono, ma precedono e alimentano la guerra.
“La guerra capitalista” è un libro semplice e sconvolgente, da leggere in un fiato e da meditare a lungo. Esso ci impone una riflessione dura, ma necessaria per chiunque voglia oggi cambiare le cose.
Cosa significa e come si costruisce un processo rivoluzionario nel XXI secolo? Come ricostruiamo con la pianificazione pubblica il controllo democratico sulle forze economiche, impazzite per la centralizzazione capitalista?
Questi sono le sfide che abbiamo e i tempi per affrontarle non sono eterni. Solo una rivoluzione ci salverà.
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