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24/11/2023

A Dubai l’ultima Cop?

La prossima Cop sul clima che si terrà a Dubai dal 30 novembre rischia di essere quella della resa definitiva. L’obiettivo minimo dichiarato, per il mondo nel suo complesso, è di tenere l’aumento della temperatura media di questo secolo al di dotto dei 2 gradi e il più vicino possibile al grado e mezzo.

Si tratta di una soglia su cui la comunità scientifica mondiale si ritrova praticamente all’unanimità, a prescindere dal paese, dal sistema politico e da quello economico. È forse l’unico terreno su cui statunitensi, russi, cinesi, cubani, europei, ecc., si trovano in sintonia.

Purché scienziati, chiaramente. Non appena si passa ad esaminare il comportamento delle classi politiche, e soprattutto delle multinazionali più grandi, la situazione cambia radicalmente e il negazionismo climatico – da Trump a Milei e agli altri reazionari senza cervello – diventa la credenza principale.

La soglia di 1,5 gradi (massimo due) dovrebbe segnare la differenza tra un cambiamento climatico ancora “gestibile”, seppure con un aumento dei fenomeni estremi che vediamo sempre più spesso (inondazioni, siccità, carestie, innalzamento degli oceani, ecc.), e una dinamica catastrofica incontrollabile che avrebbe conseguenze pesantissime sul piano sociale. Spingendo migrazioni a quel punto di dimensioni colossali verso le aree del pianeta più vivibili (e fin quando lo saranno...).

Quell’obiettivo, però, appare ormai quasi anacronistico. Gli ultimi dati racchiusi nel report dell’Unep segnalano che “tutti i record precedenti sono stati battuti”, al punto che l’aumento consolidato è ormai a 1,2 gradi. Evitare di andare oltre, con imprese industriali non disposte a mutare e classi politiche ormai da anni completamente subordinate al capitale (specie nei paesi-guida dell’area euro-atlantica), non è realisticamente possibile.

Se anche i governi rispettassero gli impegni presi, infatti – e sappiamo che la maggior parte non è su questa strada – l’aumento medio toccherebbe i 3 gradi.

Per capirci. Soltanto nei primi nove mesi di quest’anno (270 giorni) ci sono stati ben 86 giorni (uno su tre) con temperature superiori di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali. Negli altri simo stati poco sotto quel livello.

La Cop28, insomma, parte sotto i peggiori auspici. E non solo – come provano a far credere i media occidentali – perché si svolge in uno dei principali paesi produttori di petrolio, ovviamente tra i meno interessati a “cambiare marcia”.

A pesare negativamente c’è la divisone del mondo tra interessi geostrategici diversificati, o addirittura contrapposti. Se Usa e Cina si trovano a combattere sul fronte delle materie prime indispensabili per le tecnologie “green”, oppure su quello dei microchip, è inevitabile che anche le misure energy saving – il terreno d’azione della Cop – finiscano nel calderone degli argomenti utilizzabili (o meno) su ogni tavolo di trattativa.

E intanto il tempo passa.

Non va meglio con gli altri protagonisti di maggiori dimensioni (Europa e India, in primis), perché se il Vecchio Continente genera molta retorica green e un’infinità di “regolamenti”, ma pochi gesti concreti, per timore di compromettere la propria asmatica crescita economica stretta tra due guerre, sembra ancora più difficile chiedere ai paesi poveri che stanno industrializzando (come l’India) di rinunciare ad una parte del proprio sviluppo.

Il tutto – è bene ricordarlo sempre – in un contesto “ideologico” dove, almeno secondo il neoliberismo occidentale, “il pubblico” dovrebbe limitarsi a dare alcune regole generali mentre al “privato” delle multinazionali spetterebbe l’onore di far man bassa di profitti anche sulla “transizione ecologica”. Con risultati francamente risibili.

C’è un solo mondo. E non sopporta più lo sfruttamento senza limiti connaturato all’accumulazione capitalistica. Nè “l’anarchia del mercato”...

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