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30/11/2023

Delmastro a processo, ma è persino il problema minore...

La cronachetta ridicola della piccola politica italiana – questa è “la nazione” che Giorgia Meloni intende – ci consegna il rinvio a giudizio del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, per “rivelazione del segreto d’ufficio”.

La decisione è stata presa dal gip Maddalena Cipriani, accogliendo le conclusioni dell’altra gip, Emanuela Attura, che a luglio aveva imposto l’’imputazione coatta’ del sottosegretario. Si chiude così la fase dell’inchiesta partita dalla sparata suicida del suo compare di partito e di stanza, Giovanni Donzelli.

Il quale aveva trovato evidentemente “fichissimo” usare le intercettazioni delle chiacchiere in cortile tra l’anarchico Andrea Cospito e i suoi occasionali compagni di “passeggio”, nel carcere sassarese dove vige il 41bis, per attaccare l’ectoplasma dell’opposizione piddina. Rea, a suo dire, di aver ascoltato e registrato – tramite quattro parlamentari in visita istituzionale a quel carcere, dove Cospito era in sciopero della fame – le richieste dei detenuti.

La faccenda è leggermente più complessa e torbida di come la presentano oggi i media e, naturalmente, l’ultradestra al governo.

Vediamo perciò di separare le questioni per non fare confusione, e vediamo prima gli aspetti legali che hanno portato al rinvio a giudizio e poi cos’è avvenuto veramente (o molto probabilmente) quel giorno in quel carcere.

Donzelli, in aula, aveva citato parola per parola parti delle intercettazioni, che sono coperte dal “segreto d’ufficio” e dunque non possono essere a disposizione di nessuno, tranne gli inquirenti.

Non rientrando in questa categoria, al capogruppo dei “fratelli di Trenitalia” alla Camera la “soffiata” – ovvero il testo delle intercettazioni – poteva essergli arrivata solo tramite il compare di stanza, superiore in grado, come vice di Nordio, del direttore del Dap e sull’intera catena di comando.

Passaggio di carte peraltro pacificamente ammesso dal diretto interessato, che si era difeso allora dichiarando di “non essere stato consapevole” che quei documenti erano “riservati” e dunque non rivelabili in pubblico (tanto meno durante una seduta parlamentare in diretta televisiva!).

Sorvoliamo sulla “non consapevolezza” in materia di legge da parte del numero 2 del ministero apposito (nonché avvocato penalista, per disgrazia dei suoi clienti), e andiamo al nocciolo legale.

Tutto ruota sulla definizione di quei documenti come «a limitata divulgazione» (la dicitura apposta sulla copertina del fascicolo), che ne indica inequivocabilmente la natura “riservata” (e una diretta televisiva certamente non lo è...).

Vedranno i giudici, nel processo che ormai si deve aprire, come stanno le cose su questo piano e quanto sarà considerato grave il reato.

Sul piano politico, invece, le cose sono già chiare. Usare “notizie riservate”, ottenute grazie alla posizione istituzionale (viceministro) di un amichetto di partito è già oltre i limiti della miseria politica. Detto altrimenti: usare i poteri dello Stato per speculare un facile guadagno politico e da... fate voi.

Ma c’è sicuramente qualcosa di più e di peggio. La ricostruzione degli avvenimenti fatta da Luigi Manconi – parlamentare di lungo corso, nonché “specializzato” nel settore giustizia, e sulle carceri in particolare – è un tantino più grave. Ma dà la misura esatta di che tipo di gente sia quella di cui stiamo parlando.

Manconi fa sapere – e rammenta anche agli “inconsapevoli” – che in regime di 41 bis la stessa “socialità”, ossia la possibilità di incontrare altri detenuti durante l’”ora d’aria”, viene regolamentata in modo tale che non sia il detenuto a scegliersi con chi parlare.

La composizione dei piccoli gruppi (tre, massimo quattro persone) che passeggiano un’oretta al giorno nello stesso quadratino di cemento armato viene decisa dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), ossia dai vertici del ministero della Giustizia.

E il giorno della fatidica visita dei 4 parlamentari del PD, arrivati al carcere di Bancali per verificare le condizioni di salute dell’anarchico in sciopero della fame, Cospito – fino a quel giorno accompagnato ad altri due detenuti considerati di “bassa pericolosità” (non due boss, insomma) – viene invece messo insieme a due detenuti per mafia (Francesco Di Maio e Francesco Presta).

Tutto chiaro?

La decisione di far stare insieme quelle persone è stata presa ufficialmente dalla direzione di Bancali, non da Cospito. E, per chi conosce almeno le basi del vivere in un carcere, anche se la compagnia non te la sei scelta, non puoi fare a meno di scambiare quattro parole.

Se poi – come Cospito – in quei giorni, a tutte le ore, la televisione parla di te e della tua protesta, è inevitabile che quelle “quattro chiacchiere” tocchino anche quell’argomento e non solo il tempo che fa. Ma non è né un reato, né una dimostrazione di “contiguità”.

Un “lieve sospetto” che, al direttore del carcere, l’indicazione di creare quella inedita “composizione del passeggio” sia venuta “dall’alto”, ossia dal Dap (il capo era Giovanni Russo, in quel momento), ovvero dai vertici del ministero, e quindi anche dallo staff di Delmastro... non è poi un “pensare così male” (citando Andreotti...).

Il resto va da sé. La “triangolazione” tra il povero Cospito, i due mafiosi e i parlamentari del Pd è stata creata (per sbaglio o intenzionalmente) proprio dal ministero di Giustizia. Di cui Delmastro è tuttora il ‘numero 2’.

Le conversazioni tra tutte queste persone vengono registrate, sbobinate, raccolte in documenti “a diffusione limitata” e infine amichevolmente consegnate nelle capaci mani di Donzelli per consentirgli di fare la sua figura in Parlamento.

Edificante, non trovate? Che Delmastro finisca a processo è in fondo un problema decisamente minore. Quello enorme è la “qualità” di questa classe politica.

Roba da commuoversi ed arruolarsi subito... tra i monaci del monte Athos.

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