In una lettera aperta pubblicata sul sito internet dell’Università di Francoforte insieme con altri tre intellettuali (il politologo Rainer Forst, il giurista Klaus Günter e la storica delle relazioni internazionali Nicole Deitelhoff) il noto filosofo Jürgen Habermas ha preso posizione rispetto al conflitto israelo-palestinese, dichiarando la propria “solidarietà a Israele e agli ebrei in Germania”.
Orbene, chiunque conosca Habermas quale teorico dell’argomentazione veritativa e del dialogo basato sulla intenzione veridica, non dovrebbe meravigliarsi più di tanto per il fatto che quella presa di posizione apertamente guerrafondaia e brutalmente filosionista sia maturata, per dirla con Marx, “sotto le volte ipocrite della speculazione” e sia quindi modellata sullo stampo di una retorica pseudofilosofica che, essendo figlia delle istituzioni e dei rituali accademici, arma la mano del dispotismo imperiale fingendo che il mondo e le relazioni sociali siano come la “Scuola di Atene” di Raffaello, in cui i diversi pensatori dissertano ‘sine ira et studio’ suì massimi problemi dell’etica, della politica e della metafisica.
D’altra parte, questo pensatore ultranovantenne, transfugo della “scuola di Francoforte” e seppellitore dei suoi maggiori esponenti tanto migliori di lui (mi riferisco ad Adorno e a Horkheimer), non è nuovo ad una postura di totale adesione al blocco imperialista euro-atlantico.
Quando gli fu fatto notare, in analoga circostanza, che nel 1999 in Jugoslavia non c’era nessun genocidio serbo, egli fece finta di niente e con la stessa identica postura di pieno sostegno alla Nato e agli Usa sostenne egualmente l’intervento “umanitario” di queste potenze nel Kosovo, intervento effettuato mediante bombardamenti che utilizzavano l’uranio impoverito e colpivano indiscriminatamente la popolazione civile (fu addirittura centrata dalle bombe l’ambasciata cinese a Belgrado).
Sennonché quei Soloni tedeschi, dopo aver asserito che il furioso attacco di Israele «è giustificato», non si peritano di raccomandare che tale attacco sia eseguito rispettando «i principii di proporzionalità», evitando vittime civili e intraprendendo una guerra con la prospettiva di una pace futura.
E mentre in tutto il mondo e nello stesso Occidente imperialista si sviluppa una crescente mobilitazione di massa in solidarietà con la Palestina e contro il genocidio consumato dallo Stato sionista israeliano sull’inerme popolo palestinese, aggiungono, raggiungendo l’apice dell’ipocrisia e, insieme, dell’impudenza, che, a parer loro, non aiuta nella valutazione di quel conflitto se «alle azioni israeliane vengono attribuite intenzioni genocide».
Del resto, si potrebbe ancora continuare in questo museo degli orrori sottolineando il gravissimo errore che consiste nell’ignorare la presenza dell’elefante nella stanza, ossia nel rifiutarsi di riconoscere la natura aggressiva, terroristica, razzista e colonialista del sionismo, e identificando l’antisionismo con l’antisemitismo, come se l’esistenza di Auschwitz cancellasse ogni responsabilità penale e giustificasse ogni azione criminale di Israele nei confronti dei suoi avversari palestinesi ‘per omnia saecula saeculorum’.
In realtà, anche se Habermas se ne è dimenticato (o ha preferito metterla fra parentesi), pur avendo appreso a suo tempo questa verità grazie alla parte sana dell’insegnamento impartito dalla “scuola di Francoforte”, il crimine collettivo di Auschwitz, esattamente come il crimine collettivo di Hiroshima che è l’ineludibile termine di confronto con Auschwitz, non fu una peculiarità nazionale, giacché le sue radici risalgono al capitalismo.
È questo sistema socio-economico che, non rifuggendo dal mascherarli anche sotto le mentite spoglie di appelli etici al dialogo e alla comunicazione intersoggettiva, va riconosciuto come il vero padre della violenza e della barbarie, della tirannide e dell’orrore, e dunque resta la più grave minaccia per l’umanità.
Ecco perché, lungi dal prendere gli Usa a modello della democrazia, come insiste a proporre con senile accanimento Habermas, un intransigente antiamericanismo oggi – in questi decenni di brutale americanizzazione della nostra società – appare l’unica posizione moralmente e intellettualmente degna che un pensatore degno di rispetto possa e debba prendere.
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