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25/11/2023

Dal conflitto in Ucraina alla guerra totale

Il 22 novembre la Rada ucraina ha approvato in prima lettura il progetto di legge sul conferimento all’inglese dello status di “lingua di stato”.

Questo accade in un paese in cui è messa al bando la lingua madre di circa metà della popolazione e seconda lingua quotidiana dell’intera popolazione: il russo. Che, per inciso – poter continuare a servirsi della propria lingua madre – sin dal 2014 era una delle elementarissime richieste della popolazione del Donbass, poi aggredita dai neonazisti di Kiev.

Ma la Rada, che dal 2014 proibisce – pena multe salate o galera – l’uso della lingua russa e almeno dal 2019 anche delle lingue delle altre minoranze nazionali (principalmente ungherese, slovacco, ecc.) eleva la lingua inglese non solo a lingua di stato, ma, di fatto, a lingua dominante.

D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, vista l’occupazione delle sedi “decisionali” ucraine da parte di funzionari del Dipartimento di stato e altri dicasteri yankee. Naturalmente, per conferire un sapore meno schiavista al progetto di legge, lo si è definito come mezzo «di contatti internazionali in Ucraina».

Allo stesso tempo, si obbligano però tutti i funzionari pubblici, a ogni livello, a conoscere perfettamente la lingua inglese: dai vertici delle amministrazioni locali, agli ufficiali delle forze armate, dai funzionari di polizia ai procuratori, agenti doganali.

S’intende, che la necessità di tale “mezzo di contatti” si sia fatta davvero più stringente, soprattutto negli ultimi tempi, col viavai a Kiev di ministri e funzionari euroatlantici che, se da un lato cercano una via d’uscita da una situazione ormai insostenibile per le casse europeiste, dall’altro tentano di rassicurare la junta sulla continuazione delle forniture militari, divenuta quantomeno problematica.

Prendiamo, ad esempio, i proiettili da 155 mm, necessari alle artiglierie ucraine: Berlino ha promesso di inviarne poco meno di 2.500. C’è però un ma. I proiettili da 155 mm (il calibro di cui ha più bisogno Kiev) sono in teoria tutti uguali, adattabili a ogni cannone, e anche quelli tedeschi si adattano alle artiglierie americane o francesi. E, però, se ne contano 14 sottospecie: tutte diverse, così che il capo del Comitato militare NATO, Rob Bauer, ha dovuto fare un appello ai governi affinché si uniformi la produzione.

Ma le fabbriche militari dei paesi UE si sono da tempo concentrate su una più costosa e più redditizia produzione ad alta tecnologia: carri armati, veicoli, aerei, lasciando in secondo piano i proiettili. A quanto pare, nessuno si aspettava di usarne così tanti e ora non è affatto semplice espanderne la produzione. Occorre tempo: e quello manca.

Tanto più che il mercato spinge i produttori a vendere a chi paga meglio (i prezzi sono cresciuti a ottobre), mentre le forniture di proiettili all’Ucraina hanno un prezzo fissato dalla UE.

Sembra che il principale scopo del vertice del 22 novembre a Ramstein, cui ha preso parte anche il capo delle forze armate ucraine Valerij Zalužnyj, fosse appunto quello di convincere il complesso militare-industriale UE a operare secondo i precedenti programmi. E tutti storcono la bocca.

Intanto, il presidente ceco Petr Pavel dichiara che «gli eserciti della UE si preparano a un conflitto ad alta intensità». Allo scopo, da anni ci si sta infatti preparando a una maggiore mobilità militare: si allargano le gallerie, si rinforzano i ponti per i corazzati da gettare rapidamente a est, dove gli yankee trasferiscono truppe e rafforzano le proprie basi.

Camp Kościuszko, ad esempio, QG del V Corpo USA in Polonia, è un enorme centro logistico, una base a livello di divisione, mentre i tedeschi trasferiscono unità nei Paesi baltici. Si tratta di un piano, scrive Komsomol’skaja Pravda, per la realizzazione di una “muraglia” dal nord al sud dell’Europa: da Norvegia e Finlandia, attraverso Paesi baltici e Polonia, fino a Romania e Bulgaria. Un nuovo cordone sanitario.

Per quanto riguarda Kiev, oggi le forze ucraine hanno più bisogno di controllare i cieli con artiglierie, sistemi radio-elettronici, contraerea. Forniture di blindati (dalla Bulgaria) o anche di arei non cambiano la situazione, afferma l’analista militare Andrej Klintsevic: con le capacità russe di coprire l’intero territorio ucraino, non appena i nuovi aerei forniti a Kiev saranno individuati negli aeroporti, verranno immediatamente distrutti dai missili da crociera di Mosca.

C’è da dire, aggiunge Klintsevic, che ultimamente Mosca fa ricorso soprattutto a piccoli droni “Geran”, mentre si fa economia di “Kalibr”: con una produzione di qualche centinaio al mese, si preferisce accumularne alcune migliaia, per prossime necessità.

Perché, a dirla tutta, c’è il forte sospetto che oggi a Ovest si tenti una ripetizione del giochetto del “Minsk 2”: spingere per colloqui, per una tregua con Mosca, e intanto rifornire Kiev il più possibile, per poi prendere la “rivincita”, vista la disastrosa situazione odierna per le forze ucraine (l‘ex colonnello USA ed ex consigliere di Trump, Douglas Macgregor, parla di oltre 500.000 soldati ucraini morti al fronte) anche se si tenta di minimizzarne la portata.

In una conversazione telefonica con il presidente del Joint Chiefs of staff USA, Charles Brown, Valerij Zalužnyj ha definito la situazione al fronte «complessa, ma sotto controllo» sulle direttrici di Avdeevka, Kupjansk e Mar’inka.

Il fatto è che difficilmente le forze ucraine sono in grado di assicurarvi una stabile linea difensiva, essendo praticamente privi di retrovie, senza trincee né campi minati e uno sfondamento russo su una qualsiasi delle tre direttrici potrebbe risolversi in una completa disfatta per Kiev.

C’è dell’altro. Le ultime “notizie” messe in circolazione da Bloomberg, lascerebbero intendere che a Washington si sarebbe disposti ad arrivare a trattative con Mosca, in cambio della cessione di alcune regioni orientali ucraine.

Rimarrebbe sottinteso, che il resto dell’Ucraina dovrebbe continuare a costituire una piazzaforte avanzata USA-NATO, coperta di basi militari in cui stazionino armi nucleari e governata (si fa per dire) da una medesima junta banderista-neonazista.

Difficile credere che Mosca accetti tali condizioni, mentre intanto invia ben otto sistemi missilistici contraerei “S-300” in Tadžikistan, nella prospettiva che il prossimo obiettivo USA possa essere l’Iran: piazza nei paesi alleati propri sistemi d’arma, dotatati di potenti radar e, per l’appunto, l’Asia centrale rappresenta il “ventre” della Russia, il cui controllo è indispensabile per Mosca.

Perché il conflitto in Ucraina non sta affatto languendo, ma all’orizzonte potrebbe esserci qualcosa di molto più grosso.

Le già citate parole di Petr Pavel sono state pronunciate a Praga nel corso dell’incontro dei presidenti dei paesi “Visegrad” (Ungheria, Polonia, Slovacchia, Rep. Ceca) tenutosi in contemporanea alla riunione di Ramstein, il 22 novembre, per discutere del sostegno all’Ucraina e delle minacce militari ai paesi UE e NATO: ovviamente, da parte della Russia.

In quell’occasione, il presidente polacco Andrzej Duda, ha confermato che Varsavia «ha sottoscritto contratti per forniture di armi con USA e Corea del Sud e accresce sistematicamente il proprio esercito». E un esponente considerato addirittura “agente di Putin”, quale Robert Fitso, ha confermato la decisione di di continuare tranquillamente a fornire armi a Kiev: solo, lo farà non gratuitamente.

Ma sono le parole di Pavel a destare più preoccupazione. Egli ha proclamato che «Non solo la Repubblica Ceca, ma tutti nella NATO vedono nella Russia la minaccia numero uno in Europa. Ne consegue la necessità di prepararsi realisticamente a far fronte a un conflitto ad alta intensità», che potrebbe scoppiare tra 7-9 anni.

Bontà sua, ha aggiunto che nella NATO non si desidera un simile sviluppo, e le previsioni di conflitto costituiscono soltanto un «realistico ammonimento e non ciò che dovrà per forza verificarsi».

Ed è bene ricordare che più o meno negli stessi giorni di Pavel, la Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP), un centro studi finanziato dal bilancio federale, ha pubblicato un rapporto intitolato “Prevenzione della prossima guerra”, in cui è detto che i paesi NATO in Europa hanno «da cinque a nove anni» per prepararsi a respingere un possibile attacco russo sul territorio dell’alleanza.

E a dispetto dell’opinione della grande maggioranza dei tedeschi (e di buona parte dei cittadini europei), un ruolo importante nella strategia DGAP è assegnato all’Ucraina, per la sua «integrazione a lungo termine nel sistema occidentale di difesa e armamenti. Dato che il conflitto con la Russia continuerà probabilmente per decenni, la posizione dell’Ucraina, al confine con Russia e Bielorussia, significa che questo paese continuerà ad avere un’eccezionale importanza geostrategica per la sicurezza dell’Europa».

E il Ministro della guerra, Boris Pistorius ha proclamato che Berlino deve accrescere entro breve tempo il numero di soldati della Bundeswehr (cui sono destinati 100 miliardi di euro), espandere la produzione di armi e adeguare la mentalità della società tedesca alla “necessità” di fare la guerra.

Altri analisti tedeschi usano lo stesso linguaggio: «si deve sostenere l’Ucraina nella sua difesa dall’aggressore russo con tutto ciò che è a disposizione di Europa e USA. Perché in gioco c’è molto di più dell’integrità territoriale e della sovranità ucraina. L’attacco di Putin mira all’ordine della sicurezza europea», hanno scritto su Die Zeit, la scorsa settimana, l’esperto della Conferenza di Monaco sulla sicurezza, Nico Lange, e il politologo della Universität der Bundeswehr di Monaco, Carlo Masala.

D’altra parte, a Mosca c’è chi vede nelle dichiarazioni liberal-europeiste su una Russia che attaccherà l’Europa tra 9, 7, o anche 5 anni, solo un tentativo da parte degli “esperti” e degli “analisti” al soldo del complesso militare-industriale di ottenere nuovi ordinativi per la produzione di armi e attrezzature militari, in una situazione in cui Bruxelles e altre capitali europee pronosticano un conflitto in Ucraina della durata di molti anni.

Come che sia, par chiaro che i motivi delle imprese possano benissimo convivere, e anche prosperare, con quelli di Bruxelles e il risultato è che c’è poco da stare allegri.

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