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14/11/2023

I rischi del conflitto tra politica monetaria e fiscale

di Guido Salerno Aletta

Siamo arrivati al paradosso, allo strabismo.

Le Banche centrali, per contrastare l'inflazione che determina l'abbattimento del valore reale della moneta circolante, dei redditi e a maggior ragione del risparmio accumulato, perseguono il rallentamento dell'economia attraverso un aumento dei tassi di interesse e la riduzione della liquidità. Gli alti tassi di interesse riducono le disponibilità liquide delle imprese e delle famiglie e incidono sulla propensione a contrarre nuovi debiti: si determina così una flessione della domanda e conseguentemente dell'inflazione.

Gli Stati sono invece particolarmente sensibili sia alle conseguenze sociali e politiche dell'inflazione già determinatasi per via della riduzione dei redditi reali ed ancor più sono preoccupati per il rallentamento dell'economia che viene indotto dalla politica monetaria restrittiva. Adottano conseguentemente una politica di bilancio espansiva: aumentano la spesa pubblica, con trasferimenti alle famiglie impoverite dal carovita ed alle imprese che soffrono per i rincari dei prodotti energetici e delle materie prime. Aumentano i contributi in conto capitale alle imprese, per sostenerne gli investimenti e contrastare così la contrazione del credito bancario. Ma per farlo devono indebitarsi ulteriormente.

Come se questo non bastasse, i deficit pubblici aumentano per la necessità di rifinanziare a più alti tassi di interesse il debito già in essere che viene a scadenza.

Questa situazione di contrasto tra la politica monetaria restrittiva e quella fiscale espansiva è comune sia agli Usa che all'Eurozona.

Si rischia un avvitamento sui mercati: negli Usa, mentre la Fed "vende" il debito federale che ha in portafoglio e che aveva acquistato ai tempi del Qe, il Tesoro americano a sua volta deve piazzare sul mercato sia il nuovo deficit federale che rifinanziare a tassi più alti i titoli in scadenza. I risparmiatori americani sono indotti a ritirare quote dei loro depositi di conto corrente per sottoscrivere titoli federali ad alto rendimento, ma così facendo creano problemi di liquidità alle banche: deve intervenire la Fed, immettendo liquidità d'emergenza. Insomma, con una mano drena liquidità dal mercato e con l'altra deve rifornire di liquidità le banche.

Nella Eurozona, il vero salvagente è stato rappresentato finora dai consistenti "depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria" che negli anni scorsi erano stati accumulati presso la Bce dal sistema bancario: approfittando della grande liquidità erogata e non trovando utili occasioni di impiego, la tenevano parcheggiata. Queste somme sono immediatamente disponibili sia per fronteggiare il ritiro di depositi dai conti correnti da parte dei risparmiatori, sia per finanziare a credito la sottoscrizione di titoli di Stato da parte dei vari operatori.

Negli Usa, la situazione attuale è molto diversa da quella che abbiamo già visto ai tempi di Ronald Reagan, quando la Fed aumentò drasticamente i tassi per contrastare l'inflazione mentre il bilancio pubblico aumentava il disavanzo: allora non c'era nessuna crisi petrolifera internazionale da contrastare, perché l'aumento dei prezzi americani derivava da dinamiche tutte interne. Si trattava della "stagflazione", il mix di stagnazione ed inflazione, che aveva caratterizzato tutto il decennio precedente.

L'Amministrazione Reagan decise di forzare la mano comunque, riducendo le tasse ai cittadini e finanziando le spese militari volte a realizzare il programma di Scudo spaziale, basato sullo sviluppo di Internet e dell'informatica: il deficit federale andò alle stelle, ma fu facile finanziarlo perché gli alti tassi di interesse che venivano corrisposti sui titoli emessi attiravano capitali da tutto il mondo.

Stavolta non è così: non ci sono grandi disponibilità di capitali internazionali vaganti in attesa di impiego, a fronte di nuove emissioni assai consistenti e di rinnovi impegnativi. Così si spiega la recente decisione di Moody's di tagliare l'outlook sul debito sovrano degli Stati Uniti, portandolo da stabile a negativo.

Ciò che va guardato con attenzione è il fatto che i tassi dei titoli sul mercato siano aumentati di recente, nonostante già da due mesi la Fed abbia deciso di tenerli: il recente esito deludente dell'asta di titoli ventennali e trentennali ha fatto arrivare al 4,60% i rendimenti dei titoli a 10 anni, mentre quelli a 5 anni hanno superato il 5%.

Il mercato scommette sul cambio di strategia da parte delle Banche centrali, e dunque sulla prospettiva di un abbassamento dei tassi.

In ogni caso, mentre si dà per scontato che la Fed non lascerebbe mai senza copertura le emissioni del Tesoro, è altrettanto certo che un intervento di soccorso di questo genere creerebbe grande preoccupazione: sarebbe il segnale che gli Usa hanno troppo debito e che c'è poca moneta disponibile a sottoscriverlo.

La situazione che si è venuta a determinare è a dir poco imbarazzante: mentre le Banche centrali fanno di tutto per rallentare senza eccessivi traumi il ciclo economico, aumentando il costo del debito e riducendo la liquidità del sistema, gli Stati fanno di tutto per sostenere le rispettive economie finanziandole con un aumento del debito che costa sempre più caro.

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