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27/11/2023

Frenata tedesca, crisi lombarda

Quando un modello va in crisi ci vuole tempo sia per accorgersene, sia per superarlo. Specie se un altro modello – o una visione che lo renda possibile – neanche c’è.

In economia, come i nostri lettori sanno, il modello adottato con il Trattato di Maastricht è quello export-oriented: si produce insomma per esportare, non per il mercato interno. Per rendere più competitive le merci prodotte qui – visto che tutti i prezzi industriali, dall’energia alle materie prime, sono globali, in dollari e quindi uguali per tutti – si poteva agire solo sul salario, sia diretto (buste paga) che indiretto (welfare, sanità, servizi, istruzione).

Era il vecchio modello “mercantilista”, imposto dalla Germania a tutta l’Unione Europea ed accettato entusiasticamente da quell’industria strutturalmente debole – come quella italiana – che vi aveva visto l’occasione per crescere “a rimorchio” di qualcun altro. Nessuna preoccupazione né investimento in ricerca (se non in settori interstiziali, o per massimizzare il risparmio di lavoro umano), salari da fame e contratti “fantasiosi” (siamo arrivati a contare 43 tipologie diverse) che eliminassero in radice qualsiasi possibilità di compattare i lavoratori anche all’interno della stessa azienda e degli stessi reparti.

Un paradiso dello sfruttamento che ha garantito profitti favolosi anche con la crescita zero del Pil, ma che aveva il suo pilastro nella crescita tedesca. Che ha funzionato fino a quando la “globalizzazione” ad egemonia Usa ha assicurato una circolazione delle merci senza grandi ostacoli, e quindi mercati mondiali aperti.

Prima la pandemia, poi il ritiro dall’Afghanistan e l’esplosione della guerra in Ucraina hanno cambiato il quadro. Sanzioni, ritorsioni, chiusura di mercati e guerre commerciali hanno frantumato l’unità dei mercati. Il miglioramento continuo dei prodotti “delocalizzati” ha infine eroso anche le quote di mercato che sembravano più sicure (l’inarrivabile tecnologia tedesca era un mito).

Soprattutto i limiti posti dagli schieramenti internazionali hanno ridotto le dimensioni delle esportazioni. E l’incremento delle ostilità, per ora commerciali, con la Cina aggrava le previsioni negative.

Per i subfornitori iperspecializzati, come quelli italiani, si fa subito buio. Non è che puoi vendere a qualcun altro le singole parti costruite per entrare nella filiera produttiva tedesca. Cambiano standard e misure, entrano in gioco fattori di compatibilità...

IlSole24Ore, oggi, apre il primo sipario sulla crisi dell’industria bresciana, forse la più dipendente di tutte dagli ordinativi tedeschi. «Un crollo totale – dice Roberto Saccone, numero uno di Rubinetterie Bresciane – con volumi esattamente dimezzati».

A guardarsi intorno, rubinetterie a parte, il quadro è lo stesso. “Se a livello nazionale Berlino vale il 12,4% del nostro export, qui a Brescia si arriva oltre il 20%, addirittura quasi ad un quarto delle vendite estere nell’area vasta dei metalli, architrave della manifattura locale”.

Quasi inutile aggiungere il peso negativo dell’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bce, che non solo ha aumentato il costo del denaro e dunque la gestione della liquidità per tutte le imprese, ma ha provocato una crisi del settore delle costruzioni, visto che il livello raggiunto dai mutui è tale da congelare le vendite immobiliari (senza neanche accennare al fatto che la diminuzione della popolazione, di per sé, riduce la domanda di immobili).

E vengono fuori critiche prima inconcepibili verso alcuni pilastri delle politiche europee (“lo Stato non deve intervenire nell’economia”).

«Il Governo tedesco non investe in modo anticiclico sulle infrastrutture – spiega il presidente di Feralpi Giuseppe Pasini – e i risultati sono evidenti: a parte l’anno del Covid, non ho memoria di una Germania in calo. Per noi, che produciamo anche direttamente in Germania, la flessione è del 25 per cento. Una caduta della domanda che genera per le nostre filiere effetti negativi pervasivi».

Sembrava tutto così semplice: lo Stato si ritira, i lavoratori vengono divisi e zittiti, la Germania garantisce mercati di sbocco ed evoluzione tecnologica, le imprese gonfiano i conti in banca... e li investono nella finanza.

Tutto finito, e persino il presidente di Confindustria (espressione diretta di Assolombarda) alza le mani: «Vuole una sintesi? Lì è un disastro, siamo sotto del 30%».

Scomponendo i dati il risultato è solo leggermente più articolato: solo il 7% delle imprese vede una crescita, mentre nel 52% i volumi restano invariati e il 41% registra una brusca frenata dell’export verso Berlino. Gli esiti peggiori tra chimica, gomma-plastica e soprattutto metalli e metallurgia.

A tenere in piedi questo vasto indotto produttivo è ancora l’automobile, che sta registrando ancora buoni livelli grazie alla fine della pandemia e alle politiche “ambientaliste” che penalizzano la parte più vecchia del parco auto, spingendo per la sostituzione del circolante.

Ma anche qui si affaccia la concorrenza, soprattutto cinese.

Urgerebbe un altro modello, ma non è questa classe dirigente che può osare immaginarlo...

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