Nelle ultime settimane, Giorgia Meloni ed altri esponenti del Governo hanno in più occasioni lodato le gesta del proprio operato, sottolineando come l’economia italiana sia ‘tornata a correre’ e che stia crescendo più della media europea da quando l’attuale esecutivo si è insediato. I dati su cui si poggiano queste esternazioni sono, tuttavia, piuttosto deboli: come scritto nero su bianco nella manovra dello stesso Governo, il PIL crescerà dello 0,8% nell’anno in corso, mentre la previsione per il 2024 è al +1%. Numeri che, se confermati, non sarebbero assolutamente sufficienti a certificare una ripresa sostenuta, men che meno a recuperare quanto perso negli ultimi anni in termini di reddito. Ci accorgiamo, se allarghiamo lo sguardo agli ultimi due decenni, che la situazione macroeconomica è – contrariamente a quanto vogliano farci credere i governi di oggi e di ieri – tutt’altro che florida, e occorrerebbe molto di più di uno ‘zero virgola’ per segnare un deciso cambio di passo.
Il primo dato che salta agli occhi è che l’economia italiana non ha ancora recuperato i livelli di attività registrati nel 2008, ossia prima dello scoppio della crisi finanziaria e reale ‘importata’ dagli USA. Sorprendentemente, la stagnazione non dipende solamente dal collasso economico prodotto dalla crisi da Covid, che ha fatto segnare un -9% nel 2020: infatti, nemmeno nell’anno precedente all’esplosione della pandemia (il 2019) il PIL aveva raggiunto i livelli pre-2009. Il dato sul PIL si ripercuote sul mercato del lavoro e sulle condizioni materiali di milioni di persone: nel 2008, c’erano in Italia 1 milione e mezzo di persone in cerca di lavoro (15-64 anni), mentre attualmente ce ne sono più di due milioni (dati ISTAT). Questa evidenza fa da contraltare a quella sul tasso di disoccupazione, che attualmente si attesta al 7,3%, mentre nel 2008 era del 6,7 (aveva raggiunto un picco nel 2014 al 12,7%). Come abbiamo visto in più occasioni, tuttavia, la recente riduzione del tasso di disoccupazione va letta anche alla luce di tre ulteriori fenomeni: una vasta platea di inattivi, ossia di persone che non cercano un lavoro perché consapevoli di non trovarlo; l’esistenza di una sacca di sotto-occupati, ossia individui che hanno un impiego a tempo parziale, quando sarebbero invece disposti a lavorare a tempo pieno (questo secondo fenomeno si associa alla proliferazione di forme contrattuali atipiche), con importanti conseguenze sulle loro buste paga; l’esplosione dei contratti a tempo determinato in sostituzione dei più ‘sicuri’ contratti a tempo indeterminato, supportata da stagioni di severe politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Già questi semplici dati ci danno contezza dell’insufficienza delle misure economiche varate dai vari Governi, compreso quello attuale, per arginare gli effetti economici delle (varie) crisi a cui negli ultimi anni abbiamo (ahinoi) assistito. Ma, come già dovremmo sapere, la crisi non è uguale per tutti, in quanto può impattare in modo fortemente asimmetrico tra gli individui e le classi sociali. Il caso più emblematico è l’aumento delle disparità che registriamo negli ultimi dieci anni nel nostro paese. Dal 2007 al 2019 il più diffuso indice di disuguaglianza (Gini) è aumentato di tre punti, certificando che il reddito (già di per sé stagnante) si distribuisce in maniera sempre meno equa, ponendo l’Italia al penultimo posto (davanti solo alla Bulgaria) in Europa in questa speciale classifica. A questa evidenza occorre inoltre sommare la recente impennata inflazionistica, che ha causato una riduzione dei salari reali del 3,2% nel 2022 e di ulteriori 0,6% nell’anno in corso. Questa perdita secca, per giunta, avviene in un contesto in cui, come certificato dall’OCSE, l’Italia è l’unico paese avanzato in cui nel trentennio 1990-2020 abbiamo registrato un -2,9% alla voce salario reale (ossia la quantità di beni che il lavoratore può acquistare con la propria retribuzione).
Insomma, numeri alla mano ci sarebbe, ora più che mai, la necessità di intervenire pesantemente nell’economia attraverso politiche di sostengo ai redditi e all’occupazione, per invertire una tendenza alla stagnazione (e al conseguente peggioramento nella distribuzione del reddito) che sembra ormai cristallizzata. E invece? E invece il Governo Meloni sta per approvare l’ennesima manovra finanziaria nel segno dell’austerità, fatta di tagli alle pensioni e alle poche misure di sostegno alle fasce più deboli (vedi reddito di cittadinanza), nel solco di quanto accade nel nostro Paese da ormai trent’anni in ossequio alle regole europee. Imposizioni e diktat ai quali nemmeno questo Governo si sottrae, anzi, all’interno di cui riesce con relativa facilità a curare gli interessi del suo blocco sociale di riferimento, lasciando che l’inflazione faccia il suo corso e favorendo una redistribuzione di reddito dal basso verso l’alto (non è un caso che il Governo non abbia fatto niente per contrastare gli effetti deleteri dell’aumento dei prezzi sul potere d’acquisto).
Ma c’è di più. Un’ulteriore sponda all’approccio del Governo Meloni è arrivata dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), che da sempre opera pronunciandosi sull’appropriatezza delle misure intraprese dai singoli paesi e sulla ‘sostenibilità’ del loro debito. Ci ha pensato direttamente la Presidente del FMI, Kristalina Georgieva, a specificare che i Paesi che hanno visto accrescere il proprio rapporto debito/PIL (per effetto della crisi da Covid) devono ora “allacciarsi le cinture e procedere a correzioni di bilancio”. In particolare, il FMI sottolinea come l’austerità del Governo Meloni non sia sufficiente, e che “l’aggiustamento (tradotto: l’aumento delle tasse e la riduzione della spesa) che l’Italia sta adottando non funzionerà abbastanza velocemente da ridurre i livelli di deficit e debito”. Dietro l’apparente monito finalizzato a incoraggiare politiche fiscali più rigide si nasconde un prezioso assist al governo, il quale non solo può continuare serenamente nel percorso di austerità intrapreso, ma è incoraggiato a essere ancora più spavaldo in tal senso, stringendo ulteriormente la cinghia a scapito dei soggetti più fragili.
Secondo la Presidente del FMI, inoltre, “per l’Italia, il problema è aggravato dal rallentamento della crescita a seguito del ritiro delle misure di sostegno pubblico”. In altri termini, si riconosce che la spesa pubblica fa crescere l’economia, ma qual è la prescrizione che deriva da questa considerazione? Ancora austerità! Austerità! Austerità! Le misure espansive sono possibili solo ed esclusivamente in casi straordinari (una pandemia, per l’appunto), mentre, appena la fase più dura della crisi è superata, si deve immediatamente tornare sui binari del rigore. Tuttavia, come abbiamo visto dai dati riportarti in apertura, siamo ben lontani dall’esserci lasciati la crisi alle spalle: la vera questione è che, per chi governa l’economia, la situazione attuale, fatta di miseria e disuguaglianze, è da considerarsi un’accettabilissima normalità. Una normalità in cui qualcuno sguazza, appropriandosi delle fette più grosse della torta, e in cui molti arrancano. Nonostante i milioni di disoccupati, inattivi, part time involontari e lavoratori poveri, nonostante i salari da fame, fuori dall’emergenza bisogna soffrire e basta.
Le politiche di rigore e austerità di questo governo e delle istituzioni internazionali, che dietro la facciata di continui conflitti e tensioni agiscono all’unisono come complici di una rapina a mano armata (a tutela degli interessi delle classi dominanti), non fanno altro che alimentare questo triste scenario, ragion per cui se si vogliono veramente mettere in campo politiche socialmente più inclusive non possiamo fare altro che emanciparci da queste regole e da questi Governi.
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