La vittoria del suprematista razzista Geert Wilders nelle elezioni politiche olandesi chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio quale sia la china su cui sta rotolando, a velocità crescente, tutto l’Occidente neoliberista.
L’ossigenatissimo leader dell’estrema destra boera ha ottenuto stavolta il 23,6% dei voti, che corrispondono a 35-37 seggi in Parlamento. Date le dimensioni del paese, della popolazione e dunque anche della rappresentanza politica, tanto basta ad essere il vincitore assoluto.
Anche in Olanda, infatti, l’offerta politica è parecchio frammentata. Al secondo posto se la battono i socialdemocratici (in coalizione con i Verdi), guidati da Frans Timmermans – ex vicepresidente della Commissione Europea – che, pur crescendo un poco, si fermano al 15% e a 25 seggi.
Seguono i veri sconfitti, i liberali dell’ex premier Mark Rutte, ora rappresentati da una donna, Dilan Yesilgoz, al 14,4% e 22-24 seggi (almeno 10 meno rispetto alla precedente elezione).
Poi il Nuovo Patto Sociale, praticamente democristiano, appena fondato da Pieter Omtzigt, con 20 seggi. Seguono altre cinque o sei formazioni, con una manciata (e anche meno) di seggi a testa.
Il problema ora è formare un governo, ovviamente. Tutti, prima delle elezioni, e soprattutto i partiti più grandi, avevano giurato che non avrebbero mai formato un esecutivo insieme a Wilders. Ma sono bastate poche ore a far cambiare la situazione.
L’unico oppositore vero sembra rimasto Timmermans che, proprio in quanto socialdemocratico (nel significato vacuo in voga oggi) e soprattutto ex dirigente europeo dell’austerità, non può proprio incrociare i destini con un cosiddetto “sovranista”, per di più anti-islamico e anti-immigrazione.
Ma liberali e “nuovi pattisti” sono già meno convinti di prima. Yesilgoz si è nascosta dietro una decisione collettiva che dovrà esser presa dalla direzione del suo partito, non escludendo più nulla. Omtzigt si è invece già sbilanciato nel prospettare una trattativa e un possibile accordo.
Come in tutti i suq politici di questo mondo, insomma, dipenderà da un’adeguata mediazione sulle poltrone più importanti.
Esultano ovviamente gli ultradestri di vari paesi (Orbàn, Le Pen, Salvini su tutti), che già accarezzano l’idea di ritrovarsi in un Parlamento europeo, dopo le elezioni di giugno, completamente spostato a destra.
Fanno ridere, o meglio rabbia, tutti i sedicenti “democratici” che si mostrano ora spaventati da questa prospettiva e dall’avanzata dei cosiddetti “populismi”.
Anche le elezioni argentine hanno mostrato l’identica dinamica politica, a conferma che non si tratta di “infortuni congiunturali”, legati a situazioni nazionali specifiche o a “subculture” nazionali. E all’orizzonte si profila la figura di Trump, pronto a tornare – peggio di prima – alla guida della superpotenza in declino...
È in atto in tutto l’Occidente neoliberista – o, per meglio dire, nell’imperialismo euro-atlantico – una corsa verso il superamento/abbandono della democrazia liberale borghese.
Può sembrare interessante, ed in parte lo è, esaminare questa corsa dal punto di vista solo politologico o, appunto, “culturale”. Ma non si può capire nulla se non si mette al centro dell’analisi la crisi specifica del capitalismo occidentale – uno degli ormai molti capitalismi esistenti e concorrenti – che va avvitandosi al seguito dell’ex economia “egemone” sul pianeta: quella statunitense.
Schematizzando molto, è abbastanza evidente che 50 anni di neoliberismo e di smantellamento dello “stato sociale” hanno creato una situazione in cui gli Stati non hanno più gli strumenti concreti per incidere sulla dinamica economica. E dunque sono obbligati a gestire il bilancio pubblico con in una mano le forbici per tagliare le spese e nell’altra un cappello per chiedere al capitale finanziario privato di comprare il debito pubblico (con adeguati interessi...).
L’esempio italiano è a suo modo paradigmatico. Nel 1981 il ministro Andreatta decide il “divorzio” tra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. In pratica, via Nazionale non può più comprare i titoli di stato (emessi dal Tesoro, appunto) direttamente in asta, alzandone così il prezzo e diminuendo quindi gli interessi che lo Stato avrebbe dovuto pagare.
Da quel momento in poi è stato “il mercato” a decidere in piena autonomia il prezzo e il tasso di interesse sui titoli pubblici. E ovviamente il prezzo è crollato, gli interessi sono decollati...
Allora il rapporto debito/Pil, per l’Italia, era al 60%, come poi deciso nei parametri di Maastricht. Ma da lì in poi non ha fatto altro che crescere, perché da un lato la spesa per gli interessi cresceva a dismisura, e dall’altro – grazie ai “tagli” e alle privatizzazioni delle imprese pubbliche (industrie e banche) – lo Stato vedeva diminuire le sue entrate. I “tagli delle tasse”, come logico, hanno poi concorso ad aggravare una situazione comatosa...
Una spirale infernale che ha portato in breve a tagliare pensioni, sanità, istruzione, servizi sociali, trasporti pubblici, ovvero tutte le voci del “salario sociale”, e quindi ad impoverire a ritmi crescenti tutta la popolazione, lavoratrice e non.
Con la creazione della Bce questa spirale infernale è diventata “regola europea”, e tutti i paesi – a cominciare da quelli “frugali”, che l’avevano già introdotta e ne avevano chiesto l’approvazione continentale – hanno preso a correre verso il baratro.
Con la “crescita” azzerata e lo Stato immobilizzato, la povertà ha presto cominciato a mordere. E, nella “battaglia delle idee” in seno alla società, ogni peggioramento delle condizioni sociali veniva addebitato proprio agli “sprechi pubblici” anziché allo strozzinaggio del capitale finanziario, ovviamente “privato”.
Fin quando – e siamo all’oggi – tutta la sofferenza sociale può essere agevolmente indirizzata contro nemici di comodo (immigrati, islamici, “i russi”, “i terroristi”, ecc.), grazie a sistemi di media che sono tutti in mano ad aziende privatissime. E che dunque decidono in base ad interessi privatissimi quali idee “passano” e quali no.
Siamo insomma all’applicazione generale, per tutto il mondo euro-atlantico, dei risultati dell’”esperimento” condotto in Cile con il golpe di Pinochet (liberismo economico e dittatura politico-militare). Ci stiamo arrivando con il “populismo” reazionario che sbanca alle elezioni, anziché con i soldati nelle strade.
Ma, per la natura stessa del liberismo privatistico, non essendo previste risposte politiche all’impoverimento di masse crescenti di popolazione “bianca e occidentale”, i soldati seguono...
Certo, se vi fermate a guardare la capigliatura di Wilders, non vedrete niente...
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