Se
tutti coloro che ne hanno voglia se ne potessero andare, nel giro di
un paio d'anni l'Italia rimarrebbe probabilmente con meno abitanti di
San Marino.
Soltanto nel mondo
delle favole, quello dei media e dei politici di regime, si continua a
parlare di una fantomatica fase due, quella dello “sviluppo” (che
sarebbe comunque insostenibile) e della “crescita”. Nel frattempo, solo
in questi ultimi due mesi di ossessiva campagna elettorale sono stati
persi 186mila posti di lavoro. Sono gli effetti, assolutamente
prevedibili e chiaramente premeditati, delle politiche recessive del
governo Monti, che ha trasferito un'immensa quantità di ricchezza dai
lavoratori, dai pensionati, dalle famiglie e dalle piccole imprese al
sistema bancario e alla speculazione finanziaria, così come prescritto
dai dettami dalla tecnocrazia europea.
Nella
cosiddetta “seconda repubblica”, nata dal progetto piduista di
“rinascita democratica”, hanno governato a turno centro-sinistra e
centro-destra, fino ad arrivare al Grande Inciucio del governo “tecnico”
in cui i due schieramenti hanno sostenuto congiuntamente le politiche
dettate dalla grande finanza, dal Vaticano e delle lobby massoniche e
confindustriali. Una vera e propria guerra di annientamento delle classi
subalterne.
Scimmiottando gli
aspetti più deteriori della politica statunitense, tra primarie,
convention e governatori, PD e PDL hanno agito come rappresentanze
politiche di gruppi di interesse che hanno depredato il territorio,
azzerato i diritti, privatizzato i beni comuni, mentre si finanziavano
spese militari sempre crescenti in cerca di avventure neo-colonialiste
nei Paesi del Sud ricchi di risorse.
È
stato cinicamente utilizzato il ricatto occupazionale per imporre lo
smantellamento dei diritti dei lavoratori (modello Marchionne) o del
diritto alla salute (modello ILVA).
E
se è vero che il marchio culturale di questo ventennio è stato quello
di Mediaset e del berlusconismo, non può essere sottaciuto il ruolo di
gruppi editoriali come Repubblica - L'Espresso che hanno costruito un
vero e proprio oligopolio informativo al servizio di un sistema
politico bloccato, corrotto e autoritario.
Non
è esatto dire che nessuno in Italia si sia opposto a questo stato di
cose: in ogni paese, in ogni città, movimenti, comitati e associazioni
locali si sono battuti e si battono contro i predatori di ogni risma per
difendere i servizi pubblici e i beni comuni contro le
privatizzazioni, la chiusura degli uffici postali, la sparizione dei
trasporti, lo smantellamento degli asili o dei distretti sanitari, gli
sfratti. Si oppongono alle politiche di guerra o alla distruzione della
scuola e dell'università, ma soprattutto per difendere il loro
territorio, il loro ambiente e la loro salute.
Di
queste lotte, che i politici di regime definiscono spesso
spregiativamente “estremistiche” o “nimby”, è diventato il simbolo il
Movimento NO TAV. È grazie alla lotta NO TAV che è venuto alla luce
tutto un sistema degli inciuci bipartisan e si è palesato il ruolo delle
cooperative edilizie legate al PD come motore della politica delle
grandi opere inutili.
Ma in questa
miriade di lotte locali ci sono stati dei grandi assenti, ovvero le
forze organizzate della sinistra. A parte singoli militanti e gruppi
locali, il funzionariato della cosiddetta “sinistra radicale” non si è
mai staccato dal cordone ombelicale dei finanziamenti pubblici e delle
connivenze con il PD a livello nazionale o locale.
La
realtà è che dopo il G8 di Genova a sinistra si è affermata una logica
perversa di autoriproduzione di piccoli gruppi burocratici e di
abbandono di ogni pratica politica di inchiesta e di radicamento nel
sociale.
Questo vale non solo per le forze politiche ma anche per organizzazioni sindacali e i mezzi di informazione tradizionali.
Il
fallimento indecoroso della manifestazione del 15 ottobre 2011 contro
le politiche di austerità, del tutto rimosso dal dibattito politico,
ha palesato come ognuna delle componenti più o meno organizzate
cercasse soltanto una propria visibilità mediatica, da chi voleva la
passerella per lanciare la propria candidatura elettorale a chi
bruciava le macchine a due metri di distanza dal passaggio del corteo.
Avanza
con fatica e con sonore frenate il progetto di costituire un sindacato
di base unitario alternativo alla CGIL soprattutto a causa di
settarismi e personalismi. Vi sono dirigenti sindacali che sono al loro
posto da più tempo di quanto Breznev sia stato presidente del Soviet
Supremo.
I finanziamenti pubblici di
cui la sinistra parlamentare ha goduto per vari anni sono serviti a
mantenere una pletora di funzionari, ma non a costruire iniziativa sui
territori e neppure a finanziare media alternativi, come dimostra la
fine ingloriosa dei quotidiani Manifesto e Liberazione. Il primo
incapace di allargare la propria audience oltre una nicchia di reduci
radical-chic e dilaniato tra lotte interne tra una vecchia guardia
incartapecorita arrivata perfino a giustificare l'intervento militare
in Libia e una nuova direzione appiattita sul supporto a SEL, il
secondo distrutto da Sansonetti tra indecenti uscite contro i governi
progressisti dell'America Latina e assurde esaltazioni della vittoria
di Vladimir Luxuria all'isola dei famosi. Entrambi comunque rimasti
dipendenti dai finanziamenti di Stato per l'editoria.
In
nome delle varie forme di finanziamento pubblico la sinistra
cosiddetta “radicale” ha ingoiato tutto, approvando le missioni in
Afghanistan o il taglio delle pensioni, fino ad arrivare al disastro
della “Sinistra Arcobaleno” del 2008 in cui l'ormai screditato cartello
rosso-verde è stato spazzato via dall'elettorato.
Ma
neanche oggi la sinistra cosiddetta “radicale” sembra aver capito la
lezione. La formazione di Ingroia, oltre a candidare ogni genere di
zombie, da Diliberto in giù, continua a cercare ambigue convergenze con
il PD (“Al governo? Con il PD sì, con Monti no”) che la rendono del
tutto impresentabile.
L'ottimo editoriale di Infoaut
sul Movimento 5 Stelle uscito qualche giorno fa ha il merito di
evidenziare che il successo dei “grillini” dipende in gran parte da
questa clamorosa assenza della sinistra. Ed è normale che oggi si
affermino formazioni che si dichiarano “né di destra né di sinistra”
quando la sinistra ha dato negli ultimi anni questa immagine di sé. Né
vale appellarsi a pregiudiziali ideologiche che in questo periodo di
rabbia e frustrazione lasciano solo il tempo che trovano.
Anche
qui da noi i militanti di partito (con pochissime eccezioni) sono
spariti tutti da tre mesi a questa parte, affaccendati nella loro
campagna elettorale, e quando hanno partecipato a iniziative di
movimento lo hanno fatto solo per cercare di recuperare consenso e
militanti.
In questo quadro la
presentazione di liste elettorali ha un carattere del tutto
autoreferenziale, non rappresenta e non aiuta nessuno. Anche senza
essere astensionisti per principio, la partecipazione alle elezioni può
avere un senso come momento di visibilità di un movimento di massa, che
al momento non c'è, o che comunque non ha una struttura decisionale
definita che possa o voglia esprimere una coalizione elettorale.
La
chiave è tornare a misurarsi nel sociale, nei territori, dimostrando
che la politica è prima di tutto passione e impegno disinteressato.
Sperimentare forme di economia solidale, di fuoriuscita dalla dittatura
del mercato, di ricostruzione di reti di protezione sociale che
facciano da argine alla desertificazione neoliberista.
Sarebbe
riduttivo però parlare soltanto di un problema di prassi politiche.
Rimangono a tutt'oggi irrisolti dei nodi fondamentali come la questione
della democrazia diretta e della partecipazione popolare, della
pianificazione non burocratica dell'economia, delle forme che può
assumere un processo di uscita dal sistema capitalistico nel Terzo
millennio e della costruzione di una società sostenibile e solidaria.
Su
questi temi si continua a rimanere sotto una cappa di provincialismo:
nessuno ha cercato veramente di costruire una forza alternativa europea
(coordinandosi con i movimenti greci o spagnoli) o addirittura
globale (gli snob continuano a storcere il naso di fronte alle
interessanti esperienze dell'America Latina).
Per
questi ritardi non è sorprendente che soggetti sociali che avrebbero
come riferimento naturale la sinistra alternativa si riconoscano oggi in
una forza come il Movimento 5 Stelle. Una forza che non proviene dalla
tradizione della sinistra ma che ha saputo lavorare sui nuovi
strumenti di comunicazione e ha quanto meno cercato di dare delle
risposte ai loro problemi più sentiti.
Il
Movimento 5 Stelle ha saputo offrire una prospettiva, sia pure
ingenua, di cambiamento, bastata su un'idea di comunità e su un'economia
solidale e sostenibile. Ma soprattutto ha saputo lavorare sui nuovi
strumenti di comunicazione meglio di chiunque altro.
Una
comunità “virtuale” ma non solo, visto che non si vedeva tanta gente
ad ascoltare comizi in piazza dall'immediato dopoguerra.
Sulle ambiguità e i limiti del Movimento 5 Stelle abbiamo già scritto in occasione dell'ultima venuta di Beppe Grillo a Livorno
e non vogliamo ripeterci, ma è innegabile che la partita che si
giocherà in queste elezioni è quella tra i partiti di regime (quelli che
hanno sostenuto il governo Monti) e questo movimento.
Di
fronte a questo dato di fatto, rimangono due opzioni: non votare,
ricordando che in un sistema capitalistico le elezioni servono solo a
sanzionare i rapporti di forza tra le classi che si determinano su ben
altri terreni, o votare per “il nemico del nostro nemico”, cercando di
rendere difficoltosa la governabilità dei fiscal compact e delle
spending review, che i vari candidati, dietro le polemiche di
prammatica, hanno già dichiarato di sottoscrivere.
Entrambe
queste opzioni hanno un loro senso e sono rispettabili, e hanno
comunque delle “controindicazioni”. Il non voto è già abbondantemente
messo in conto dal sistema politico dominante, e sostanzialmente non
preoccupa nessuno. Il voto per il Movimento 5 Stelle potrà essere
tranquillamente riassorbito se non si creeranno quei presupposti di
analisi e di radicamento sociale che sono imprescindibili per una forza
di alternativa, e in mancanza dei quali non c'è risultato elettorale
che possa assicurare un sia pur minimo cambiamento. Sulla base di queste
riflessioni, ognuno faccia come crede. Certo, dopo anni di leggi
elettorali truffa, di sbarramenti e di tormentoni sul “voto utile”
vedere Bersani e Monti nel panico perché privi di una maggioranza
parlamentare sarebbe divertente...
per Senza Soste, Nello Gradirà
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