Se si rompe la continuità anche rituale di un'istituzione bimillenaria,
come la Chiesa, l'ultima cosa da fare è cercare spiegazioni banalmente
contingenti, “politiche”, sguazzando nei meandri dei complotti grandi e
piccoli che da sempre agitano i corridoi dei palazzi, inclusi quelli del
Vaticano.
L'”abdicazione” di Benedetto XVI è un evento di portata
storica per l'Occidente. Qualsiasi sottovalutazione è un'occasione persa
per riflettere sul crinale epocale in cui si trova l'umanità intera,
determinando anche le forme della lotta di classe.
Non siamo
“vaticanisti”, non ci interessa neppure soffermarci – come molti hanno
fatto in queste ore – sulle motivazioni individuali di Joseph Ratzinger,
perché a quel livello di responsabilità l'”io” è l'ultimo dei problemi.
Ma è anche il punto terminale dove si scaricano
le tensioni, le contraddizioni, le fratture di un mondo in disfacimento,
cui un'Istituzione globale – la chiesa cattolica – non sa più dar
risposta. Siamo materialisti e atei, è noto. Proprio per questo dobbiamo
vedere nel gesto del papa la risultante di processi planetari innescati da dinamiche che con “il divino” hanno poco a che fare.
Un segno di crisi, insomma.
Le divisioni e gli scontri – ammessi dalle stesse parole di Ratzinger – sono la fisiologia di un'istituzione di lunga durata, non la causa della
sua crisi. Facciamo un esempio banale: un Parlamento è il luogo del
conflitto politico che deve partorire legislazione. Lì dentro ci deve essere
scontro tra parti e visioni diverse, perfino opposte. È costruito per
questo. Ma quando il conflitto supera il livello della governabilità,
“esonda” il confine, allora mette a rischio la continuità stessa
dell'istituzione. Ciò accade non perché i “gruppi di interesse
organizzati” e i piccoli uomini che li rappresentano abbiano “perso”
consapevolezza istituzionale, ma perché quegli interessi sono diventati
incomponibili.
Tornando alla Chiesa cattolica – che ha una vita
ben superiore a quella di qualsiasi parlamento per la buona ragione che
il suo “comporre interessi” si svolge (o dovrebbe svolgersi) su un piano
decisamente più alto, metastorico se non metafisico – la frattura
incomponibile riguarda decisamente le risposte che da un'istituzione così sarebbe giusto attendersi di fronte a una palese crisi di civiltà.
La Chiesa ne ha vissute e superate altre, in 2.000 anni. Da quando è
diventata “potere”, uscendo dalle catacombe, ha superato lo scisma
d'Oriente (Costantinopoli e gli ortodossi), arrivando a rappresentare
fisicamente, per secoli, sia l'istituzione che conservava e riproduceva la conoscenza, sia il principio di legittimazione del potere terreno (le
monarchie assolute). Un ruolo che ne ha fatto storicamente la “sintesi”
della civiltà occidentale, fino all'apparire del capitalismo.
La nascita delle università le sottrasse il monopolio sulla conoscenza,
aprendo la strada a nuove scienze e nuovi principi, apertamente negativi
dei principi del “dogma”.
Lo “scisma d'Occidente” – il
protestantesimo nelle sue varie scuole – è stato contemporaneamente la
condizione per l'affermarsi dell'”iniziativa privata” come motore avido
della crescita economica e la legittimazione di una relazione
“privatistica” tra il singolo e la divinità. Una “riforma” religiosa che
tagliava al tempo stesso la mediazione della gerarchia e
l'infrangibilità della “verità rivelata”, entrambe fisicamente
rappresentate dal Pontefice (“il ponte” tra terra e cielo).
Di
lì in poi, tranne che nei paesi europei latini, l'espansione della
“parola di dio” in versione cattolica è avvenuta quasi soltanto tra i
popoli colonizzati.
Ma la “secolarizzazione”, il “materialismo
del capitale”, si è imposto come principio formatore della società,
plasmandola e ridisegnandola a ogni rivoluzione industriale. E
l'Istituzione bimillenaria, abituata ad accompagnare i cambiamenti
fidando nella superiorità del “trascendente” rispetto alla contingenza
destinata a sparire presto, ha cominciato ad arrancare. Come si può
sintetizzare in un unico messaggio la speranza dei molti e l'avidità dei
pochi senza scontentare nessuno? Come si può, quando un tweet
proveniente da “dio in persona” può esser svillaneggiato dall'ultimo
alcolizzato in pochi secondi, in qualunque parte del mondo?
Le categorie millenarie che hanno fin qui permesso alla Chiesa
cattolica di interpretare i cambiamenti senza – quasi – subirne gli
effetti, mostravano i limiti già 50 anni fa. Il Concilio del 1962 provò a
interpretare il passaggio sbilanciando l'istituzione a favore degli
“ultimi”, aprendo le porte alla critica dei “primi”, ovvero del
capitale. Ma gli anni '80 hanno ripristinato la Chiesa come “identità di
fede” e stampella del potere terreno, impegnandola come punta di lancia
contro “l'ateismo comunista”, personalizzato nel declinante “socialismo
reale”.
Missione compiuta con successo e immediata fine
dell'utilità della Chiesa nel mondo del capitale senza progetto. Come un
Noriega o un Saddam, messa da un lato e marginalizzata senza nemmeno un
“grazie”.
Che in questo corpo improvvisamente “desacralizzato” e
senza ruolo si aprano contraddizioni è fisiologico. Le dimissioni di
Ratzinger, però indicano anche il rischio che queste contraddizioni non
trovino più soluzioni efficaci (al di là dei cerotti e dei placebo; dei
“papi di transizione”, insomma).
Indicano una difficoltà che
investe – com'è giusto che sia, per il ruolo che la Chiesa ha avuto –
tutto l'Occidente. Un mondo che vive in un “eterno presente” e non
riesce più nemmeno a vedere la propria crisi. Al contrario di un
filosofo diventato papa e quindi costretto a verificare sul campo che le
proprie amate categorie non interpretano più il mondo e tanto meno lo
ricompongono in un disegno “divino”.
Un segno di crisi, dunque. Non solo della Chiesa, ma di questa civiltà.
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