La disarmante vuotezza del
linguaggio dei cartelli elettorali, assieme all’evaporazione di
qualsiasi contenuto comunicato alla società (mentre chi deve decrittare
certi messaggi lo fa benissimo), può far pensare che dopo le elezioni
comunque non cambierà praticamente niente. Niente di più
comprensibilmente errato. E non solo certo perchè, con la primavera,
scatteranno una serie di aumenti automatici, di tariffe come di tasse ma
anche dell’Iva, già previsti dalle precedenti leggi di stabilità. E
nemmeno perchè probabilmente ci sarà una nuova manovra correttiva, leggi nuovi
tagli, già intravista in autunno dalla fondazione diretta da Visco e
Bersani. La questione è di prospettiva: siamo nel bel mezzo di un
decennio economicamente perduto e le forze politiche stanno mutando. In
un modo che, paradossalmente, mostra un tipo di rappresentanza politica
più aderente alla nuova situazione sociale ed economica. Non guardiamo
tanto alle percentuali di voto espresse il 24-25 di questo mese. Ma
piuttosto al fatto che, nel conflitto tra schieramenti precedenti, si
stanno formando di fatto due poli. Uno legato, sia per interesse che per
disperazione, alla governance europea. Prevede una sostanziale fine
dell’investimento pubblico, rigide politiche di bilancio, ulteriore
smantellamento dei servizi e contenimento del costo del lavoro
(precondizione per quella che viene chiamata “crescita”). Un altro è una
sorta di terra di nessuno fatta da chi si oppone a vario titolo. Anche
se si tratta di forze non ricomponibili e irriducibili tra loro.
Una
volta terminato lo spoglio elettorale, tra retoriche e conflitti di
ogni genere, questi due poli avranno terminato il loro posizionamento e
la loro articolazione interna. Da lì si capirà come, e se, il cosiddetto
“risanamento” dell’economia potrà procedere. Ma occhio anche ai
risultati livornesi, forse la sorpresa è dietro l’angolo. Una città che
vive di paralisi ne avrebbe un gran bisogno.
per Senza Soste, Nique la police
***
Il mito del voto utile
A ogni tornata elettorale risorge il mito del voto (in)utile dovuto anche a un sistema elettorale costruito sul ricatto
C'era
una volta il Mattarellum, la legge elettorale in senso maggioritario
che emerse dopo il referendum del 1993 e il cui relatore fu Sergio
Mattarella. Una legge che prevedeva 3/4 degli eletti con il sistema
uninominale maggioritario, cioè collegi dove il candidato che otteneva
più voti si prendeva il seggio lasciando agli altri solo una parte di
1/4 di eletti da assegnare con sistema proporzionale. Questo sistema
diminuì il potere centrale dei partiti dandone molto di più ai singoli
candidati che si scannavano a suon di spese folli per le propagande
elettorali. Ma aumentò anche il potere di molti partitini che, in cambio
di un appoggio decisivo a un candidato in molti collegi sul filo del
rasoio, ottenevano un proprio candidato in un collegio di sicura
vittoria. Questo sistema nacque con il mito della governabilità ma
crollò puntualmente nel 1995 (Berlusconi per mano della Lega) e nel 1998
(Prodi per mano di Rifondazione) perché favoriva il formarsi di
coalizioni “ammucchiata” dove l'elettorato era costretto a votare per una
delle due più forti per non “sprecare” il voto. Il mito del voto utile
raggiunse con questo sistema il proprio culmine.
Poi
arrivò nel 2005 il ministro leghista Calderoli che s'inventò il
porcellum, un sistema proporzionale corretto da premi di maggioranza e
sbarramenti. La previsione, infatti, è di un premio di maggioranza del
54% alla colazione o partito vincente alla Camera senza nessun limite
percentuale minimo da superare (unico caso nella storia visto che anche
la legge Acerbo del 1923 voluta da Mussolini e la legge truffa del 1953
voluta dalla DC lo prevedevano) e un premio di maggioranza su base
regionale (pro Lega) per cui la coalizione che prende più voti in una
regione prende il 55% dei senatori previsti nel territorio. Naturalmente
tutto ciò con liste bloccate in modo tale da far spostare il potere dai
feudatari (i candidati territoriali) all'imperatore (i partiti) così da
poter candidare cani e porci paracadutati da Roma sui vari territori.
Anche in questo caso riemerge il mito del voto utile, specialmente al
senato dove lo sbarramento d'ingresso per i partiti (8%) e per le
coalizioni (20%) è altissimo e l'equilibrio è dettato dalle differenze
regionali e gli sbarramenti per i partiti si dimezzano in caso di
entrata in una coalizione che supera la soglia.
Questo
breve excursus storico serve solo per ricordare che in Italia sono
esattamente 20 anni e 6 tornate elettorali che viene evocato il voto
utile. Ma utile per chi? Sicuramente utile per il potere costituito che
con questi artifici tecnici tiene una vasta parte di elettorato legata a
un pilastro centrale di partiti che sono diretti interlocutori dei
poteri economici, religiosi e militari che vivono sopra il sistema
politico e lo dirigono a piacimento. Senza contare che il mito del voto
utile è pilotato anche dalla pericolosa macchina dei sondaggi che
suggerisce indirettamente su quali coalizioni indirizzare il proprio
voto.
A questo giro il voto utile sta
prendendo molte forme. Ho sentito invocare il voto utile da quelli,
illusi, che vogliono condizionare il Pd da sinistra votando Sel anche se
è già deciso che l'alleanza con Monti è cosa fatta per motivi sia
numerici che politici. Altri invocano il voto utile al Pd per dargli la
possibilità di governare finalmente senza condizionamenti anche se poi
alla fine l'agenda politica è quella di Monti. Ma il dilemma del voto
utile c'è anche per chi vuol votare “contro”. Succede che elettori che
vorrebbero votare l'unico partito con falce e martello (il PCL) sono
costretti a fare i propri calcoli. E nel mito del voto utile appare
anche il voto disgiunto per Rivoluzione Civile (alla Camera) e Movimento
5 Stelle al Senato (in Toscana supera l'8%) con la motivazione di non
lasciare i 2/3 del parlamento alle forze che possono fare riforme
costituzionali in senso liberista (vedi pareggio in bilancio).
Insomma,
in questo trionfo della tecnocrazia sulla democrazia vorremmo ricordare
a tutti che i 5 minuti ogni 5 anni in cui siamo chiamati al voto non
determinano i nostri rapporti di forza come invece può fare un impegno
politico diretto, quotidiano e autonomo dai poteri dell'inganno nei
restanti 364 giorni. Un serio concetto di rappresentanza e delega
presuppone che ciò derivi da un'esigenza di un movimento vasto che
quotidianamente mette in atto azioni, comportamenti e proposte e non da
una richiesta di legittimazione dall'alto verso i sudditi. A voi la
scelta di valutare se esiste una proposta in tal senso a queste
elezioni.
per Senza Soste, Franco Marino
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