di Domenico Moro
La pandemia ha messo a nudo e accentuato le fragilità delle basi economiche su cui si regge l’imperialismo americano, aumentando le basi materiali del conflitto che lo oppone alla Cina.
Recentemente, il presidente della Banca centrale Usa (Fed), Jerome Powell, ha dichiarato che lo stimolo monetario non basta, ci vuole un maxi stimolo fiscale.
In sostanza, non basta che la Fed tenga il costo del denaro a tassi d’interesse bassissimi e che inondi l’economia di liquidità, c’è bisogno che lo Stato aumenti le sue spese per sostenere l’economia in crisi, senza preoccuparsi di creare alti livelli di debito e deficit.
Powell si è espresso sulla falsariga di quanto affermato da Draghi, in riferimento alla Ue, e dal Fondo monetario internazionale (Fmi), secondo il quale una riduzione prematura della spesa pubblica dei governi può essere rischiosa per l’economia mondiale. Per la verità, gli Usa avevano già stanziato, per contrastare la crisi, una cifra ben superiore ai fondi stanziati dalla Ue, pari a 2.200 miliardi di dollari, con il Cares Act, che però è ora esaurito. Infatti, l’intervento di Powell si inserisce nel dibattito congressuale sull’entità del nuovo provvedimento di spesa, che vede i democratici proporre un nuovo stimolo di 2.200 miliardi, a cui i repubblicani hanno opposto una controproposta di 1.600 miliardi, che Trump ha a sua volta proposto di innalzare a 1.800 miliardi.
Gli Usa, però, devono fare i conti con una situazione del debito piuttosto grave, che può frenare la ripresa. Il debito pubblico è passato dal 108,7% del 2019 al 131% sul Pil previsto dall’Fmi per il 2020, mentre il deficit balzerà dal 6,3% al 18,7% sul Pil[1]. Ma a preoccupare di più è l’indebitamento totale degli Usa, comprendente non solo le autorità federali, ma anche le autorità locali e il settore privato (le imprese e le famiglie), che ha raggiunto la cifra monstre di 64mila miliardi di dollari, circa il triplo del Pil. Più in dettaglio, la metà del debito, circa 32mila miliardi, è composta da debito privato, di questo oltre 15mila miliardi sono debiti delle famiglie e 16mila sono debiti delle imprese non finanziarie[2]. È questo debito che grava sulla ripresa. Il rating del debito aziendale, infatti, è peggiorato a causa delle difficoltà delle imprese, anche le più solide, a coprire gli interessi sul debito. Le obbligazioni societarie con il rating BBB (qualità media: società sensibile alle condizioni avverse del mercato) sono il 40%, ma il 50% di queste sono in outlook negativo, cioè con il rischio di caduta nella categoria più bassa che comporta l’innalzamento del tasso d’interesse sul debito[3].
È ovvio che i dirigenti di queste aziende siano impegnati a difendere il loro rating, il che vuol dire impegnarsi a ridurre i costi invece che espandere le attività. In pratica, l’indebitamento porterà le imprese a ridimensionare i piani d’investimento e impedirà una forte ripresa economica generale. Nel frattempo le imprese che hanno dichiarato bancarotta hanno superato i livelli delle crisi precedenti del 2001 e del 2008.
Per quanto riguarda i debiti accumulati dalle famiglie, questi, uniti alla disoccupazione e ai licenziamenti permanenti in crescita, riducono la domanda interna, che vale due terzi del Pil. La famiglia tipo con redditi lordi annuali tra 52.625 dollari e 98.018 dollari, ha aumentato il suo debito in dodici anni, anche escludendo i mutui, del 33%, portandolo a 33.378 dollari[4]. Già prima della pandemia i mancati pagamenti nell’auto avevano raggiunto livelli da record e simili alla crisi del 2008. Secondo l’ufficio del censimento statunitense, un terzo delle famiglie non ha fondi o credito per far fronte alle spese correnti, più in dettaglio sono 15 milioni gli americani che sono in arretrato con l’affitto e 29 milioni quelli in preda a insicurezza alimentare[5]. La crisi sta, inoltre, aumentando le disparità sociali e la concentrazione della ricchezza della società in poche mani, come ha avvertito lo stesso Powell. Si pensi che le prime venti società tecnologiche pesano il 45% nella composizione dell’indice Standard & Poor’s[6] e che valgono il 15% del Pil mondiale[7]. Non c’era mai stata una tale concentrazione della ricchezza e di rischio nell’allocazione di portafoglio.
Insomma, la pandemia ha aggravato una situazione di indebitamento e di ricorso esagerato alla leva del debito, tipica del modello americano. Siamo dunque in una situazione in cui il settore pubblico deve aumentare l’indebitamento per permettere al settore privato, in particolare alle imprese, di ridurre il proprio. La logica degli interventi statali a sostegno delle imprese è mirata a diluire nel tempo le insolvenze, contrariamente a quanto accadeva in precedenza, quando il sistema Usa cercava di far emergere subito tutte le perdite al fine di ripartire al più presto. Questo oggi non è più possibile per le dimensioni veramente eccezionali delle perdite. Per questo l’impatto della crisi sarà diluito nel tempo e non si assisterà a una ripresa robusta e soprattutto immediata, ma al permanere di uno stato di crisi o di stagnazione ancora per molto tempo. Specialmente se verrà rimosso, anche solamente in parte, lo stimolo fiscale, si assisterà a nuove ricadute, perché ormai l’economia statunitense (e non solo) è diventata dipendente dallo stimolo fiscale.
Tutto questo dimostra la crisi strutturale in cui si trova il modo di produzione capitalistico a partire dal suo centro e ha un impatto anche a livello geopolitico, ed in particolare sul ruolo imperialista egemonico degli Usa e sul loro confronto competitivo con la Cina.
Per la prima volta nella loro storia gli Usa affrontano uno scontro geopolitico dal punto di vista economico in condizioni di debolezza, a differenza di quanto accaduto nei confronti della Germania e del Giappone negli anni ’40 e dell’Urss negli anni ’80.
Gli Usa hanno non solo un enorme debito pubblico e privato, come abbiamo visto, ma sono indebitati con l’estero, sia dal punto di vista dell’interscambio commerciale – con un deficit di oltre 924 miliardi (2019)[8] – sia dal punto di vista del debito pubblico. Gli Usa possono permettersi di finanziare il debito commerciale e il debito pubblico perché hanno il dollaro, che funge da valuta internazionale sia negli scambi di merci (soprattutto per le materie prime come il petrolio) sia come riserva delle banche centrali. Per questa ragione gli altri Paesi devono acquistare dollari per scambiare merci a livello internazionale o acquisire titoli di Stato Usa, sempre in dollari, come riserve da usare in caso di necessità. Il dollaro è “l’esorbitante privilegio”, come lo definì negli anni ’60 l’allora ministro delle finanze francesi, Giscard D’Estaing, che permette agli Usa di tenere in piedi una economia che va avanti a debito, grazie ai flussi di capitali esteri che è in grado di intercettare e grazie alla possibilità della Fed di stampare denaro per finanziare l’economia e lo Stato.
Ora, il problema è che la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da investitori esteri è in calo dal 2016 e che il debito che serve a finanziare la crescita degli Usa viene dall’esterno, in particolare dall’Asia. La Cina e il Giappone detengono il 40% delle riserve valutarie in dollari, ma già oggi il Giappone ha un interscambio commerciale maggiore con la Cina (20%) che con gli Usa (15%).
Quindi, se la Cina, o forse sarebbe meglio dire quando, comincerà a utilizzare la sua valuta, lo yuan renminbi, negli scambi con l’Asia, il dollaro subirà un inevitabile ridimensionamento nel paniere delle valute di riserva dei Paesi di quell’area a favore dello yuan. Quindi una parte importante dei flussi del mercato mondiale dei capitali, che ora sono investiti in dollari e vanno verso gli Usa, andranno verso la Cina. Per queste ragioni, secondo alcuni analisti, “è molto probabile che il lungo trend di leva finanziaria sempre più esasperata, che ha caratterizzato i cicli di crescita dell’economia Usa dal 1980 ad oggi, sia arrivato al suo apice”[9]
La dipendenza dal debito degli Usa è manifesta: solo negli ultimi cinque anni l’indebitamento degli Usa è cresciuto di quasi il triplo del resto del mondo occidentale, essendo aumentato del 14% l’anno mentre in Europa e in Giappone è aumentato del 5%. Ciò ha permesso agli Usa di crescere più degli altri Paesi occidentali, sebbene a costo di ripetute crisi finanziarie (2001, 2008, 2020).
Il modello di crescita a debito degli Usa ha, però, dimostrato tutta la sua vulnerabilità perché ad ogni crisi le perdite sono più ampie e gli interventi statali più consistenti.
L’aumento del debito e la necessità di sostenere la crescita portano a Quantitative easing, cioè a emissioni di liquidità da parte della Fed, sempre maggiori. Ma più la Fed stampa dollari, più il dollaro si deprezza e in questo modo, diventando meno stabile, risulta meno in grado di svolgere il suo ruolo di moneta internazionale, con il conseguente pericolo di perdere flussi finanziari dall’estero, specie a fronte del possibile sviluppo del ruolo di valuta internazionale di scambio dello yuan renminbi, come abbiamo detto.
In sintesi, la pandemia ha aggravato la situazione dell’economia Usa sia all’interno, portando a una maggiore polarizzazione sociale tra ricchi e poveri, sia all’esterno, aumentando le ragioni di conflitto e di tensione con la Cina. La tenuta del sistema di Bretton Wood, cioè del sistema di rapporti economici internazionali con al centro il dollaro come valuta mondiale, stabilito all’indomani della Seconda guerra mondiale, si fa problematica e aumenta la probabilità che si possa assistere a un riassetto, almeno parziale, degli equilibri globali.
Inoltre, bisognerà vedere se e come gli Usa riusciranno a mantenere il modello capitalistico che li ha caratterizzati negli ultimi 20 anni. I capitalisti nella fase imperialista – come diceva Lenin – si spartiscono il mondo in base alla loro forza, “ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc.”[10] Oggi, la spartizione del mondo avviene non con la spartizione territoriale (colonialismo) ma mediante spartizione dei flussi di capitale. Appare, perciò, abbastanza difficile che gli Usa possano rinunciare facilmente e di loro volontà al ruolo di Stato rentier mondiale. Lo stesso deprezzamento del dollaro è una tassa che gli Usa impongono ai loro finanziatori esteri, che si ritrovano con una diminuzione in termini reali dei crediti in dollari da loro detenuti. Inoltre, Jerome Powell ha dichiarato, sempre di recente, che il limite del 2% di inflazione non è più un obiettivo della Fed e che questa punterà a livelli d’inflazione superiori al 2% per compensare i periodi in cui è stata sotto il 2%. Del resto, l’aumento dell’inflazione è un modo utile a ridurre l’aumento del debito reale, specie in questa fase di crescita esponenziale dell’indebitamento pubblico. Se si dovesse verificare un aumento consistente dell’inflazione Usa, bisognerà vedere quale sarà la reazione sugli acquisti di nuovi titoli di stato in dollari da parte dei Paesi tradizionalmente detentori del debito pubblico Usa, come la Cina stessa.
Rimane, infine, il fatto che gli Usa sono la potenza militare di gran lunga maggiore a livello mondiale (anche rispetto alla Cina) e c’è la possibilità che, in caso di difficoltà, possano decidere di far valere questa “leva competitiva”, come accaduto nel passato, sempre nella forma di guerre per procura in Paesi terzi, con cui limitare la crescita d’influenza degli Stati e delle aree economiche concorrenti.
Note:
[1] Gianluca Di Donfrancesco, “Il monito dell’Fmi: un rischio lo stop prematuro della spesa”, Il sole 24 ore, 15 ottobre 2020.
[2] Marco Valsania, “Usa, l’indebitamento di famiglie e aziende rischio per la ripresa”, Il sole 24 ore, 13 ottobre 2020.
[3] Maurizio Novelli, “Trump o Biden poco cambia: il Covid ha travolto il modello economico degli Usa”, Milano Finanza, 7 ottobre 2020.
[4] Marco Valsania, op. cit.
[5] Marco Valsania, op. cit.
[6] L’indice Standard & Poor’s è un indice della borsa statunitense. È stato realizzato da Standard & Poor’s e segue l’andamento di un paniere azionario formato dalle prime 500 imprese statunitense per capitalizzazione (la capitalizzazione è data dal numero delle azioni moltiplicato per il loro valore di mercato).
[7] Maurizio Novelli, op. cit.
[8] Unctad, Data center, International trade in goods and services.
[9] Maurizio Novelli, “Trump o Biden poco cambia: il Covid ha travolto il modello economico degli Usa”, Milano Finanza, 7 ottobre 2020.
[10] Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 160-161.
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