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26/10/2020

Marx e la centralità del conflitto. Un libro di Gennaro Imbriano

di Vladimiro Giacché

Un libro può essere classificato in molti modi. Un modo è provare a rispondere alla domanda: questo libro mantiene ciò che promette? Il libro di cui vorrei parlare appartiene alla rara categoria dei libri che non soltanto mantengono ciò che promettono, ma offrono di più. Marx e il conflitto. Critica della politica e pensiero della rivoluzione (Derive/Approdi, 2020) di Gennaro Imbriano potrebbe essere in effetti una semplice disamina dei concetti di conflitto sociale, lotta di classe e rivoluzione nell’opera di Marx. Non sarebbe poco, in effetti. Ma questo libro – come già il sottotitolo lascia in parte presagire – è molto di più. Si tratta infatti di una ricostruzione complessiva dell’itinerario teorico e politico di Karl Marx – dagli scritti giovanili al Capitale e oltre – felicemente condensata in un libretto di 150 pagine, per di più scritto in un linguaggio rigoroso ma chiaro e accessibile.

In effetti, il tema del conflitto si presta molto bene a una sintesi del pensiero di Marx, come prova l’andamento stesso del libro di Imbriano, molto lineare e consequenziale. Nel testo si muove dal giovane Marx, che “imputa al pensiero critico (o presunto tale) del suo tempo, al dunque, l’incapacità di produrre, rispetto all’esistente che si pretende di criticare, un conflitto decisivo con le strutture che presiedono alla sua riproduzione” (p. 13). Alla base di questa incapacità, osserva opportunamente l’autore, non vi è un limite di carattere morale, ma un cruciale “difetto analitico: l’incapacità di cogliere che il mondo storico è di per sé segnato e pervaso dal conflitto materiale per la riproduzione della specie”, conflitto che si svolge in un contesto segnato dalla “divisione sociale del lavoro” e dalla “gerarchizzazione dei rapporti sociali”, nonché – aspetto fondamentale – dalla “lotta delle classi” (ibidem). Già in questa fase, osserva Imbriano, Marx rifiuta la strada di “edulcorare le contraddizioni nel teatro dello spirito”, come pure quella di “annacquarle nelle forme della mediazione politica”, e sceglie per contro di “interpretarle, strutturarle e incanalarle nelle forme di un conflitto organizzato” (p. 14). Un conflitto rivolto a mettere in discussione “l’odierna organizzazione dei meccanismi dì produzione”, imperniati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione (p. 22).

Entro questa trama, molto solida ed efficace anche da un punto di vista espositivo, Imbriano inserisce con maestria, e dando prova di un’eccellente conoscenza dei testi marxiani, l’itinerario intellettuale e politico di Marx. In primo luogo gli studi, gli anni berlinesi, la critica della centralità della politica – che caratterizza i giovani hegeliani – e la contrapposizione a essa della centralità della trasformazione sociale. A questo riguardo Imbriano osserva, a ragione, come “le rinnovate versioni novecentesche della teologia politica e dell’autonomia del politico” siano “il coerente rovesciamento politico della concezione materialistica della storia, anche quando esse si autorappresentano come interne o coerenti con la prospettiva di Marx” (p. 43).

In secondo luogo la critica della filosofia quale luogo del superamento della scissione, ossia quale strada maestra dell’emancipazione: “tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo – leggiamo nelle Tesi su Feuerbach di Marx – trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana e nella comprensione di questa prassi” (p. 58). Si tratta di una critica rivolta non soltanto alla speculazione idealistica, ma anche al materialismo di Feuerbach, che “non comprende l’importanza dell’attività ‘rivoluzionaria’, dell’attività pratico-critica” (p. 59). Anzi, l’idealismo hegeliano è per Marx in ultima analisi superiore al materialismo di Feuerbach, poiché “quantomeno ha concepito l’attività umana come prassi (anche se solo astrattamente, cioè come pensiero produttore e non ancora come lavoro)” (p. 62).

Il terzo passaggio è la critica del socialismo dell’epoca, quale emerge in particolare dal Manifesto del partito comunista (scritto assieme a Friedrich Engels) e dalla critica a Proudhon contenuta in particolare nella Miseria della filosofia; in quest’opera è espressa tra l’altro la convinzione che il conflitto sia il motore della storia, che “senza antagonismo non vi progresso” (p. 86). “Organizzare politicamente la rivoluzione sociale”: questo diventa l’obiettivo di Marx, il quale, osserva Imbriano, “dedicherà la sua vita a questo scopo” (p. 87).

Il quarto passaggio è la critica dell’economia politica. Tra i momenti essenziali di questa critica vi è la “priorità assegnata al momento della produzione su quello dello scambio” (p. 89). Marx inoltre ricostruisce la genesi storica del capitalismo, fa giustizia di tutte le ricostruzioni apologetiche dell’“accumulazione originaria” fondate sull’astinenza e la virtù dell’imprenditore, e individua nello sfruttamento della forza-lavoro, ossia nel fatto che “l’operaio produce un pluslavoro, ovvero un lavoro non pagato” (p. 100) eccedente la parte del lavoro prestato retribuita (necessaria al mantenimento in vita e in attività del lavoratore stesso), il meccanismo fondamentale di riproduzione del capitalismo.

Molto opportunamente Imbriano nel suo libro si sofferma sull’attività più strettamente politico-organizzativa di Marx, che si svolse – per quanto consentito dalle circostanze (Marx fu successivamente cacciato da Germania, Francia e Belgio, per approdare infine in Inghilterra) – in parallelo con l’attività teorica. È, questo, un aspetto ingiustamente – ma non casualmente – trascurato da molte odierne “riletture” e “recuperi” dell’opera di Marx che in realtà la scarnificano, riducendo il suo autore a un ‘geniale analista’ della società capitalistica. Quello che va perduto in queste riletture asettiche è proprio la centralità del conflitto nel pensiero di Marx; ma così facendo l’opera di Marx viene amputata di una sua componente essenziale.

Giustamente, quindi, Imbriano attribuisce grande importanza a scritti politici quali ad esempio l’Indirizzo inaugurale del 1864, scritto per la fondazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori (meglio nota come Prima Internazionale), testo in cui si afferma tra l’altro che “la conquista del potere politico è diventato il grande dovere della classe operaia” (cit. a p. 119). Anni dopo, con riferimento all’esperienza eroica e tragica della Comune di Parigi, Marx per un verso criticherà le rovinose indecisioni dei comunardi circa la conquista del potere, dall’altro affermerà che la presa del potere da parte della classe operaia non può consistere “nel trasferire da una mano all’altra la macchina militare e burocratica, ma nello spezzarla” (cit. a p. 126): in altre parole, secondo Marx la rivoluzione proletaria dovrà marcare una netta discontinuità non soltanto nella titolarità del potere politico, ma nella sua stessa configurazione. Nella successiva Critica al programma di Gotha la posizione di Marx conoscerà un’ulteriore evoluzione, e il rivoluzionario tedesco espliciterà in esso la previsione di un periodo di transizione e di dittatura rivoluzionaria al termine del quale lo Stato sarà destinato a perdere progressivamente la propria funzione e la propria stessa storica ragion d’essere. L’interpretazione che Imbriano offre di questo snodo delicato del pensiero marxiano è così sintetizzabile: la (ineliminabile) conquista del potere politico da parte della classe operaia è destinata a innescare un cambiamento sociale progressivo, che non può per definizione esaurirsi e ritenersi compiuto con la presa del potere. In tal modo, al termine del percorso teorico di Marx, torna a riproporsi quella centralità della trasformazione sociale rispetto all’emancipazione semplicemente politica dal quale il giovane Marx aveva preso le mosse.

Ho provato in queste righe a sintetizzare il contenuto di un libro che, a dispetto della sua brevità, è davvero molto ricco di contenuti dal punto di vista dell’esegesi del discorso marxiano, e tutt’altro che privo di spunti di riflessione per l’oggi.

A questo ultimo riguardo meritano di essere menzionati in particolare due passi del testo di Imbriano. Il primo si trova al termine del capitolo introduttivo dell’opera (non per caso intitolato “La differenza marxiana”): ciò che il pensiero di Marx tuttora ci insegna – afferma l’autore in queste pagine – “è la possibilità di non arrendersi all’idea che le uniche prospettive alle quali il pensiero critico debba consegnarsi oggi siano quelle che tutto mettono in discussione fuorché l’essenziale: l’odierna organizzazione dei meccanismi della produzione” (p. 22). Questo tema ritorna più oltre nel libro, e viene maggiormente specificato in un secondo passo, che merita di essere qui riproposto per intero: “se l’opposizione al dominio del capitale diventa mera politica della cittadinanza (inconsapevole della centralità della sfera sociale), lotta redistributiva (affascinata dall’idea che il momento dello scambio sia costituente e che produttive siano le sue figure sociali di riferimento), battaglia culturale per l’affermazione delle idee che si atteggia in superiore distacco dalla massa (presunta) inconsapevole, pratica del dialogo tra interessi inconciliabili (che elimina l’organizzazione del conflitto dal suo orizzonte), esso si pone definitivamente al di fuori del riferimento marxiano, e dunque si rende incapace di diventare vera alternativa” (p. 70).

In queste righe non soltanto viene rivendicata la centralità della prassi nel discorso teorico di Marx, ma è ribadita anche la centralità del conflitto capitale-lavoro per ogni prassi che intenda davvero costruire un’alternativa all’esistente. Questo non esclude la legittimità e l’importanza di altre forme e obiettivi del conflitto, ma fissa, più ancora che una gerarchia tra obiettivi, l’obiettivo del rivoluzionamento dei meccanismi di produzione quale conditio sine qua non di una vera trasformazione: quale obiettivo, cioè, in assenza del quale ogni prassi trasformatrice sarà nel migliore dei casi inane, nel peggiore un’operazione cosmetica e gattopardesca funzionale al mantenimento degli attuali assetti di potere, incentrati sul potere economico esercitato attraverso la proprietà privata (sempre più concentrata) dei mezzi di produzione.

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