La situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità,
mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà
nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno
riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano
opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati,
mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua
stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che
le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad
ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla
luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di
questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua
implementazione.
Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi,
il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui
360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da
spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si
annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da
un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto
inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si
qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo
europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo
carico di austerità e riforme. Come se ciò non bastasse, e in barba
all’impietoso incalzare della crisi economica e sociale, la sua
attivazione sta diventando sempre meno certa, essendo stata
progressivamente rimandata e, probabilmente, destinata a slittare all’estate 2021.
È in questo quadro, dunque, che vanno
inserite e valutate sia le posizioni di Spagna e Portogallo, anche alla
luce dell’interpretazione che ne viene data da media e commentatori, sia
cosa questo programma significherebbe per l’Italia e la sua politica
economica.
Come detto, i prestiti del Recovery Fund ammontano
a 360 miliardi, di cui più di un terzo destinati all’Italia (127
miliardi). Come la posizione di Spagna e Portogallo dimostra, essi sono
considerati la parte meno interessante del programma poiché, al pari di
una qualsiasi nuova emissione di titoli di Stato, concorrono ad
aumentare il debito pubblico. Date le regole europee sull’equilibrio dei
conti pubblici, ciò erode i già risicati spazi per le politiche
economiche espansive e quindi non è particolarmente attraente per gli
Stati, soprattutto fino a che la BCE dovesse continuare ad attuare una
politica monetaria accomodante e favorire un basso livello dei tassi di
interesse sul nuovo debito pubblico, anche per i paesi periferici. È
comprensibile, in questo senso, la posizione dei paesi iberici.
Più scivolosa e meno evidente, e per
questo merita un approfondimento, è la questione dell’altro pilastro del
programma: i famigerati contributi a fondo perduto. Si
tratta di 390 miliardi, di cui circa 80 spetterebbero all’Italia.
Tuttavia, la loro erogazione non è così scontata e, anche nel migliore
dei casi, come chiaramente sottolineato dalla presidente della
commissione Europea, avverrebbe passo dopo passo.
L’iter infatti è particolarmente complesso e seguirebbe le articolate e
frammentate regole dell’Unione che caratterizzano i processi di spesa.
Tant’è che, come affermato dal ministro agli affari europei Vincenzo
Amendola, dalla presentazione formale del piano «potrebbero passare mesi per l’approvazione che poi darà la possibilità di accedere subito (solo) al 10% del finanziamento globale».
Nulla che abbia a che vedere con l’urgenza e la mole di risorse che
servirebbero agli Stati per arginare la situazione drammatica che
milioni di lavoratori e famiglie stanno vivendo.
Il quadro, insomma, è ben più fosco di
quello che sembra ed è per questo che ci pare doveroso ridimensionare
i facili entusiasmi. Se è vero che i contributi cui l’Italia ha
diritto dovranno essere restituiti solo in parte (nell’ordine di 50
miliardi su un totale di 80) e, in maniera diluita, a partire dal 2028
fino al 2058, anche se considerassimo i contributi lordi – ossia senza
considerare la restituzione – stiamo parlando di una cifra
corrispondente a circa il 4,5% del Pil nazionale spalmata in tre anni,
che si riduce dunque a uno stimolo addizionale corrispondente all’1,5%
del Pil su base annua, ipotizzando di distribuire la spesa in modo
omogeneo. Per darvi un’idea delle proporzioni in campo, per contenere
gli effetti della pandemia il Governo ha stanziato 100 miliardi di euro
di deficit aggiuntivo (5,5% del Pil) solo per il 2020 e gli effetti sono
stati comunque modesti, a fronte di una crisi senza precedenti.
Prendendo invece in considerazione i
contributi netti, che rappresentano una misura più adeguata dello
stimolo messo in campo, stiamo parlando di misure corrispondenti a meno
del 2% del Pil, secondo i calcoli della stessa BCE:
pochissima roba. Non a caso anche il governo italiano ha certificato lo
scarso impatto che possiamo attenderci dall’utilizzo di tali fondi nel
triennio 2021-2023: secondo la NADEF i
fondi europei del Recovery Fund avranno un impatto sul Pil dello 0,3%
nel 2021, dello 0,4% e dello 0,8% negli anni successivi. Briciole.
Con le terapie intensive che si
riempiono e le attività economiche che rischiano di chiudere i battenti
definitivamente, in particolare se dovesse presentarsi l’esigenza
sanitaria di un nuovo lockdown, le lungaggini dei negoziati tra il
Parlamento europeo e il Consiglio UE e i meccanismi di controllo dei
piani di investimento nazionali assumono caratteristiche grottesche.
Altro che rinascita europea.
Inoltre, l’entità delle risorse e le
diatribe burocratiche rappresentano soltanto una parte degli aspetti più
tetri del programma. Per quanto ci si affanni a parlare di contributi a
fondo perduto, infatti, essi non sono affatto privi di condizionalità.
Tanti in questi giorni hanno ipotizzato che una delle ragioni per cui i
governi nazionali guardano con maggiore interesse ai contributi sia una
minore condizionalità rispetto ai prestiti. In realtà, questa
interpretazione ci pare priva di fondamento. Come abbiamo già evidenziato,
il Recovery Fund rappresenta la sistematizzazione definitiva della
condizionalità su base europea. A dimostrarlo sono le parole della
Presidentessa della Commissione Europea che ha apertamente ammesso che,
con il Recovery Fund, le raccomandazioni della Commissione contenute nel
cosiddetto Semestre Europeo diventano cogenti. La sua dichiarazione, in questo senso, è illuminante: “Il Recovery and Resilience Facility è
stabilito in una maniera molto chiara: è volontario, ma chi vi accede
deve allinearsi con il Semestre europeo e le raccomandazioni ai Paesi...
finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno ma ora le
raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti”.
Ricorrendo al Recovery Fund, dunque,
l’esborso dei fondi sarà vincolato alla fedele applicazione di tali
raccomandazioni, oltre al raggiungimento di obiettivi intermedi in
relazione all’implementazione dei singoli progetti presentati. In questo
senso, ci vengono in aiuto le dichiarazioni di influenti economisti
liberisti che, a differenza di diverse anime belle apparentemente
progressiste, hanno ben chiaro il ruolo degli aiuti che arriverebbero
dall’UE. Lucrezia Reichlin, ad esempio, con apprezzabile candore
sottolinea dalle pagine del Corriere,
non solo che il rubinetto della BCE non è incondizionato, che gli
interventi della BCE non sono gratis e che anche i sussidi non sono
gratis e andranno finanziati con tasse europee, ma soprattutto
che la condizione per accedere a queste misure è la pedissequa e cieca
condivisione del progetto politico europeo. Senza ciò, a venire meno
sarebbe lo stesso sostegno della BCE che in questi mesi sta favorendo il
contenimento dei tassi di interesse sui titoli pubblici.
A ben vedere, dunque, il governo
italiano ha colto il punto e ci si è impegnato con solerzia. Esso,
infatti, sembra avvantaggiarsi ancor prima del tempo, iniziando a
discutere di una stretta del sistema pensionistico in parallelo alla scadenza di Quota 100 e di una possibile revisione del Reddito di Cittadinanza.
Come abbiamo più volte evidenziato, la revisione della spesa pubblica e
la riforma della tassazione, così come la riduzione della spesa
pensionistica, sono in cima alle raccomandazioni della Commissione
all’Italia, come riconosciuto nel Piano Nazionale di Riforma 2020.
In altre parole, il Recovery Fund configura un vero e proprio
meccanismo disciplinante ancor prima di esistere in forma compiuta,
avendo già iniziato a impartire austerità in tutti quei paesi che
contano di farvi ricorso: un vero disastro per tutti coloro che sono
schiacciati tra disoccupazione e precarietà.
In questa drammatica fase dunque, gli
effetti di decenni di integrazione europea e le lame spuntate della
politica economica nazionale che ne conseguono, con gli Stati privi di
una banca centrale politicamente orientabile e limitati nell’azione dai
reazionari vincoli di spesa europei, si fanno sentire con tutta la loro
gravità, anche quando celata dietro proclami o azioni benefiche
straordinarie. Il cappio, tuttavia, è pronto a stringersi e le
condizioni per l’asfissia sono scritte nere su bianco. Per questo è
importante essere preparati sull’oggi: per essere pronti a reagire
domani.
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