Le cronache russofobe alimentate dagli Stati Uniti e da quasi tutto l’Occidente si arricchiscono ormai praticamente ogni giorno di nuovi fronti d’attacco per screditare agli occhi del mondo un paese indicato come responsabile dei crimini più orrendi e delle provocazioni più ciniche, anche quando queste ultime sembrano non avere alcuna motivazione apparente. L’ultimo episodio di questa saga è andato in scena a inizio settimana, quando Washington, in collaborazione con Londra, ha fatto sapere di avere scovato e incriminato sei membri dell’intelligence militare russa, accusati di alcuni degli attacchi informatici presumibilmente più distruttivi degli ultimi anni.
L’attendibilità di tutte le accuse sollevate dal dipartimento di Giustizia americano si basa come sempre sulle sole affermazioni degli esponenti del governo USA, mentre mancano, anche in questo caso come sempre, prove convincenti e definitive. Ciò che colpisce del caso è la vastità e l’importanza degli obiettivi, tanto da far dubitare l’osservatore meno distratto dell’efficacia e della razionalità dei metodi russi.
L’hackeraggio di eventi come le elezioni presidenziali francesi del 2017 o i giochi olimpici invernali del 2018 in Corea del Sud, ma anche di istituzioni come il parlamento di Kiev o la rete elettrica ucraina, il cui attacco provocò gravi danni anche in Europa e negli Stati Uniti, non sembra infatti una strategia particolarmente vantaggiosa per un paese, come la Russia, già al centro di pesanti pressioni internazionali e di una feroce campagna di discredito.
L’obiettivo dei promotori dell’offensiva contro il Cremlino non è tuttavia quello di offrire accuse razionali e documentate, bensì di accumulare denunce e insinuazioni sul comportamento di Putin e della sua cerchia di potere, in modo da creare un clima tossico nei rapporti con la Russia e convincere l’opinione pubblica occidentale dell’inaffidabilità e della malvagità gratuita di un governo che appare poco meno dell’incarnazione del male assoluto.
In questa prospettiva, la Russia è tutto fuorché un attore che opera in maniera logica e coerente con i propri interessi, tantomeno nel rispetto del diritto e delle normali relazioni diplomatiche. Questo ritratto, a ben vedere, non ha alcun senso né fondamento nella realtà dei fatti e contribuisce da solo a screditare il castello di accuse come quelle annunciate lunedì alla stampa dal dipartimento di Giustizia americano.
In un articolo del New York Times sull’argomento e che sembra più un pezzo di propaganda che di giornalismo, emerge a un certo punto questa tattica russofoba. Il numero uno di una compagnia americana operante nel settore della sicurezza informatica spiega a proposito delle incriminazioni dei sei militari russi come l’hackeraggio delle Olimpiadi del 2018 abbia a suo dire rappresentato una semplice “vendetta”, presumibilmente contro le sanzioni ai danni degli atleti russi dovute allo scandalo doping, e come per questa azione “non ci siano evidenti ragioni di natura geopolitica”.
Significativo è poi il modo con cui i media americani hanno trattato l’attacco informatico del dicembre 2015 contro le compagnie che gestiscono la rete elettrica in Ucraina. Questo evento viene ricordato assieme ai pesanti disagi che provocò per oltre 200 mila utenti nelle regioni occidentali del paese dell’ex URSS ed è stato accostato a quello del 2009 che interessò l’Iran.
Quest’ultimo atto di sabotaggio fu condotto da Stati Uniti e Israele attraverso un “malware” conosciuto col nome di “Stuxnet”. L’attacco causò danni molto pesanti alle infrastrutture della Repubblica Islamica e, più precisamente, alle centrifughe utilizzate per l’arricchimento dell’uranio, utilizzato a scopi civili. Malgrado le responsabilità di quello che fu a tutti gli effetti un atto criminale sarebbero state in seguito provate, nessun giornale ufficiale in Occidente ne ha mai messo in discussione la legittimità e oggi viene affiancato alle presunte operazioni russe, dimostrando la disparità nel trattamento mediatico di eventi simili se attribuiti agli USA o a potenze rivali.
Il nuovo capitolo del processo di demonizzazione della Russia è stato chiaramente studiato per coincidere con l’immediata vigilia elettorale negli Stati Uniti, anche se non è così scontato individuare gli ambienti che hanno orchestrato l’operazione o chi ne potrà teoricamente beneficiare. È possibile che l’incriminazione dei sei cittadini russi sia un altro modo per ricordare agli elettori americani la pericolosità dei tentativi di perseguire una certa distensione con Mosca, come avrebbe fatto finora – almeno nelle intenzioni – il presidente Trump.
D’altro canto, la stessa Casa Bianca potrebbe aver voluto mandare un segnale al “deep state”, notoriamente contrario al disgelo con il Cremlino, per rassicurare sugli orientamenti anti-russi di un eventuale secondo mandato di Trump. Ad ogni modo, è stata evidente l’insistenza sul collegamento tra gli attacchi informatici oggetto del caso presentato lunedì e le mai dimostrate “interferenze” russe nelle presidenziali del 2016.
È interessante notare a questo proposito come la gran parte della stampa americana abbia proposto in questi giorni una ricostruzione dei fatti del 2016 che dà per accertata la responsabilità della Russia nella violazione dei server del Partito Democratico, a cui seguì la pubblicazione di e-mail riservate con informazioni altamente dannose per Hillary Clinton. In realtà, indagini indipendenti hanno messo in serissimo dubbio questa versione e, anzi, gli elementi noti indicano che si trattò probabilmente di una fuga di notizie dall’interno piuttosto che di un hackeraggio.
Il dipartimento di Giustizia USA ha comunque tenuto a spiegare che a condurre le operazioni di pirateria informatica esposte lunedì sarebbe stata una sezione della GRU, ovvero il servizio segreto militare russo, nota come “Unità 74455”, ovviamente responsabile anche del furto di e-mail del Partito Democratico americano nel 2016. Questo collegamento è servito inoltre ad alimentare il clima di isteria attorno al voto del prossimo 3 novembre, sul quale graverebbe appunto ancora una volta la minaccia del sabotaggio di Putin.
Che i servizi di sicurezza russi operino nel “cyber-spazio”, infiltrando le reti informatiche di entità e governi rivali, è del tutto probabile per non dire certo. Tuttavia, simili attività accomunano praticamente tutti i paesi e gli Stati Uniti sono di gran lunga i più aggressivi in questo ambito. Basti pensare ai programmi di sorveglianza e di intrusione rivelati anni fa da Edward Snowden, riguardanti anche i principali alleati di Washington.
L’arma delle accuse di condurre operazioni di sabotaggio informatico viene dunque usata puntualmente e con clamore dagli USA contro quei governi che non intendono allinearsi o che minacciano i loro interessi strategici. Non a caso, infatti, in qualsiasi comunicazione ufficiale delle autorità americane sulla guerra informatica globale, i paesi che vengono indicati come la minaccia più seria per la comunità internazionale includono invariabilmente, oltre alla Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord.
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