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27/10/2020

La Cina pensa che gli USA siano al capolinea

Il conflitto tra USA e Cina ha assunto la forma di un guerra fredda di nuovo tipo.

Le cose cambieranno poco se, in un ipotetico passaggio di poteri a Washington – che non si annuncia per niente lineare e forse nemmeno pacifico – sarà Joe Biden a vincere le elezioni.

Certo, lo sfidante democratico vuole ripristinare la leadership nord-americana all’interno di una cornice multilaterale abbandonata durante questi anni dall’attuale inquilino della Casa Bianca, costringendo gli Stati Uniti a trovare una forma di confronto non antagonista su alcuni dossier: dall’Accordo di Parigi sul Clima in cui vuole rientrare all’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui vuole fermare il processo di uscita, oltre ad essere nuovamente parte dell’UNESCO.

Biden è una atlantista convinto ed intende rafforzare il ruolo della NATO, così come la cooperazione con la UE che saranno probabilmente gli assi della sua politica di pressione sulla Cina.

Biden ha affermato di voler ricongiungersi all’accordo sul nucleare iraniano ed in generale “rivedere e potenzialmente riformulare l’intero approccio ai Paesi del Golfo”, come ha dichiarato un consulente dell’amministrazione Obama al «Financial Times».

Dalla sua prima visita all’estero da Presidente in Arabia Saudita e Israele nel maggio del 2017, Donald Trump ha consolidato un legame sempre più stretto con la petromonarchia araba e con l’entità sionista: dall’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano firmato da Obama nel 2015 alla spinta per la “normalizzazione” dei rapporti con Israele da parte di alcuni Stati Arabi (EAU, Barhain e probabilmente Sudan), per non parlare della vendita di ingenti quantitativi di armi usati nella guerra in Yemen.

Sia detto per inciso: Biden vuole mantenere l’ambasciata statunitense a Gerusalemme – dove l’ha collocata Trump – e implementare la politica di normalizzazione tra Stati Arabi ed Israele iniziata da Trump, di fatto continuandone la politica anti-palestinese.

“American First has made America Alone”, ha sostenuto Biden in un meeting in campagna elettorale, con un giudizio molto azzeccato sull’attuale solitudine statunitense.

Ma il ritorno allo status quo ante Trump appare di difficile applicazione: le lancette della Storia non tornano certamente indietro. Di solito, si dice, è impossibile far rientrare il dentifricio nel tubetto; specie dopo quattro anni e una pandemia di cui non si vede ancora la fine.

In realtà, come è stato evidenziato anche dall’ultimo “testa a testa” televisivo tra i due contendenti, la politica estera non è stata al centro della campagna – a parte le sparate anticinesi di Trump, fatte per distrarre l’opinione pubblica dalla sua disastrosa amministrazione durante quest’ultimo anno – ma è la pandemia che ha occupato il centro della scena.

Proprio alcuni battleground states del Mid-West, in cui si giocano in buona parte le sorti di queste elezioni – come di quelle precedenti – questo venerdì hanno registrato un record nel picco di contagi: 83.010 nuovi casi secondo il Tracking Projets e 925 decessi. 441.541 nuovi casi in una settimana, con più di 40 mila persone ricoverate in ospedale per il Covid-19... non proprio un bel biglietto da visita per il ripristino della leadership nord-americana nella lotta ai contagi!

L’Ohio, ha registrato la sua terza performance negativa in tre giorni, mentre il Pennsylvania – un altro “Swing State” – ha segnato il suo record sempre venerdì, ed il Wisconsin il sue secondo salto consecutivo di contagi in due giorni.

Certo Biden ha un curriculum che lo qualifica – non in senso positivo – sui temi di politica internazionale, considerato il suo ruolo di vicepresidente durante l’amministrazione Obama e l’incarico rivestito nella Commissione per le Relazioni Internazionali al Senato.

Abbiamo tradotto l’ultimo intervento su «Foreign Affairs» di Julian Gewirtz, influente opinionista che lavora per differenti testate, esperto di Cina con studi ad Harvard ed Oxford, e membro del Council on Foreign Relations, che ha servito nell’amministrazione Obama.

“Washington ha bisogno di un piano strategico per la Cina”, afferma Julian Gewirtz, articolandolo per sommi capi in questo contributo, quasi una sintesi programmatica per il possibile neo-inquilino della Casa Bianca.

L’articolo illustra come la politica della Repubblica Popolare verso gli Stati Uniti parta dalla constatazione dell’inesorabile declino degli USA.

“All’inizio di quest’anno, in un editoriale del quotidiano Ta-Kung-Pao si sosteneva che gli Stati Uniti “stanno passando dal ‘declino’ al ‘precipizio’” si afferma nel testo.

Un giudizio quasi profetico, con il senno di poi.

Gli Stati Uniti dovrebbero secondo l’autore “ribaltare” questa percezione, cosa che per noi sta più nel campo del wishfull thinking che nelle concrete possibilità dei dirigenti statunitensi.

Questa “rinascita” statunitense non comporterebbe la dismissione di un approccio “competitivo”, ma almeno la non riproposizione di una relazione antagonista tout court.

Tralasciamo le molte stigmatizzazioni negative presenti nell’analisi, per certi versi imbarazzanti nella penna di un intellettuale organico alle élites statunitensi “esperto” di Cina: “svolta autoritaria”, “identità illiberale”, “un’aspra repressione in patria” et simili. L’ideologia, nonché il bisogno di restare in sintonia con un pubblico “drogato” di pregiudizi anticinese, è pur sempre quella della “superiorità statunitense”...

Un giudizio ci sembra comunque particolarmente azzeccato rispetto alla Cina: “quello in corso non è tanto un processo di de-globalizzazione, quanto piuttosto di de-americanizzazione”.

La Cina, insomma, sembra oggi poter fare a meno degli Stati Uniti e riconfigurare perciò le relazioni internazionali.

Stando comunque a ciò che leggiamo in queste righe, anche l’élite intellettuale statunitense non percepisce – o almeno non la esterna – la profondità del precipizio in cui sono caduti gli Stati Uniti e dunque la correttezza del giudizio della loro contro-parte cinese quando parla di “declino”.

Noi avremmo detto semplicemente che gli USA in prospettiva sono uno Stato Fallito. E pensiamo che questa visione della Cina dal punto di osservazione yankee sia utile anche per quei compagni che di solito attingono a Repubblica o nel migliore dei casi a Limes per farsi un’idea della Cina.

Buona Lettura

*****

Le conseguenze del mandato presidenziale di Donald Trump daranno da discutere per i decenni a venire, ma la leadership cinese ha già una visione molto chiara a riguardo. I governanti cinesi ritengono che gli ultimi quattro anni abbiano dimostrato che il potere egemonico degli Stati Uniti si sta rapidamente indebolendo e che ciò abbia indotto Washington a tentare spasmodicamente di ostacolare l’ascesa della Cina.

La guerra commerciale di Trump, i ban tecnologici e l’ostinazione con cui la Cina viene criticata per la gestione della pandemia di Covid-19, hanno confermato nelle élite politiche cinesi la sensazione che gli Stati Uniti siano intenzionati a minare la credibilità internazionale del loro Paese.

L’idea che gli Stati Uniti cerchino di ostacolare e contenere la Cina è in realtà diffusa tra i funzionari cinesi da molto prima che Trump salisse al potere. Quello che molti americani vedono come effetti dirompenti attribuibili solo alla gestione Trump sono, per gli attuali governanti cinesi, una conferma lampante delle loro valutazioni circa la politica statunitense.

Trump ha però accelerato i tempi, trasformando quello che era percepito come un rischio a lungo termine in una crisi immediata, che richiede la mobilitazione urgente del sistema politico cinese. L’amministrazione Trump ha cercato di indebolire la presa del Partito Comunista Cinese (PCC) sulla società, di forzare la liberalizzazione di un sistema economico dominato dallo Stato e bloccare la corsa della Cina alla supremazia tecnologica.

A quasi quattro anni dall’inizio di questa guerra finanziaria, tuttavia, le politiche di Trump sembrano aver prodotto il risultato opposto.

Washington ha bisogno di un piano strategico per la Cina che non solo valuti le capacità economiche e gli obiettivi cinesi, ma tenga anche conto del modo in cui i leader cinesi percepiscono gli Stati Uniti e la stessa presidenza Trump. Va anche fermamente contrastata l’idea del tutto irrealistica che la Cina sia una sorta di Leviatano che avanza in modo inesorabile, rimanendo impermeabile alle pressioni e agli incentivi esterni.

Gli Stati Uniti hanno gli strumenti per elaborare un piano davvero funzionale che scoraggi in modo efficace i comportamenti più problematici della Cina. Ma per farlo Washington deve sforzarsi di far cambiare idea ai leader cinesi circa l’imminente declino degli Stati Uniti.

“IL LUPO È ARRIVATO”

Mao Zedong era solito annunciare il declino venturo del mondo capitalista guidato dagli Stati Uniti paragonandolo a “una persona morente che velocemente affonda”. Attaccava regolarmente i tentativi occidentali di sovvertire la rivoluzione comunista cinese, denunciando “i reazionari che cercavano di trattenere la ruota della storia”. Le sue idee gli sopravvissero, anche quando il PCC abbracciò le riforme di mercato e gli Stati Uniti emersero come unica superpotenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

La crisi finanziaria del 2008, che ha lasciato la Cina relativamente indenne, ha quindi indotto i leader del paese a chiedersi se il rovinoso declino del capitalismo che Mao aveva previsto fosse effettivamente arrivato. E grazie alla loro visione marxista delle forze storiche, l’ascesa di leader americani “reazionari”, che avrebbero tentato invano di tenere a freno la Cina, non ha rappresentato per loro la minima sorpresa.

Su questi stessi pilastri si fonda la visione politica dell’attuale presidente cinese Xi Jinping. Quando è salito al potere nel 2012 ha parlato di modelli storici di conflitto tra potenze egemoniche in ascesa e in declino, ha messo in guardia sul ruolo degli Stati Uniti nel crollo dell’Unione Sovietica e ha promosso figure come Wang Huning, ex professore di diritto e consigliere del governo di lunga data, il cui libro più conosciuto, America Against America, ha evidenziato quanto gli Stati Uniti siano stati inferiori ai propri ideali.

Xi e i suoi luogotenenti sono stati inizialmente più concentrati sull’affrontare la fragilità politica e ideologica del sistema che avevano ereditato. L’aspettativa era che il declino degli Stati Uniti sarebbe stato graduale.

Molti membri dell’élite cinese ritengono che la presidenza Trump abbia spinto quel lento processo in una nuova fase di deterioramento acuto e irreversibile. Hanno assistito al ritiro del presidente americano dagli accordi e dalle istituzioni internazionali e al suo disprezzo per le alleanze tradizionali. Hanno osservato come le politiche interne degli Stati Uniti stessero esacerbando la disuguaglianza sociale, tenendo fuori gli immigrati e tagliando i fondi federali per la ricerca e lo sviluppo.

Wu Xinbo, decano dell’Istituto di studi internazionali della Fudan University, ha scritto nel 2018 che le “politiche imprudenti dell’amministrazione Trump stavano accelerando e intensificando il declino degli Stati Uniti, indebolendone lo status internazionale.”

All’inizio di quest’anno, in un editoriale del quotidiano Ta-Kung-Pao si sosteneva che gli Stati Uniti “stanno passando dal ‘declino’ al ‘precipizio’”. Questa convinzione è oggi una premessa centrale dell’evoluzione della strategia della Cina verso gli Stati Uniti.

I leader del PCC collegano il rapido declino americano agli sforzi economici e politici degli Stati Uniti per contenere la Cina. Nel 2018, Trump ha imposto tariffe sui beni cinesi per decine di miliardi di dollari e ha promulgato divieti e sanzioni verso le società di telecomunicazioni cinesi Huawei e ZTE.

Sebbene Trump alla fine abbia annullato la sua decisione in favore di Xi, la minaccia per la società ZTE, che fa affidamento al mercato americano per circa un quarto dei componenti delle sue apparecchiature, era reale. Gli analisti hanno descritto misure più recenti contro Huawei come una “condanna a morte“.

La retorica dei consiglieri di Trump del passato e del presente, come Peter Navarro (i cui libri includono The Coming China Wars e Death by China) e Steve Bannon, sobilla in realtà i sentimenti più oscuri e cospiratori della leadership cinese.

Un editoriale dello scorso luglio sul quotidiano cinese Global Times ha dichiarato: “La Cina deve accettare il fatto che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei suoi confronti è radicalmente cambiato”. Fu Ying, un alto diplomatico, ha dichiarato a giugno che l’obiettivo degli Stati Uniti per la Cina è chiaramente di “rallentarla attraverso la repressione economica”, una battaglia che una superpotenza in declino “non può permettersi di perdere”.

Il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian, ha dichiarato ad agosto che gli Stati Uniti sono “ben lontani dall’essere la grande potenza che erano”, con i suoi leader decisi a “sopprimere la Cina perché ne temono la concorrenza”.

Queste idee sono notevolmente diffuse nelle dichiarazioni di funzionari ed esperti cinesi, nelle pagine delle riviste e dei giornali del PCC e nei social media cinesi.

I leader cinesi sapevano che questo confronto un giorno sarebbe arrivato, ma è successo molto più velocemente di quanto si aspettassero. “Sia negli Stati Uniti che in Cina si è gridato a lungo ‘Al lupo! Al lupo!’, ma il lupo non è mai arrivato”, riferisce al New York Times Shi Yinhong, uno dei principali studiosi di relazioni internazionali. “Questa volta, invece, il lupo sta arrivando davvero”.

“QUESTIONE DI PUNTI DI VISTA”

Non dovrebbe sorprendere quindi che la Cina abbia nel tempo risposto a questi attacchi in modi che hanno portato a ulteriori conflitti tra i già divergenti sistemi statunitense e cinese. L’ascesa di Xi e la svolta autoritaria da lui impressa alla Cina hanno allarmato i governi di tutto il mondo.

Nel 2018, ad esempio, Xi ha rimosso i limiti di mandato del suo incarico. Sotto la sua guida il PCC ha abbracciato più apertamente la sua identità illiberale, accostando alle forti critiche verso le democrazie all’estero un’aspra repressione in patria, specificatamente nello Xinjiang, dove i campi di internamento ospitano più di un milione di Uighuri e membri di altri gruppi etnici minoritari.

Nonostante l’appello del Segretario di Stato americano Mike Pompeo a “coinvolgere e responsabilizzare il popolo cinese contro il PCC” (appello interpretato in Cina come un tentativo di rovesciare di regime), la presa del partito sulla società rimane forte e le misure messe in campo dal governo cinese per contrastare la pandemia hanno ulteriormente rafforzato i sistemi di sorveglianza e controllo sociale di Pechino.

In risposta ai tentativi americani di spingere il paese verso la liberalizzazione industriale, i governanti cinesi hanno raddoppiato la loro dipendenza dal settore statale per far fronte all’instabilità derivante proprio dal conflitto con gli Stati Uniti. Sin dai primi anni del mandato di Xi, le imprese statali hanno beneficiato di politiche governative sempre più favorevoli e di prestiti bancari preferenziali, spesso a scapito delle imprese private.

Un economista con forti legami con il PCC ha riferito che lui e molti dei suoi colleghi inizialmente credevano che la guerra commerciale di Trump fosse una spinta positiva, che avrebbe invertito questa tendenza e portato a una riforma del mercato. La guerra commerciale ha avuto tuttavia l’effetto opposto: Xi ha raddoppiato la costruzione di imprese statali “più forti, migliori e più grandi” e ha respinto con decisione la liberalizzazione economica che i funzionari di tutto il mondo hanno cercato a lungo di promuovere in Cina.

Nei negoziati commerciali che hanno raggiunto il delicato accordo “Fase 1” nel gennaio di quest’anno, Pechino ha preferito accettare di impegnarsi ad acquistare beni statunitensi piuttosto che operare significative riforme interne. I media statali cinesi hanno persino promosso il rafforzamento del modello economico statalista come una delle maggiori priorità della Cina.

In effetti, la pandemia ha reso evidenti a molti i vantaggi di questo modello, con la Xinhua News Agency che ha annunciato che le imprese statali “sono state la prima risorsa nel rispondere alla pandemia”.

Ben lontane dall’ostacolare la corsa della Cina alla supremazia tecnologica, le azioni di Trump hanno incoraggiato invece i suoi leader ad accelerare il processo di raggiungimento dell’indipendenza economica dagli Stati Uniti.

Per molti anni la Cina ha cercato di trovare un equilibrio tra i benefici dell’interdipendenza e i rischi che comporta essere la parte debole nei negoziati con il paese più potente del mondo. Quando Xi è salito al potere ha reso prioritario affrontare i pericoli dell’interdipendenza, anche attraverso l’iniziativa “Made in China 2025”, che mira a rendere la Cina autosufficiente al 70% in dieci comparti tecnologici chiave entro il 2025.

Xi ha si è dimostrato disposto a sacrificare la crescita economica in nome dell’autonomia nazionale e molti dei funzionari ed esperti legati al governo che una volta sostenevano una maggiore integrazione sono stati d’accordo con la sua linea politica.

Li Qingsi, direttore esecutivo del Center for American Studies presso la Renmin University of China, ha scritto che il caso ZTE nel 2018 “ha disilluso completamente coloro che incoraggiavano le relazioni con gli Stati Uniti per sviluppare la nostra economia e ha convinto tutti che la Cina deve portare avanti la tradizione dell’autosufficienza e ridurre la dipendenza dai partner esterni”.

Nonostante il percorso di Pechino verso l’autosufficienza sia ancora lungo e impervio, la direzione è chiara. Un mondo in cui la Cina è veramente autosufficiente è un mondo in cui gli Stati Uniti hanno molta meno influenza a livello internazionale di quanta ne abbiano attualmente. La Cina dipende ancora da aziende straniere per molte tecnologie fondamentali, compresi i semiconduttori necessari per qualsiasi cosa, da personal computer e smartphone ai sistemi controllati da intelligenze artificiali.

Nel 2019 i leader cinesi hanno smesso di parlare pubblicamente di Made in China 2025 per ridurre le tensioni durante i negoziati con gli Stati Uniti, ma la politica persiste nella sostanza e un alto funzionario (che desidera rimanere anonimo) ci ha riferito che il PCC “non arretrerà di un centimetro”.

All’inizio di quest’anno Xi ha annunciato investimenti per ulteriori 1400 miliardi di dollari nello sviluppo e nell’implementazione di infrastrutture tecnologiche avanzate come reti wireless 5G, sensori, telecamere e automazione.

Le preoccupazioni cinesi sull’egemonia dagli Stati Uniti hanno però un portato molto più ampio. Si sono infatti recentemente verificate diverse tensioni intorno al dominio statunitense sulla finanza internazionale, dall’uso del dollaro ai sistemi di pagamento interbancari.

L’ex ministro Lou Jiwei ha iniziato a mettere in guardia gli operatori del settore sul rischio di una “guerra finanziaria” ad opera degli Stati Uniti, che stanno facendo “tutto ciò che è in loro potere per utilizzare misure aggressive contro la Cina”.

Per quanto riguarda la pandemia, l’incapacità di Trump di controllare la malattia, con circa sei milioni di casi e quasi 200.000 morti nei soli Stati Uniti entro la fine di agosto, è la riprova di quello che i commentatori cinesi vedono come uno stato critico del paese, definendo la pandemia la “Waterloo della leadership americana” e “la fine del secolo americano”.

Ritengono, in poche parole, che Trump abbia impostato la sua campagna elettorale in modo apertamente anti-cinese per distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti della sua amministrazione.

Molte delle principali voci cinesi, tuttavia, sono convinte che qualunque sia il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi, la traiettoria delle relazioni tra Cina e Stati Uniti è ora impostata da forze inesorabili che spingono verso il declino americano e l’ostilità verso la Cina.

“Anche se Biden vincesse – ha scritto di recente Yuan Peng, influente presidente del China Institutes of Contemporary International Relations – gli Stati Uniti faranno fatica a riprendere il loro ruolo di leader e la politica americana verso la Cina diventerà sempre più inflessibile e arrogante, aumentando ulteriormente le misure di contenimento e repressione”.

Xi sta lanciando nuove politiche che si basano su questi assunti. A partire dalla scorsa primavera ha svelato un’agenda per l’economia che mira a reindirizzare lo sviluppo economico della Cina, facendo molto più affidamento sull’enorme mercato interno cinese e meno su un “mondo più instabile e incerto”.

La promozione della domanda interna è stata a lungo un punto di discussione dei leader cinesi, ma Xi si è impegnato a rendere il raggiungimento di un maggiore consumo interno un fulcro del prossimo piano quinquennale per il 2021-25. Questo cambiamento è chiaramente guidato dal presupposto che gli Stati Uniti continueranno a lavorare contro la Cina.

Xi vorrebbe tuttavia ridurre i conflitti commerciali e tecnologici con gli Stati Uniti per guadagnare tempo, lavorando altresì sul rafforzamento e la diversificazione dei suoi legami con altre economie mondiali. Ad esempio attraverso la Belt and Road Initiative, una rete internazionale di progetti infrastrutturali che mira ad aumentare l’influenza geopolitica della Cina.

In altre parole, quello in corso non è tanto un processo di de-globalizzazione, quanto piuttosto di de-americanizzazione.

La convinzione della Cina che gli Stati Uniti siano una potenza in declino e ostile ha incoraggiato i suoi leader a perseguire obiettivi di vecchia data con ritrovato vigore. Questa visione li rende più propensi ad assumere posizioni aggressive e rende meno concreto il rischio dell’oblio internazionale: imporre una nuova legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong; commettere atrocità nello Xinjiang; portare avanti operazioni improvvide in Australia, India e Filippine; minacciare Taiwan; siglare nuove partnership con Iran e Russia; lasciare infine che si diffondessero teorie del complotto sulle origini del Covid-19.

Con il ritiro dei contingenti militari americani e l’uscita degli Stati Uniti dalle organizzazioni internazionali, la Cina ha avuto modo di rimodellare gli organismi globali a suo favore, come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

“UNA STRATEGIA MIGLIORE PER GESTIRE LA CINA”

Quale dovrebbe essere quindi l’approccio statunitense nei confronti della Cina per gestire questi cambiamenti? Alcuni potrebbero essere tentati di provare a negare questi cambiamenti, rassicurando Pechino che gli Stati Uniti non intendono affatto ostacolare la Cina.

È altamente improbabile che un approccio del genere possa rivelarsi efficace. Le ambizioni della Cina sono in conflitto con gli interessi degli Stati Uniti da molto tempo e in molte aree, e Trump si guarda bene dal fornire qualsiasi rassicurazione diplomatica; sarà virtualmente impossibile convincere i leader cinesi a rivedere la loro politica incentrata sul controllo sociale e su un sistema economico statalista.

Questo non significa però che l’intera agenda di Pechino sia immutabile, come è molto in uso pensare oggi, considerando la Cina non un paese che risponde alle pressioni e agli incentivi, ma una forza adamantina incapace di reagire agli stimoli esterni.

Gli Stati Uniti allo stesso modo non vanno considerati un soggetto impotente in grado solo di sollevare il ponte levatoio e prepararsi all’assedio. Occorre un approccio diverso, che si discosti sia da un nostalgico “reset” sia da una visione paurosa e fatalista.

Il miglior percorso da seguire è elaborare una strategia basata su una valutazione più realistica degli interessi statunitensi e cinesi. Pechino vede il mondo in termini duramente competitivi e ideologici, ma ciò non dovrebbe impedire a Washington di portare avanti i suoi interessi in Cina. La sfida più ambiziosa e più importante di questa strategia sarà dimostrare alla Cina e al resto del mondo che gli Stati Uniti rimangono forti e possono gestire in modo consapevole il loro potere e la loro leadership.

I governanti cinesi hanno costruito la loro strategia sulla profonda sottovalutazione degli Stati Uniti. Ribaltando le notizie esagerate sul loro imminente declino, gli Stati Uniti potrebbero far cambiare idea alla Cina e trovare una via verso una coesistenza pacifica a condizioni favorevoli per tutti.

Per competere efficacemente con la Cina, è essenziale che gli Stati Uniti infondano nuova linfa vitale alla loro economia, recuperino lo svantaggio tecnologico e rafforzino il loro sistema democratico. Tutte queste iniziative sarebbero importanti anche in assenza di una concorrenza come la Cina, ma la rivalità con Pechino accresce la loro urgenza.

È inoltre di primaria importanza tenere sotto controllo la pandemia di Covid, attuare politiche economiche a vantaggio di tutti gli americani, accogliere gli immigrati che arricchiscono la società statunitense e perseguire la giustizia razziale, dimostrando così al mondo che la democrazia statunitense può rimanere un faro di libertà e uguaglianza. Un ambizioso programma per il rinnovamento e la resilienza nazionale scuoterebbe profondamente alla base la strategia del PCC.

I leader statunitensi non dovrebbero inoltre esimersi dal sottolineare pubblicamente le numerose mancanze e debolezze della Cina autoritaria, tra cui l’invecchiamento della popolazione, le crisi ecologiche, le numerose controversie sui confini e il declino della popolarità internazionale. È di vitale importanza che gli Stati Uniti rafforzino i loro legami con gli alleati e i partner asiatici ed europei per contrastare insieme le politiche problematiche della Cina.

Tali sforzi dovrebbero includere l’uso delle leve economiche congiunte per punire le aziende e i gruppi che rubano la proprietà intellettuale e attuano altre condotte illegali; infliggere sanzioni ad istituzioni e funzionari che stanno portando avanti la repressione a Hong Kong, Tibet e Xinjiang.

Giocando in difesa, gli Stati Uniti e i loro alleati devono adottare misure per mantenere la loro influenza nelle aree chiave del commercio internazionale, emancipandosi completamente dalle catene di approvvigionamento che creano vulnerabilità inaccettabili per la Cina (come la produzione di forniture mediche critiche) e diversificando quelle meno sensibili. Non tutti i traffici commerciali comportano un rischio effettivo e gli Stati Uniti possono ancora trarre vantaggio dagli scambi economici, scientifici e interpersonali con i paesi di tutto il mondo, compresa la Cina.

Stati Uniti e Cina hanno anche importanti interessi condivisi e dovrebbero sforzarsi di prevenire le conseguenze nefaste che potrebbe avere la loro concorrenza. Entrambi i paesi devono affrontare sfide profonde come il cambiamento climatico, le malattie pandemiche e la proliferazione nucleare, che non possono essere gestite senza coordinamento e azioni congiunte. Per le aree più instabili e pericolose, come il Mar Cinese Meridionale, dovrebbero essere condotti dei negoziati efficaci.

Cooperando su questi temi, anche nel contesto di una relazione intensamente competitiva, gli Stati Uniti dimostrerebbero a Pechino di non temere o cercare di contenere una Cina che assume un ruolo globale importante e gioca secondo le regole.

Tutti questi sforzi, tuttavia, saranno pienamente ripagati solo se gli Stati Uniti potranno dimostrare quanto si sbagli il PCC circa il loro inesorabile declino.

La visione drammatica della leadership cinese sulle prospettive per gli Stati Uniti è sbagliata: molto di ciò che gli Stati Uniti possono fare per competere efficacemente con la Cina dipende interamente da loro e c’è ancora tempo per agire.

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