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31/10/2020

Come l’Ucraina vuole influenzare il processo a Vitaly Markiv

I primi di novembre si concluderà il processo di secondo grado sull’assassinio del fotoreporter Andrea Rocchelli, ucciso nel 2014 insieme a Andrei Mironov, un altro giornalista russo, durante la guerra del Donbass nell’Ucraina orientale.

Il condannato a 24 anni di carcere in primo grado è un nazionalista e sergente ucraino Vitaly Markiv, accusato di aver concorso nell’omicidio del fotoreporter, il quale sarebbe stato bombardato con l’artiglieria da una base posta sopra una collina presidiata dalle truppe filo-governative.

Dall’assassinio, avvenuto il 24 maggio 2014, fino all’arresto dell’ucraino nel luglio 2017, per tre anni, il caso è rimasto lontano dai riflettori della stampa. Pochi, oltre la famiglia del fotoreporter, sembravano occuparsi della vicenda.

Solo quando i carabinieri hanno arrestato Markiv mentre rientrava in Italia per le vacanze, tutta una serie di personaggi e organizzazioni filo-ucraine in Italia e nella stessa Ucraina hanno cominciato ad attivarsi per raccontare la propria verità sul caso.

Procediamo con ordine, partendo dall’imputato. Vitaly Markiv, cittadino italiano (oltre che ucraino) che viveva a Tolentino con la famiglia. Ha deciso di arruolarsi volontariamente nella Guardia nazionale dell’Ucraina nel momento stesso in cui il governo di Kiev ha dato il via alle azioni repressive nel Donbass, contro la rivolta indipendentiste della popolazione locale, russofona.

Markiv è un frequentatore del Porter Pub di Kiev, un locale neonazista dove vengono esposte croci celtiche e simboli nazisti delle formazioni militari ucraine di estrema destra.

Sui dispositivi che aveva addosso al momento dell’arresto gli sono state ritrovate alcune fotografie che testimoniano crimini di guerra delle truppe filo-governative, come il maltrattamento e l’uccisione di prigionieri, e figurano anche i suoi commilitoni mentre fanno saluti romani sventolando una bandiera nazista.

Fra i primi a muoversi in Ucraina per chiedere la scarcerazione del soldato Markiv ci sono alcune organizzazioni neonaziste, come il gruppo S14, e il “Corpo Nazionale”, ovvero il progetto politico del Battaglione Azov, che organizzano delle proteste di fronte all’ambasciata d’Italia a Kiev.

Oltre a loro c’è tutto lo Stato ucraino, con il ministro degli interni Arsen Avakov in prima linea, personaggio noto per aver messo in mano ai neonazisti la gestione di alcuni dipartimenti di polizia, impegnato con una grande campagna nazionale e internazionale per salvare il soldato Markiv dalle grinfie della giustizia italiana.

Le acque in Italia hanno cominciato a smuoversi intorno al 2019, quando – dopo la sentenza di condanna emessa dalla corte di Assise di Pavia nei confronti di Markiv – un gruppo di giornalisti tra cui Cristiano Tinazzi, non accettando il verdetto, decide di produrre un documentario chiamato The Wrong Place.

Dichiarandosi “assolutamente super partes”, il gruppo si prefigge – sulla carta – l’obiettivo di ricostruire l’assassinio di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov da un punto di vista indipendente.

Il titolo non avrà molto successo, l’allusione palese al fatto che quei giornalisti si trovassero nel “posto sbagliato”, ovvero a documentare una guerra, si è rivoltata subito contro la stessa produzione, scatenando le ire sia della famiglia Rocchelli, sia della nipote del giornalista russo ucciso.

Il titolo è stato cambiato da qualche giorno in “Crossfire”, fuoco incrociato.

Passiamo al regista: Tinazzi nel 1999 è stato candidato nelle liste del Fronte Nazionale, partito neofascista di Adriano Tilgher (ex di Avanguardia Nazionale, con Stefano Delle Chiaie e altri fascisti più volte inquisiti negli anni ’70).

Negli anni successivi le frequentazioni neofasciste o ambigue sembrano essere andate avanti, come testimoniano le interviste fatte alla band ZetaZeroAlfa (del giro CasaPound) o la collaborazione col giornale Rinascita.

20 anni fa frequentava ambienti di estrema destra, ora nel suo documentario lo ritroviamo in un poligono di tiro della Guardia nazionale Ucraina, una formazione militare nella quale sono integrate persino formazioni neonaziste come il Battaglione Azov.

Che ci fa Tinazzi in un poligono di tiro insieme al corpo militare accusato di aver assassinato Rocchelli?

Da quello che si nota dal trailer del documentario, starebbe producendo le “prove” utili a dimostrare che dalla collina dove erano asserragliate le truppe filo-governative non era possibile vedere né colpire con armi da fuoco il gruppo di giornalisti.

Non mi soffermerò molto sulle obiezioni dal punto di vista tecnico, anche perché ne sono già state sollevate abbastanza sui test compiuti nel documentario. A ogni modo, secondo le ricostruzioni della sentenza di primo grado, confermate dal procuratore generale in Corte d’assise d’appello, l’assassinio sarebbe avvenuto per mezzo di mortai e non si capisce quindi per quale ragione si facciano test balistici con armi da fuoco.

Inoltre è lo stesso ministro degli esteri Avakov a dichiarare che, dalla collina dove erano posizionate le truppe filo-governative, i loro cecchini avevano “ripulito” la zona intorno alle carrozze del treno, luogo dove è avvenuto l’omicidio di Rocchelli, ed è perciò certificato che dalla collina era possibile colpire a quella distanza persino con armi da fuoco, oltre che con i mortai.

Sarà sempre Avakov a dichiarare che un gruppo di giornalisti si è rivolto a lui per occuparsi del caso Rocchelli, e che gli fornirà tutta l’assistenza necessaria.

Nel documentario, gli autori non hanno mancato di ringraziare la Guardia nazionale Ucraina per la collaborazione. Però solo nella versione ucraina, nella versione italiana il ringraziamento è stato curiosamente rimosso. Un documentario, come dire, veramente “indipendente” e che non ha nulla da nascondere.

Tra gli altri collaboratori del progetto c’è Olga Tokariuk, una giornalista ucraina che gira molto per l’Italia, che ha lavorato anche per Hromadske Tv, anch’esso inserito fra i ringraziamenti del documentario, un giornale online ucraino schierato sulla linea filo-governativa che vanta anche qualche piccolo scandalo, come l’aver tagliato l’intervista in diretta a Tanya Lokshina, membro di Human Rights Watch, perché si rifiutava di accusare la Russia per i morti civili nel conflitto del Donbass.

La Tokariuk, durante una presentazione del documentario afferma: “Nel nostro team italo-ucraino non abbiamo divergenze ideologiche […] Tinazzi sa molto bene che i separatisti sono criminali, che commettevano crimini nel Donbass […] lui sa bene chi è l’aggressore in Ucraina e chi è la vittima”.

Quindi pare di trovarsi di fronte, più che a un gruppo di giornalisti a caccia della verità, a una task-force coesa dal punto di vista ideologico che cerca di avvalorare la tesi secondo cui i separatisti sono criminali e sui quali bisogna far ricadere la colpa dell’assassinio per scagionare il nazionalista ucraino.

“Markiv è un esempio di dignità per me”, dice la Tokariuk durante le fasi del processo nel 2018, “tiene la testa alta nonostante le assurde accuse”. Il documentario non era ancora stato girato e già aveva preso una posizione netta, curioso modo di approcciare la vicenda da un punto di vista “indipendente”.

Un altro collaboratore del documentario è il giornalista Danilo Elia, che si è occupato delle vicende ucraine sin da Euromaidan da una posizione certo non antipatizzante. Risulta chiaro negli articoli dove, in una certa maniera, cerca di “umanizzare” le formazioni estremiste ucraine, come in occasione di una birra con i neonazisti di Pravy Sektor. Mentre non esita a descrivere i ribelli come “uomini armati che scorrazzano per le strade […] Rubano, bevono, sparano. Terrorizzano la popolazione”. La Tokariuk lo ha detto, nessuna divergenza ideologica nel team.

A livello internazionale arriva supporto e riconoscimento al progetto da diversi singoli e organizzazioni.

Leggendo la lista dei patrocinanti si nota la Open Dialogue Foundation, una ONG che ha base in Polonia e che opera anche in Ucraina. Nel 2013 appoggiò Euromaidan e tutt’ora supporta apertamente l’esercito ucraino.

Abbiamo poi la fondazione Justice for Journalists, che ha assegnato 40.000 euro per la produzione del documentario, una ONG fondata dell’ex oligarca russo Mikhail Khodorkovsky, ora milionario, che vive a Londra. Proprio quel milionario che durante Euromaidan incitava la folla per un’Ucraina democratica, la stessa Ucraina che qualche mese dopo avvierà una guerra civile in Europa, bombardando la propria popolazione con l’aviazione.

In Italia, tra i sostenitori del progetto ci sono soprattutto i Radicali Italiani di Emma Bonino, che dietro la condanna di Vitaly Markiv vedono il “condizionamento del regime russo sulla politica e sulla società italiana”. Lo scorso anno un gruppo di nazionalisti ucraini si è iscritto al partito grazie a questa convergenza di vedute.

Tra questi c’è Oles Horodetskyy, la stessa persona che venne espulsa dall’aula durante il processo perché da dietro l’avvocato ucraino, per tre volte, suggeriva le risposte ai commilitoni di Markiv chiamati a testimoniare. Tra parentesi, si sono contraddetti molteplici volte.

Si uniscono all’operazione “salvate il soldato Markiv”, promuovendo sui social il documentario, anche altre organizzazioni, non strettamente collegate con la produzione. Per esempio c’è Fabio Prevedello, presidente dell’Associazione Europea Italia-Ucraina Maidan, che definisceamico” Cristiano Tinazzi e “amica” Olga Tokariuk.

Questa associazione nel 2019 è finita in uno scandalo nella provincia di Reggio Emilia, che gli è valso l’allontanamento dai progetti culturali dell’Istituto antifascista Alcide Cervi.

Cosa avevano fatto? L’organizzazione di Prevedello, oltre a raccogliere fondi e comprare equipaggiamento da inviare ai battaglioni filo-governativi, era stata scoperta a vendere nei propri banchetti, qui in Italia, libri e gadget riconducibili ai neonazisti di Pravy Sektor.

E ancora, a fare da supporto mediatico per il documentario, arriva anche l’organizzazione ucraina StopFake.org, che lavora a stretto giro con Facebook ed esegue il fact-checking per gli articoli caricati dagli utenti sul social network.

Questa organizzazione è finita in uno scandalo internazionale nel momento in cui una giornalista, Katerina Sergatskova, tutt’altro che orientata verso il mondo russo, ha deciso di compiere un’indagine sui vertici dell’organizzazione, rivelando un torbido intreccio di conoscenze tra StopFake e l’area neonazista ucraina.

Una volta pubblica la sua inchiesta, la giornalista è stata minacciata di morte da una folla di utenti di estrema destra che l’accusavano di essere un agente del Cremlino e che hanno poi diffuso online l’indirizzo, foto di casa, e persino la foto del figlio 5 anni. Katerina a quel punto è stata così costretta a fuggire dal Paese.

La filiale italiana di StopFake è gestita da Mauro Voerzio, un reporter di guerra che viene ospitato volentieri dai Radicali Italiani. Come si può osservare dal materiale da lui rilasciato, ha dato copertura mediatica alle operazioni del gruppo neonazista S14, e ricondivide la candidatura degli esponenti politici del Battaglione Azov.

Senza sorprese, ovviamente sul caso Markiv è perfettamente allineato con le argomentazioni del team “privo di divergenze ideologiche”.

Oles Horodetskyy, il suggeritore espulso dall’aula di cui parlavamo prima, è il presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia e membro del comitato nazionale dei Radicali Italiani. Sempre presente dentro e fuori le aule del tribunale, ha organizzato presidi insieme a gruppi della comunità ucraina per manifestare il loro dissenso per l’arresto di Markiv.

Oles è fra quelli che più si sta spendendo per promuovere questo documentario, ed è la persona che sembra avere contatti con Anton Gerashchenko, il consigliere del ministro Avakov, che partecipa anche alle presentazioni del documentario sia in Italia, con i Radicali Italiani, sia in Ucraina. Quindi, una delle parti in causa sponsorizza il “documentario indipendente”, ennesimo aspetto curioso di questa vicenda.

Oles Horodetskyy, Mauro Voerzio e Fabio Prevedello, che si conoscevano da Euromaidan quando organizzavano o partecipavano ai presidi di supporto dall’Italia, continueranno a incontrarsi agli eventi dei Radicali Italiani o durante il processo a Vitaly Markiv.

Stando a quanto scritto e riportato, credo si possa con molta difficoltà parlare di questo documentario come un progetto indipendente e super partes. Diversi autori, le organizzazioni che gravitano loro intorno e quelle che gli danno supporto mediatico, sembrerebbero essere già schierati dalla parte dell’imputato e della Guardia nazionale Ucraina, per non parlare dei contatti che alcuni di questi hanno con lo Stato ucraino.

Non ci sono i requisiti minimi per poter condurre una ricerca della verità, ammesso che ve ne sia un’altra rispetto a quella emersa dalla precisa ricostruzione esposta nella sentenza di primo grado e ribadita dalla procura generale e dalle parti civili in corte di assise di Appello.

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