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29/10/2020

Il tallone di ferro sul popolo dell’abisso


Jack London, pseudonimo di John Griffith London, è morto suicida a quarant’anni (1916), ritrovato cadavere in un cottage nella residenza di Beatty Ranch, nella contea di Sonoma in California, probabilmente a causa di un’overdose di antidolorifici. Un atto estremo da tempo premeditato si direbbe, ma solo dopo essersi imbattuti nella lettura del suo antieroe per eccellenza “Martin Eden” (1909), romanzo autobiografico.

Il giovane marinaio proletario individualista che sogna di diventare scrittore e ci riesce, conquista l’amore di una giovane dell’alta borghesia, grazie al suo enorme bagaglio culturale autodidatta. Raggiunto il successo per protesta si autodistrugge contro una fama in cui non si riconosce, in polemica con il professionismo letterario dell’epoca. E con quella pena di cui London si fece carico, ossia l’orribile obbligo di scrivere per vivere che lo accompagnò sempre e lo tormentò fino in fondo.

Il romanzo di London si svolge come melodramma e fiaba mentre intorno c’è la creazione della società moderna, si fanno discorsi sulla democrazia e l’individuo, ma al contempo c’è la nascita dell’industria culturale, al fine di dare identità alla nazione e alla società, c’è la nascita della cultura di massa. Jack London è forse il primo grande autore globale, letto dalla California alla Russia, che si misura con questa industria e che alla fine ne rimarrà schiacciato.

Ma perché parlare di London oggi? Ad un secolo e oltre dalla sua morte? Forse perché non si è scritto e non si è detto già abbastanza? O forse, meglio, perché la sua figura così spietata nell’agire, nello scrivere, nell’indagare (per lui stessa cosa), priva di compromessi, satura di eccessi, sfrontata, dissacrante, palesemente anticapitalista, socialista, luddista, rivoluzionaria, visionaria, anticipatrice, risulta scomoda ancora oggi?

O forse avremmo difficoltà ad ammettere proprio oggi, in epoca di “peste scarlatta” (1915), che i “crumiri” (1905) continuano indisturbati a fare il loro sporco mestiere per conto dei capitalisti, nel tenere schiacciati, in un vampirismo economico, se stessi e l’intera classe proletaria, dentro i meccanismi infernali di una macchina che si auto riproduce continuamente, generando “fiat money” e dividendi, lasciando marcire “il popolo nell’abisso” (1903)?

O per caso l’East End londinese di inizio novecento, descritto da Jack London, non possiamo comunque trovarlo oggi a Brixton o Hackney? Magari scrutarlo altrove – che ne so – nelle banlieue parigine, ad Orcasur nella zona sud-orientale di Madrid, a Gorlitz in Sassonia, nella città più a est della Germania, o a Quarto Oggiaro, a Tor Bella Monica eccetera eccetera.

E, specie in epoca di “peste scarlatta”, di chiusura totale di ogni rimostranza salariale e rivendicazione di classe. Come dire con la “peste” si reprime e si governa meglio.

Non ci vuole tanto per capire che Jack London è qui presente, con noi, e ci invita ad alzarci, a prendere coscienza dei nostri mezzi, organizzarci come classe lavoratrice per emergere dall’abisso in cui ci troviamo. È qui per indicarci la strada da seguire.

“C’è una forza superiore alla ricchezza, superiore nel senso che non può esserci strappata. La nostra forza, la forza del proletariato, sta nei nostri muscoli, nelle nostre mani che lavorano, che votano, nelle nostre dita che possono premere un grilletto. È la forza primitiva, alleata della vita, superiore alla ricchezza, e che la ricchezza non può cancellare”. (Lotta di classe e altri saggi sul socialismo nel ‘900, Malcor D’ 2013).

“Non era una colonna, ma una confusa massa di gente, un torrente inquieto che empiva la via; era il popolo dell’abisso esaltato e assetato che s’era levato ruggendo per chiedere il sangue dei padroni” (Il popolo dell’abisso, Milano, Corticelli, 1928 [saggio sulle condizioni di vita dell’East End di Londra].

Gli scritti socialisti londoniani, “Il Tallone di Ferro”, “Rivoluzione”, “Il sogno di Debs”, “I favoriti da Mida” alcuni racconti in “Lotta di classe e altri saggi sul socialismo del ‘900”, cadono come una corroborante aria nuova e fresca nella stantia stanza della letteratura odierna, frutto marcescente più di allora della trionfante ideologia dominante. Sicché un “retorico” eppur sdegnato richiamo alla rivoluzione non perde mai la sua profonda necessità.

Marx, Engels, Nietzsche, Spencer, Darwin erano gli autori con cui spesso si confrontava e magnificava, con spietato altruismo, nelle suo vasto programma politico-letterario. Qualcuno comincerà a storcere il naso, paventando un legame non potabile specie tra Nietzsche e i primi due autori. Non ditelo a me ma, se volete, chiedetelo ai vari Deleuze, Bataille, Stirner, Lowith, Jaspers, allo stesso Derrida e compagnia bella del perché di questa possibile simpatia che London nutriva per loro.

“Bene, allora comincerò col dirvi che v’ingannate, tutti. Della classe operaia voi non sapete un bel niente. La vostra esperienza sociale è falsa e priva di valore come il vostro modo di ragionare. [….] Vi faccio osservare la condizione disperata dell’uomo moderno – tre milioni di bambini schiavi negli Stati Uniti. Senza il cui lavoro ogni profitto sarebbe impossibile; e quindici milioni di persone malnutrite e peggio alloggiate – vi ho fatto osservare come, con l’organizzazione moderna e l’organizzazione sociale e l’impiego delle macchine, le capacità produttive dell’uomo civile d’oggi sono mille volte superiori a quelle delle caverne; e ho osservato che questa duplice circostanza non si può trarre altra conclusione che questa; il malgoverno della classe capitalista”.

Potrebbe essere l’incipt di una nuova costituente internazionalista che abbia fatto severamente i conti col passato e che oggi si propone di ribaltare i valori in campo, puntando al pieno possesso dei mezzi di produzione.

A parlare invece è Ernest Evherard, il filosofo della classe operaia descritto nel “Il tallone di ferro”, l’agitatore della lotta di classe tra i lavoratori delle filande, nei nascenti agglomerati industriali di Berkeley di primo novecento, rivolgendosi ai predicatori durante una cena, su invito del professore universitario, il padre di Avis, la sua futura compagna di vita e di lotta.

Aggiungendo: “Questa sera avete ammesso più volte, direttamente o con le vostre dichiarazioni d’incompetenti, di non conoscere la classe operaia. Non vi biasimo per questo: come potreste conoscerla, infatti? Non vivete fra gli operai, pascolate con la classe capitalista. E perché dovreste agire diversamente? I capitalisti vi pagano, vi nutrono, vi danno gli abiti che portate questa sera. In cambio, voi predicate ai vostri padroni il tipo di metafisica che è loro particolarmente gradito e che essi accettano perché non minaccia l’ordine stabilito delle cose. […] Per questo vi dico, continuate a predicare e a guadagnarvi il vostro soldo ma, per amor del cielo, lasciate in pace la classe operaia. Voi state dalla parte del nemico. Non avete nulla in comune con essa. Le vostre mani sono bianche perché altri lavorano per voi, e i vostri stomaci pieni per l’abbondanza di cibo“.

Le parole dirompenti di Ernest al “Circolo degli amici di Studio” (un “gruppo Bildelberg” di quel tempo), rimbombano ancora oggi e rimbalzano sui muri di qualsiasi fabbrica, quartiere o officina del mondo. La figura del proletario rivoluzionario incarnata nel personaggio di Ernest Evherard rappresenta il testamento politico-spirituale del lascito di Jack London.

“Questo esercito della rivoluzione, forte di ventitrè milioni di uomini, fa riflettere le classi dominanti. Il grido di questo esercito è: nessuna tregua. Dobbiamo avere ciò che voi possedete. Non ci accontenteremo di meno. Vogliamo le redini del potere, e avere in mano il destino del genere umano. Ecco le nostre mani, le nostre forti mani. Vi toglieremo il potere, i palazzi e tutti i vostri agi dorati, e verrà il giorno in cui dovrete lavorare per guadagnarvi il pane, come fa il contadino nei campi, o il commesso nelle vostre metropoli. Ecco le nostre mani; sono forti. E mentre parlava, protendeva le sue forti spalle e allungava le sue grandi braccia, e i suoi pugni di fabbro fendevano l’aria come artigli d’aquila. Sembrava il simbolo del lavoro trionfante, con le mani tese per schiacciare e distruggere i suoi sfruttatori. Siete falliti nell’amministrazione della società, che vi sarà tolta di mano. Un milione e mezzo di uomini della classe operaia sono sicuri di attirare alla loro causa il resto delle masse lavoratrici e di strapparvi il dominio del mondo. Ecco la rivoluzione, signori: fermatela se potete! […] Il potere è sempre stato l’arbitro: la lotta di classe è una questione di forza”.

Tutta la prima parte del ”Il tallone di ferro” (1907), come scrive bene Valerio Evangelisti, è l’esposizione, in forme divulgative, delle tesi di Marx ed Engels sui più svariati temi: la teoria del plusvalore, le crisi da sovrapproduzione, lo sfociare in guerra delle stesse, l’azione rivoluzionaria, l’inevitabile reazione di una borghesia disposta a dimenticare, di punto in bianco, gli ideali democratici di cui si dice portatrice.

Il resto è una critica serrata della socialdemocrazia che, con la sua politica di compromessi, conduce il proletariato alla disfatta.

Vi ricordate la terza via inaugurata da Tony Blair (2009)? Il Blairismo, il volto nuovo e rigenerato del Capitalismo post-moderno? Che poi non è altro che la trasposizione della Reaganomics in salsa rosè? Da dove discerne tutta l’impalcatura politica economica del laissez faire europeo? Quella stessa impalcatura che ha brutalizzato il lavoro in nome del libero scambio, che ha tenuto e tiene appesi milioni e milioni di proletari in uno spazio precario industriale di riserva? Che ha depauperato la stessa classe media di cui s’era fatto portatore d’interessi? E ancor prima vi ricordate il modello fallimentare della SPD tedesca durante la Repubblica di Weimar?

Ecco i “crumiri” di cui ci parla Jack London del grande Capitale che prepararono il terreno di lotta per l’avvento del nazismo in Germania. Ora son sempre lì, vigili e presenti, tutti uniti ad invocare il MES, il Recovery Fund, la dissoluzione dello Stato sociale, la gestione dell’emergenza sanitaria, il terrore epidemico, il rigore dei conti pubblici, la protezione dei conti correnti bancari. E lo si fa a colpi di Dpcm: “il tallone di ferro sul popolo dell’abisso”.

Allarmato del moderatismo crescente, e reputandolo responsabile della disfatta del movimento operaio, London si dimise dal Partito Socialista americano nel 1916, l’anno stesso in cui morì, mentre Mosca era in procinto d’accogliere la rivoluzione bolscevica. E l’Occidente s’apprestava invece a vivere un trentennio di buio fitto a cavallo delle due guerre mondiali.

Certo, la rivoluzione russa sferzò l’ala radicale della socialdemocrazia tedesca e diede per qualche tempo un vigore dinamico all’anarco-sindacalismo francese. Il tallone di ferro porta d’altra parte il marchio inequivocabile dell’anno 1905. La vittoria della controrivoluzione si affermava già in Russia quando apparve questo libro notevole. Sul campo mondiale la disfatta del proletariato russo diede al riformismo non solo la possibilità di riconquistare le posizioni per un attimo perdute, ma anche i mezzi per sottomettere completamente a se stesso il movimento operaio organizzato.

Basta ricordare che proprio durante i sette anni seguenti (dal 1907 al 1914) la socialdemocrazia internazionale raggiunse la maturità sufficiente per giocare il ruolo basso e vergognoso che le fu proprio durante la guerra mondiale. Ruolo che ha conservato intatto fino ad oggi, come ala moderata del nazismo economico: cinquant’anni anni di controrivoluzione (dagli anni ‘70 in poi), di massacro sociale e riforme sul lavoro, hanno acquistato una forza e una capacità di influenza sulla classe operaia di tutto rispetto per la borghesia.

Jack London si dimise dal partito socialista americano lanciando un monito premonitore e un avvertimento: la classe capitalista ci ha dichiarato guerra e il riformismo realista è la sua migliore produzione bellica. La classe capitalista aveva le chiavi per “l’avvento di un’era meravigliosa” e invece “ha fallito. Cieca e ingorda. Ha predicato dolci ideali e adorati principi (…) la sua ingordigia non si è arrestata un attimo, fino a subire un fragoroso fallimento”.

Con il rigore scientifico dell’analisi di dati e il pathos della narrazione, London descrive una società dalle grandi contraddizioni e dal profondo divario sociale. Proprio nei Paesi “civilizzati” ed evoluti, come gli Stati Uniti, si verificano inaccettabili situazioni di estrema povertà e condizioni di lavoro disumane e degradanti. Un quadro, quello di London, non molto diverso da quanto accade oggi in Italia e più in generale in tutta l’UE.

Dove si resta schiacciati dentro la morsa di un modello fallimentare che va avanti da trent’anni almeno, basato sulla deflazione (riduzione) salariale, sulla distruzione di salari, pensioni e spesa pubblica a favore di un modello orientato all’export basato sul credito ai debitori dove dominano alti profitti e rendite; senza investimenti, senza consumi.

A questo, ora, in epoca di “peste scarlatta”, si aggiunge la chiusura totale e/o parziale di quei settori considerati “non essenziali”, diciamo poco afferenti al grande capitale, mentre si prospettano turni massacranti e un’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro senza precedenti in quelli considerati “necessari”.

Di necessario ci saranno da qui in poi solo gli assembramenti di protesta nelle piazze: ristoratori, baristi, operatori dello sport, dello spettacolo, del turismo che vengono spinti per necessità ad odiare lo Stato e i suoi Padroni, e in più tutta una classe proletaria eternamente precaria e prossima al licenziamento.

Di fronte troveranno la legge del manganello e i socialdemocratici asserragliati, sì sempre loro direbbe London, che spingono a premere il grilletto, per difendere i propri interessi di classe.

Nel frattempo una depressiva psicosi di massa sta prendendo il sopravvento. I suicidi negli ultimi tre mesi per perdite di lavoro e per obblighi di chiusura sono in forte aumento. Come dire, altro che negazionisti, di covid-19 si muore per davvero!

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