Il governo spagnolo pare intenzionato a rinunciare ai 70 miliardi di prestiti del Recovery Fund e ad accettare solo i 72,7 miliardi di “aiuti diretti non rimborsabili” del Recovery Fund in discussione all’Unione Europea.
A rivelarlo è stato il quotidiano spagnolo El Pais, che ha consultato fonti della presidenza del consiglio e del ministero dell’Economia, riporta l’Agenzia Nova.
L’articolo pubblicato da El Pais sottolinea come siano ben poco chiare le condizionalità associate ai fondi europei e questo continua ad essere un deterrente. In secondo luogo, non risulta affatto fugato il sospetto che, prima o poi, Bruxelles chiederà di nuovo “aggiustamenti strutturali” ai paesi che hanno un debito superiore al 100 per cento del Pil.
In sostanza la Spagna chiederebbe, per il 2021-2023, solo i finanziamenti europei che non devono essere restituiti, ma rifiuterebbe di chiedere già ora i crediti – che alla fine significano più debiti – associati ai fondi europei.
“La Commissione Europea permette di contrarre prestiti fino al luglio 2023. Cosa ci guadagniamo a chiederli ora? Lo faremo, se ne avremo bisogno, per il periodo 2024-2026”, ammettono le fonti governative.
Una linea, questa, che potrebbe essere adottata anche da altri paesi come Portogallo e Francia. E forse, con una classe dirigente meno servile e subalterna a Bruxelles, anche dall’Italia.
In qualche modo questa linea è emersa – relativamente al MES, però – tra le righe della dichiarazione di Conte in conferenza stampa lunedì sera, suscitando tuttavia le ire del Pd e di Renzi.
Anche il primo ministro portoghese António Costa ha dichiarato pubblicamente che sta rinunciando ai prestiti cui avrebbe diritto. Chiede per ora gli aiuti diretti, ma l’accesso ai crediti – che vanno rimborsati – è ipotizzato solo quando e se saranno strettamente necessari.
La Spagna e il suo governo per ora non sono stati così espliciti, ma nella versione preliminare del Piano di recupero inviata a Bruxelles la settimana scorsa si rileva che la Spagna chiederà tutti i trasferimenti diretti e, per il momento, non un solo centesimo in prestiti.
A frenare gli entusiasmi su Recovery Fund e MES che vediamo in settori della classe politica in Italia, rimane soprattutto la condizionalità associata ai fondi europei, che continua ad essere così nebulosa da costituire un deterrente nel far ricorso a finanziamenti che accrescono il debito pubblico e vanno rimborsati.
Del resto anche le condizioni generali sono cambiate. Gli acquisti di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea hanno ridotto al minimo i tassi di interesse che tutti i paesi pagano sul proprio debito, abbattendo lo spread.
In un editoriale su Teleborsa, Guido Salerno Aletta ricorda come la BCE abbia preso in mano le redini della situazione di emergenza. A marzo, in piena pandemia, ha varato già il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), con una dotazione complessiva portata a 1.350 miliardi di euro, per comprare i titoli pubblici sul mercato, con un orizzonte di 15 mesi, scadenza a giugno 2021.
Secondo Salerno Aletta, il paragone va fatto con il Quantitative Easing di Mario Draghi, iniziato il 9 marzo del 2015 e concluso il 1° dicembre 2019, ma poi ripreso in sordina nel novembre 2019 con la denominazione PSPP (Public Sector Purchase Program) con nuovi acquisti netti.
“I due programmi, PEPP e PSPP, hanno cumulato i propri effetti, evitando un massacro”, scrive Salerno Aletta; “i mercati non avrebbero mai potuto assorbire l’enorme quantità di nuovo debito pubblico che è stato emesso dai governi per fronteggiare le conseguenze economiche e finanziarie della epidemia di Covid-19”.
Appare evidente che, se dovesse delinearsi la posizione di due paesi Pigs come Spagna e Portogallo sull’utilizzo solo della parte senza condizionalità del Recovery Fund, dovrebbe aderirvi anche un paese come l’Italia – senza escludere affatto una Francia, anch’essa in grave affanno – ed allora per i gendarmi di Bruxelles si aprirebbe una seria contraddizione. Tutta da sfruttare, al di là degli strepiti di Renzi e Zingaretti.
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