Il conflitto che nel Caucaso meridionale si protrae da trent’anni vedendo contrapposti Armenia ed Azerbaigian è entrato in nuova fase attiva nelle ultime settimane. La crisi odierna che riguarda il Nagorno-Karabakh è la più grave dal 1993-94, e in relazione al contesto regionale rischia di aggravarsi ulteriormente.
Quella
del Nagorno-Karabakh è una delle tante guerre innescate dal crollo
dell’Unione Sovietica e dalla sua onda lunga. Tra le ragioni che hanno
prodotto questa nuova crisi ci sono sia elementi geopolitici sia
identitari. Venendo meno il multiculturalismo di cui l’Unione Sovietica
si faceva giocoforza garante, le tendenze all’esasperazione identitaria ‒
nazionalista o religiosa ‒ hanno avuto la meglio sulla convivenza
pacifica tra culture diverse.
Oggi l’Artsakh è una sorta di protettorato armeno de facto
indipendente dal 1992, privo di riconoscimento internazionale e
rivendicato dall’Azerbaigian. Si trova in territorio quasi del tutto
montuoso, con una superficie pari grossomodo a quella dell’Abruzzo,
abitato da circa 150 mila persone, in larga maggioranza armeni. Gli
azeri, sostenendo le proprie rivendicazioni a partire dall’appartenenza
della Repubblica Autonoma del Nagorno-Karabakh alla ex Repubblica
Socialista Sovietica dell’Azerbaigian, denunciano che negli ultimi
decenni molte famiglie azere siano state allontanate dall’Artsakh. Gli
armeni, dal canto loro, sostengono che la cessione dell’Artsakh
all’Azerbaigian favorirebbe le strategie panturche conducendo l’Armenia
ad un nuovo Medz Yeghern (l’espressione con cui gli armeni si riferiscono al genocidio del 1915-16).
Il
conflitto tra Armenia ed Azerbaigian si è riacceso a neppure
ventiquattro ore dalla conclusione delle esercitazioni “Kavkaz 2020” ‒
svoltesi nella porzione meridionale della Federazione Russa compresa tra
il Mar Nero, il Caucaso del Nord ed il Mar Caspio e condotte
congiuntamente dalle forze armate russe, cinesi, bielorusse, iraniane,
armene, pakistane e birmane: ben 80 mila gli uomini complessivamente
impiegati. Negli ultimi mesi la Turchia ha consegnato all’Azerbaigian
droni, missili ed altro armamento oltre ad aver organizzato
esercitazioni congiunte tra proprie forze armate e quelle di Baku. Circa
1000 miliziani della “divisione Hamza” sarebbero stati trasferiti dalla
Siria all’Azerbaigian con il sostegno turco. Questi ultimi, secondo
l’ambasciatore armeno a Mosca Vardan Toganian, sarebbero addirittura 4
mila.
L’arrivo – ormai accertato – dei miliziani
d’ispirazione jihadista rappresenta una questione assai seria. La loro
presenza tra le file azere potrebbe rivelarsi un problema per la
stabilità dello stesso Azerbaigian, che come la Federazione Russa a
partire dagli anni Novanta si è trovato a dover fare i conti con il
fenomeno della radicalizzazione islamica. Ad aggravare il quadro, c’è il
confine settentrionale con il Daghestan,
la turbolenta regione autonoma della Federazione Russa che rimane
tutt’oggi una delle regioni della galassia postsovietica più interessate
dalla violenza di ispirazione jihadista.
L’oltranzismo
della Turchia, principale sostenitrice di Baku, sembra addirittura più
intransigente di quello azero e nient’affatto propenso al compromesso.
L’Armenia, verso Oriente, rappresenta uno dei principali ostacoli ai
progetti sulla scorta dei quali si muovono le strategie di Ankara. Al di
là delle responsabilità militari di entrambe le parti, l’Armenia si
trova in una condizione di oggettivo svantaggio. Con un terzo degli
abitanti dell’Azerbaigian – circa 3 milioni contro circa 10 milioni –
l’Armenia ha un’economia che vale grossomodo un quarto di quella azera –
con un PIL da circa 12 miliardi di dollari contro un PIL da 46 miliardi
di dollari.
Il neottomanesimo ed il panturchismo che connotano la politica di Erdoğan
sembrano da leggersi in stretta correlazione con la fase di crisi
strategica con cui gli Stati Uniti si trovano a dover fare i conti,
soprattutto nel Vicino Oriente. Certamente negli ultimi anni i contrasti
tra Ankara e Washington non sono mancati: tuttavia, dal Mediterraneo
orientale allo Xinjiang, così come dal Corno d’Africa al Caucaso, le
proiezioni di Ankara appaiono complementari alla strategia di
contenimento antirussa e anticinese promossa dagli Stati Uniti.
Ad
apparire verosimile è il nesso tra le nuove tensioni del Caucaso e la
strategia di Ankara verso Oriente ‒ “Asia Anew” ‒ presentata lo scorso
dicembre dal ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu. Lo stesso
Çavuşoğlu, alcune settimane fa aveva addirittura ventilato la
possibilità di un intervento diretto di Ankara in sostegno alle truppe
di Baku.
Il significato delle recenti dichiarazioni del segretario di Stato Mike Pompeo in favore di Erevan si può rintracciare nell’intento da parte dell’amministrazione Trump
di non mettersi contro la comunità armena presente negli Stati Uniti,
specie all’alba della tornata elettorale. Nel disegno strategico di
Washington il fattore turco si pone come un elemento di controllo
indiretto ‒ sul Mediterraneo, sull’Heartland e sul Rimland ‒ e di pressione sui rivali di Pechino e di Mosca.
Il
primo cessate il fuoco, mediato dal ministro degli Esteri della
Federazione Russa e sottoscritto dai suoi omologhi di Armenia ed
Azerbaigian, non ha retto. A distanza di una settimana dall’entrata in
vigore del primo, ne è stato sottoscritto un nuovo mediato dal Gruppo di
Minsk, la cui tenuta è stata risibile, con reciproci scambi di accuse
tra le parti. Dopo di questo, è stato sottoscritto un terzo accordo per
il cessate il fuoco, mediato e sostenuto dagli Stati Uniti ed entrato in
vigore dalla mattina del 26 ottobre.
Per Mosca la
necessità di mantenere una sostanziale equidistanza tra Baku ed Erevan è
più complicata che negli scorsi decenni. E non solo per il cordone
ombelicale che lega l’Armenia alla Federazione Russa o per la presenza
stabile di migliaia di militari russi in territorio armeno.
Nel
nuovo Grande gioco per l’egemonia sul Caucaso e sull’Asia Centrale
pesano il ruolo degli attori regionali – come la Turchia – così quello
delle altre crisi postsovietiche – Bielorussia, Ucraina e Kirghizistan –
che Mosca si trova a dover fronteggiare simultaneamente.
Mancando
i presupposti concreti per una soluzione politica, la risoluzione del
conflitto del Karabakh resta lontana. Mentre sul fronte del Karabakh si
continuano a registrare combattimenti si attende un nuovo vertice
moscovita tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e quello azero Ilham Aliyev, a cui starebbe lavorando la diplomazia del Cremlino.
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