Il nostro è un Paese nel quale il giornalismo investigativo ha avuto poco successo: carriere prestigiose si sono fondate sull’abilità di trasmissione al pubblico di quello che si voleva far trapelare dalle segrete stanze, sul pigro editing delle “agenzie Stefani” che si sono succedute, sull’opinione più premiata della cronaca, tanto che, salvo casi rarissimi di cronisti penalizzati e qualche martire, una cortina di silenzio è caduta su stragi, eventi criminosi, attentati.
Sembra un paradosso e invece ieri e oggi abbiamo assistito a un inatteso revival quando alcune penne magistrali con inatteso dinamismo dal desk e dal professionismo agile dal sofà hanno effettuato analisi e diagnosi dei disordini napoletani, risalendo in men che non si dica ai mandanti dei tumulti che hanno visto in piazza una “marmaglia ferina”, subito catalogata come appartenente alla manovalanza della camorra, colpita nei suoi foschi interessi dalle misure restrittive del lockdown passato e futuro.
Più volte ho osservato che ci sono fonti ufficiali che non vengono consultate anche se avrebbero il merito di far intravvedere la verità dietro ai fumi esalati dalla narrazione pubblica.
Una di queste è proprio la Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, che pubblica relazioni semestrali, nell’ultima delle quali denunciava come l’emergenza stia rappresentando una formidabile opportunità per le attività criminali delle mafie, pronte, a differenza di istituzioni che sono state colte impreparate dopo otto mesi, a infiltrarsi e occupare i brand “sanitari”, dalle mascherine, agli appalti per la fornitura dei dispositivi medici, all’ingresso e alla presenza in strutture assistenziali private.
Ecco, bastava leggerla quella prefazione inserita in fretta nel rapporto della Dia. E bastava riflettere sugli usi delle organizzazioni criminali che si sono aggiornate rispetto a coppola e lupara, dimostrando maggiore determinazione e lungimiranza delle imprese dell’economia “legale” che ne inseguono i format tentando di mutuarne il successo di penetrazione, a cominciare da banche e multinazionali profittevolmente convertite ai ricatti e alle intimidazioni del racket, o che in alcuni casi provvedono a stabilire rapporti di collaborazione.
Perché è facile intuire che le mafie preferiscono “l’ordine“, per quello repressivo e limitativo dei diritti poi vanno proprio matte, perché alimenta una insicurezza e una instabilità che rendono labili i confini di quello che è giusto e ingiusto, tra male e bene, tra legittimo, legale e illegale.
A nessun osservatore dovrebbe sfuggire che un nuovo lockdawn è provvidenziale per quelle “imprese” dalla camorra a Amazon, talmente strutturate e attestate sul mercato da superarne gli effetti senza danno e addirittura trarre giovamento dalla cancellazione di interi comparti e attività minori. E che le nuove povertà indotte dalla pandeconomia hanno creato nuovi target da “strozzare” con più maestria degli usurai bancari, finanziari ed europei.
E che così diventa ancora più semplice l’acquisizione di aziende in via di fallimento o già finite, da rilevare o liquidare per sgombrare il campo da una molesta concorrenza, proprio come certe multinazionali diversamente “legali” attive sul nostro territorio.
Per carità, è inevitabile pensare che ieri la Napoli che non piace a chi pensa che debba essere testimoniata dalla nuova retorica patinata di un certo cinema e di una certa musica (in un film i riottosi protagonisti se la prendono con l’epica bassoliniana di Napoli ha da cagna’, ricorrendo a un po’ di vernice sulle rovine invece di andare ai mali: disoccupazione, speculazione, spazi offerti alla malavita dalla demolizione dell’istruzione) fosse in piazza a far casino, che in mezzo alla ciurmaglia ci fosse anche un po’ di manovalanza dello spaccio impedita negli straordinari notturni, qualche provocatore della destra che si “destreggia” e si accredita sugli spalti, nelle “bande” delle stese, tra i senzatetto e i disoccupati.
Come è inevitabile che succeda da quando sfruttati e sommersi sono rimasti inascoltati, emarginati, conferiti a rendere ancora più brutte e invivibili periferie già brutte e invivibili.
Ma possiamo star certi che alla Napoli di Posillipo, ai pendolari della casa di Capri, così come a quel ceto che si sente al sicuro nelle sue tane piccoloborghesi, vantando referenze culturali, sociali e dunque morali e rivendicando la sua superiorità che deve essere tutelata dal nuovo ordine sanitario insieme alla sua salute, ecco a quelli non incute paura la teppa per difendersi dalla quale invoca l’esercito e le ronde private.
A loro fa paura perfino vedere le foto su Instagram, il deflagrare di quei fermenti dei margini, il premere incollerito della povera gente, cui riserva il dovuto disprezzo, che siano operai o gestori di locali dove hanno passato le loro serate dando famigliarmente del tu al cameriere, commercianti o artigiani dai quali non hanno mai preteso la ricevuta, negando loro la parola e la difesa.
Fanno loro paura perché si sta rivelando che la scontentezza e la rabbia non sono più un monopolio di Pappalardo o Montesano, che era così facile ridicolizzare, che l’opposizione pericolosa non è il buzzurro Salvini comodamente incaricato di incarnare il Male assoluto.
Perché adesso comincia a incazzarsi il vicino di casa che non sa come pagare mutuo e affitto e scomparirà in una borgata dalla quale potrebbe riemergere come un’inquietante minaccia, il pizzicagnolo sotto casa ridotto a fare consegne per Glovo.
Sono così impermeabili alla ragione che non si accorgono che potrebbero finire come loro, che l’ambito smartworking salvavita procurerà licenziamenti e riduzioni in busta paga, che già si guarisce di Covid ma si muore d’altro senza cure, che il potere d’acquisto scenderà, che ormai tutto è proibito salvo il lavoro.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento