20/10/2020
USA - Chi vincerà le elezioni
“L’America era stata disegnata per essere una repubblica, non una democrazia”. (John Yoo)
Gli Stati Uniti entrano nel vivo del processo elettorale e nulla fa pensare che l’oliata macchina della democrazia “a stelle e a strisce” possa funzionare come un tempo.
Lunedì 19 aprile è stata la Florida ad inaugurare la possibilità di votare direttamente ai seggi in anticipo e sarà seguita da altri Stati.
Le precedenti elezioni statunitensi erano state vinte da Donald Trump sebbene Hilary Clinton avesse ottenuto più voti.
Trump aveva perso il voto popolare con quasi 63 milioni di voti, contro i quasi 66 di Hilary, cioè il 45% dell’attuale presidente contro il 48% della sfidante democratica uscita vincitrice dalle primarie del partito su Bernie Sanders.
Con 2,7 milioni in voti in meno, Donald Trump è diventato l’inquilino della Casa Bianca.
Un apparente paradosso che mostra la prima “stortura” del sistema di rappresentanza negli USA che garantisce ad ogni Stato – qualsiasi sia il numero dei suoi abitanti – due “grandi elettori” per il Senato più un numero di eletti proporzionale agli abitanti alla Camera.
La soglia per vincere le elezioni è quella di 270 eletti su 538 alla Camera.
È una eredità – come la Corte Suprema – di un sistema basato sull’equilibrio dei poteri, con una architettura frutto del compromesso costituzionale tra Stati possessori di schiavi e non, avvenuto più di 230 anni fa.
Un sistema di check and balance che al Senato, nell’attuale congiuntura, favorisce i repubblicani tradizionalmente radicati negli Stati meno popolati, rurali e conservatori.
La California, con i suoi 39,5 milioni di abitanti, al Senato conta quanto il Wyoming che ne ha 580 mila.
Il processo elettorale, già di per sé complicato, è reso ancora più difficile dalla situazione pandemica.
Questa ha costretto a spostare la campagna elettorale dai comizi veri e propri al piano della comunicazione televisiva, in cui a farla da padrone è la capacità di acquistare spazi pubblicitari.
L’emergenza sanitaria – 47.601 nuovi contagi il 18 ottobre, cioè il 30% in più di due settimane fa – amplierà senz’altro il voto per corrispondenza in anticipo, su cui vigono regole differenti per singolo Stato in un quadro notevolmente frammentato.
Vista l’importanza che assumerà in questa tornata elettorale, e la sua complessità – si tratta di un vero “rompicapo” per i non-addetti ai lavori – occorre spiegare come avviene il voto per corrispondenza nei singoli Stati.
Innanzitutto – secondo un sondaggio pubblicato dal Washington Post e l'emittente ABC – sono per lo più repubblicani coloro che sceglieranno di recarsi alle urne il 3 novembre (il 64% contro il 32% di coloro che hanno dichiarato che voteranno Biden), mentre chi ha votato o voterà per posta o in anticipo ha affermato in maggioranza che sceglierà lo sfidante democratico (70% contro il 26%).
Nel 2020, 9 Stati più il distretto della Columbia (la capitale Washington) hanno fatto la scelta di inviare automaticamente i bollettini di voto per posta a tutti gli iscritti alle liste elettorali. Solo 5 Stati l’avevano fatto in precedenza. Tranne lo Utah sono tutti “Blue State”, cioè tradizionalmente democratici.
In 36 Stati gli elettori devono fare richiesta senza fornire spiegazioni, mentre in 5 viene richiesto di fornire un motivo accettabile per giustificare il fatto di non recarsi alle urne.
Questi ultimi 5 Stati che di fatto disincentivano la partecipazione al voto sono tutti “Red State”, cioè tradizionalmente repubblicani: Indiana, Louisiana, Mississippi, Tennessee e Texas.
Metà degli Stati considereranno validi i bollettini di voto arrivati entro e non oltre il 3 novembre, mentre per l’altra metà farà fede il timbro dell’United States Postal Service – il servizio postale nord-americano – considerando validi e quindi conteggiati i bollettini che arriveranno anche dopo l’Election Day.
Un ritardo che in alcuni casi può raggiungere le tre settimane.
Questi Stati costituiscono i 2/3 dei “grandi elettori”, cioè il 66% degli eletti.
Ma i conteggi differiscono ulteriormente ed in 20 Stati potranno iniziare prima del 3 novembre, tra questi alcuni Stati-chiave, fondamentali nel 2016 per l’elezione di Trump: Florida, Arizona, Carolina del Nord, Ohio. Mentre nei tre “Swinging State” – Michigan, Pennsylvania, Wisconsin – lo sfoglio non potrà che iniziare dopo la chiusura dei seggi.
Tutto questo fa supporre che la chiusura delle urne non coinciderà affatto con la conoscenza del responso elettorale. Visto e considerato questo ginepraio di regole, non proprio concepito per incentivare la partecipazione, non è peregrino pensare che possano esserci contenziosi che aumentano il livello di insicurezza sull’esito del voto.
Vent’anni fa George W.Bush venne eletto dopo che la Corte Suprema – uno dei tre perni del potere politico statunitense – interruppe l’interminabile conta dei voti.
La media dei sondaggi monitorati dal New York Times dà Biden avanti di 10 punti – il più prudente, e britannico, Financial Times, che si affida a RealClear Politics, 9 punti – con lo sfidante democratico in grado di minacciare potenzialmente addirittura alcuni Stati che sono in genere punti di forza dei repubblicani.
Ma l’incertezza regna sovrana anche perché Trump non ha mai dichiarato esplicitamente che accetterà l’esito delle urne e le undici settimane che separano l’Election Day dalla presa in carica ufficiale non aiutano. Non è detto che ci debba essere una transizione pacifica o quanto meno non traumatica dei poteri.
Le milizie dell’alt-right potrebbero intervenire in una situazione di incertezza, come stanno facendo sempre più spesso su input di Trump, che infatti non si sogna di prenderne le distanze, neanche quando sono stati scoperti i piani avanzati per il sequestro di una governatrice – Gretchen Whitmer, del Michigan – colpevole di avere imposto misure troppo strette per contenere il contagio!
Un altre elemento rilevante è la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, con 3 membri su 9 nominati da Trump durante la sua amministrazione, tra cui l’ultima in ordine di tempo l’ultra-religiosa Amy Coney Barret, membro di People for Praise; 6 membri su 9 (il numero non è fissato da alcun codice legislativo) sono cattolici.
Bisogna ricordare che la Corte Suprema è stata determinante in passato nei casi di incertezza sull’esito del voto. Al di là della possibile sconfitta di Trump, essendo composta di membri incaricati “a vita”, deciderà su una serie rilevante di questioni per i tempi a venire, ipotecando non di poco le possibili scelte di Biden.
Ultimo ma non meno importante: il criterio di selezione del presidente, se non emergesse un verdetto chiaro, potrebbe favorire i repubblicani.
In quel caso – lo ha ricordato l’Associated Press – la Camera voterebbe per Stato e non per rappresentanti, con 26 Stati che sarebbero determinanti per il voto: nessuna autorità indipendente o federale convalida infatti i risultati nelle ore che seguono la chiusura delle urne elettorale!
Lo scorso anno la docente di diritto a Georgetown, Rosa Brooks, ha costituito un gruppo chiamato Transition Integrity Group per dare vita a simulazioni sullo stile dei “war games” sui possibili esiti di una ipotetica contesa sui risultati elettorali. In tutti gli scenari prefigurati, solo in un caso non porta alla conflagrazione degli Stati Uniti: un crollo di Joe Biden.
In questo quadro di imprevedibilità, la campagna elettorale si è concentrata sugli “Swinging State”; quelli dove l’esito del voto è più incerto ed il numero degli eletti è elevato, per la propaganda politica televisiva è stato spesa finora una cifra già tre volte superiore rispetto alle elezioni precedenti – 1,5 miliardi di dollari – con Biden che distanzia di parecchie lunghezze l’attuale presidente, in particolare proprio in questi Stati.
La Florida è lo Stato in cui i due sfidanti hanno speso di più, ma anche Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, dove Trump si aggiudicò la vittoria per una manciata di voti.
La differenza tra lui e la candidata democratica in quegli Stati, nel 2016, era irrisoria: rispettivamente 0,3% (cioè meno di 10 mila voti di differenza), 0,7% (meno di 45 mila) e ancora 0,7% (poco più di 20 mila voti).
In Florida, il successo dell’attuale presidente era stato un poco più netto, con il 48,6% contro il 47,4%, con più di 110 mila voti di differenza.
In sintesi, meno di 200 mila voti, concentrati negli Stati “giusti”, avevano deciso la partita.
Anche Texas ed Arizona rappresentano dei fattori d’incertezza, nonostante siano tradizionalmente “red state”, per il cambiamento nella composizione etnica dei votanti. Qui i latinos – prima “minoranza etnica” per abitanti e votanti, avendo superato gli afro-americani – hanno assunto un peso maggiore.
I latinos nel complesso sono un raggruppamento non omogeneo, sia per collocazione (urbana o rurale), sia per orientamento elettorale e vivono per 2/3 in 5 stati: California, Texas, Florida, New York, e Arizona.
Ma i loro voti sono importanti anche nei tre Swinging State dove le elezioni presidenziali si decisero per 77.744 voti; la Pennsylvania ha 521 mila potenziali elettori latinos, 261 mila il Michigan e 183 mila il Wisconsin.
Durante le primarie, in alcuni Stati Bernie Sanders aveva fatto il pieno di voti tra di loro, in specie tra i più giovani, mentre in Florida un terzo degli ispano-americani è di origini cubane e tradizionalmente filo-repubblicana.
Secondo le statistiche, lo scorso anno erano diventati 60 milioni – di cui poco meno di un terzo con meno di 18 anni – cioè 24 milioni in più che nel 2000.
Secondo i sondaggi, le tre principali preoccupazioni dei latinos sono la pandemia, l’assicurazione sanitaria e, ben distanziata, l’immigrazione.
La pandemia non a caso è stato l’argomento principale della campagna pubblicitaria di Biden, che ipoteticamente può contare sul loro voto, specie fra i più giovani e le donne, ed è in generale certo di fare incetta di voti afro-americani.
I repubblicani al potere hanno cercato in tutti i modi quest’anno di annullare il voto afro-americano – nel 2016 solo l’8% votarono per Trump – cancellandoli dalle liste elettorali, sopprimendo seggi, imponendo criteri restrittivi nei confronti degli ex-detenuti, come in Florida, di fatto invertendo – grazie ad una decisione della Corte Suprema – una delle maggiori conquiste del periodo dei diritti civili, il Voting Rights Act del 1965, che aveva dato piena cittadinanza politica ai “Neri” sopprimendo le pratiche elettorali degli Stati segregazionisti ex-Confederati.
Sullo sfondo di una tripla crisi: sanitaria, economico-sociale e di legittimità politica, si stanno svolgendo le elezioni di quella che era la prima potenza mondiale oggi in declino.
Forse solo un periodo può sembrare più cupo, per il sogno americano: quando ad un anno dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt, che traghetterà poi gli USA dalla Grande Crisi del ’29 al New Deal e poi alla partecipazione e la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, circa 100 mila cittadini nord-americani fecero richiesta per lavorare nell’URSS.
Per tornare alla metafora iniziale dell’oliata macchina che sembra in panne, occorre ricordare che, come dice l’adagio, se le cose non si possono aggiustare, probabilmente si romperanno...
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