di Domenico Moro
Nel recente incontro dell’Eurogruppo, l’organismo informale che riunisce i ministri delle finanze dell’area euro, è ripresa la discussione sulla possibile modifica delle regole europee che stabiliscono la gestione del deficit e del debito pubblico, in particolare quelle del Patto di stabilità e del Fiscal compact. Si era cominciato ad affrontare il tema nel 2019, ma lo scoppio della pandemia ha interrotto la discussione, anche perché le regole di bilancio europee sono state sospese per permettere agli Stati nazionali e alla Ue di mettere in campo robuste misure di stimolo fiscale, cioè di spesa statale, per contrastare la crisi. La questione della ridefinizione del Patto di stabilità e soprattutto del Fiscal compact si pone anche perché alla fine del 2022 saranno reintrodotte le regole che impongono agli Stati di tenere sotto controllo il debito pubblico e c’è la preoccupazione che la reintroduzione dei vincoli possa minare la ripresa economica.
Il Fiscal compact fu introdotto nel 2012, all’epoca della crisi dei debiti sovrani, per rendere più stringenti le regole europee, che prevedono il mantenimento del rapporto tra deficit pubblico e Pil ad un livello non superiore al 3% e del rapporto tra debito pubblico e Pil a un livello non superiore al 60%. Questi vincoli non sono il frutto di precise analisi economiche, ma il risultato di calcoli politici. Il limite del 3% al deficit fu adottato sulla falsariga dell’esperienza della Francia, dove era stato frutto di semplice convenienza politica. Si pensava che un deficit non superiore al 3% e una inflazione non superiore al 2% (obiettivo statutario della Bce) in presenza di una crescita del 2,5% annuo avrebbe consentito di convergere verso l’obiettivo del debito pubblico al 60%. Ma, come si è visto negli ultimi decenni, la crescita del 2,5% si è dimostrata un obiettivo illusorio nell’area euro. Lo stesso limite del 60% nasce sulla base di calcoli bizzarri che nulla hanno a che fare con una analisi economica seria.
Su questo sono significative le parole di Gentiloni, ex premier italiano e attuale commissario all’economia della Commissione europea, un politico non certo sospettabile di avversione all’euro o alla Ue. Gentiloni ha affermato nell’ultima riunione dell’Eurogruppo che bisogna “fare i conti con la realtà” e che il vincolo del 60% rappresenta “un livello che non ha giustificazioni economiche. Fu stabilito perché la media dei debiti dei 12 Paesi, 30 anni fa, all’epoca di Maastricht era intorno al 60%.” Gentiloni ha poi preso di mira la regola secondo cui chi supera il 60% del Pil dovrebbe ridurre di un ventesimo all’anno la quota eccedente, affermando che “Pensare di mantenere la stessa regola significherebbe ipotizzare percorsi di riduzione del debito irrealistici, 30 anni di avanzi primari inimmaginabili; passare i prossimi anni a cercare di aggirarla.”
Sui vincoli al debito si sono espresse criticamente anche due figure che nel 1991 prepararono il vertice di Maastricht, che per la prima volta definì le regole europee sul bilancio degli stati, Marco Buti, ora capo di gabinetto di Gentiloni, e Vitor Gaspar, già ministro delle finanze portoghese e ora direttore del Fondo monetario internazionale per le questioni di bilancio. I due economisti hanno scritto recentemente su Vox Eu: “Le regole e le procedure di Maastricht, insieme al patto di stabilità non hanno evitato le crisi dei debiti sovrani e le ricadute sulla stabilità finanziaria nell’area euro. Si verificarono entrambe all’indomani della crisi finanziaria globale: la disciplina di bilancio non funzionò, troppo lenta e troppo debole prima, troppo improvvisa e dirompente dopo.”
Quello che si vuol dire è che l’Ue non può permettersi che si ripeta quanto accaduto nella crisi dei debiti sovrani tra 2010 e 2013 quando si realizzò il crollo degli investimenti pubblici netti nell’Eurozona. I vari Stati, per rispettare il limite del 3% al deficit statale, scelsero di tagliare gli investimenti piuttosto che la spesa corrente. In questo modo, si è favorita la disciplina di bilancio, ma non la creazione di stimoli in grado di contrastare la crisi. Il risultato di queste scelte è stato l’approfondimento della crisi e il ristagno della crescita, specialmente in Italia. Ora, ci troviamo in una situazione diversa. La crisi attuale è stata affrontata non con la disciplina di bilancio ma con l’espansione della spesa pubblica, che ha fatto lievitare il deficit e il debito pubblico di tutti gli Stati europei. Nel 2020 il debito pubblico italiano è salito dal 134% dell’anno precedente al 155,8% e il deficit dall’1,6% al 9,5%. Quest’anno, il debito medio dell’area euro è salito al 102% sul Pil con punte del 160%, come nel caso dell’Italia. Il pericolo è, quindi, che il ripristino delle regole europee a fine 2022 provochi una nuova ricaduta nella crisi come durante il periodo della crisi dei debiti sovrani, in un contesto, per di più, in cui l’evoluzione della pandemia non è ancora certa e le economie non si sono ancora riprese completamente, senza contare che, per la verità, in molti Paesi come l’Italia la crescita è stata asfittica anche prima dell’emergere della pandemia.
In questo quadro, si delinea una contraddizione tra la necessità di mantenere lo stimolo fiscale, unitamente allo stimolo monetario (di competenza della Bce), e la volontà di comprimere i debiti pubblici. Per questa ragione si sta definendo uno scontro tra due gruppi di Paesi all’interno dell’area euro. Uno di questi raggruppamenti è costituito dai cosiddetti “frugali”, otto Paesi, tra cui l’Olanda, l’Austria e la Finlandia, che il giorno prima della riunione dell’Eurogruppo hanno resa pubblica una lettera in cui mettono le mani avanti rispetto alla volontà di modificare le regole europee, che serpeggia all’interno dell’area euro: “Le semplificazioni e gli adattamenti che promuovono una migliore applicazione delle regole di bilancio valgono la pena di essere discussi, ma solo se le proposte non mettono a rischio la sostenibilità di bilancio.” Dall’altra parte, troviamo altri Paesi, come l’Italia, la Spagna e la Francia, che vogliono modificare le regole sulla disciplina di bilancio. In pratica, mentre i primi chiedono che nel 2022 si torni alle regole attuali, prima di eventualmente cambiarle, i secondi chiedono invece di utilizzare quest’anno per cambiarle. I primi fanno riferimento al vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, i secondi a Gentiloni.
A questo punto bisogna capire come i “riformatori” intendono modificare le regole di bilancio europee. Gentiloni a tal proposito si è espresso nel modo seguente: “Dobbiamo trovare il modo per una diversa contabilità degli investimenti nelle due grandi transizioni, climatica e digitale.” La proposta dei “riformatori” sarebbe quella di introdurre più gradualità nella riduzione del debito e soprattutto una cosiddetta golden rule, una regola d’oro basata sull’esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit pubblico. In questo modo, gli Stati potrebbero spendere per sostenere l’economia. Per convincere i “frugali” ad accettare la modifica i “riformatori” offrirebbero in cambio maggiore certezza nell’applicazione delle regole di bilancio, ovvero garanzie reali e vincolanti di rispetto degli impegni sui conti pubblici.
Innanzi tutto bisogna capire se una tale “riforma” è possibile e se sì a chi porterà giovamento. Le modificazioni alle regole sul bilancio pubblico possono essere attuate solamente se la Germania e la Francia sono d’accordo. Molto importante è la posizione della Francia. Alla riunione dell’Eurogruppo, il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ha caldeggiato la “riforma”, dicendo che “dobbiamo riflettere fuori dagli schemi”. La Germania invece è molto cauta. Pur non avendo firmato la lettera dei “frugali”, il ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz, ha detto: “Abbiamo un buon quadro di bilancio per la stabilità in Europa e quest’ultimo ha dimostrato, soprattutto durante la crisi, di avere passato il test riguardante la pandemia.” Il ministro Le Maire ha risposto al suo omologo tedesco: “La cooperazione franco-tedesca è stata finora eccezionale. Non ho dubbi che grazie ai nostri scambi giungeremo a una posizione comune”. A quanto sembra, la Germania propenderebbe per mantenere lo status quo, sostenendo che le regole vigenti funzionano e mandando avanti, senza esporsi direttamente, i Paesi Bassi e gli altri “frugali”, come accaduto nel passato. D’altro canto, è importante la presa di posizione della Francia, l’unico attore europeo che può spingere la Germania verso un compromesso. Del resto, l’obiettivo dei frugali e della Germania è quello di avere una regola di riduzione del debito credibile, visto che quella attuale è chiaramente inattuabile per diversi stati (e capitali) nazionali. Le parole del “falco” Valdis Dombrovskis sono significative: “Poiché i livelli di debito sono aumentati e le divergenze si sono ampliate ulteriormente, dobbiamo avere una regola di riduzione del debito credibile e che funzioni per tutti gli stati membri.” Dunque, lo scambio tra scorporo degli investimenti dal calcolo del deficit e una maggiore garanzia sulla riduzione del debito ha buone probabilità di essere portato a compimento.
Apparentemente quella dei “riformatori” sembra essere una soluzione valida, ma in realtà nasconde un chiaro interesse di classe. Infatti, se gli investimenti venissero scorporati dal computo del debito e del deficit, a essere compresse, per determinare una riduzione del deficit e del debito, sarebbero le spese correnti. Del resto, a livello di spesa pubblica il peso infinitamente maggiore è esercitato dalle spese correnti, che sono passate dal 45,2% sul Pil del 2019 al 51,8% del 2020 (al netto degli interessi sono il 48,4%), mentre le spese in conto capitale, che comprendono gli investimenti, ammontano appena al 5,5%, in crescita rispetto al 2019 (3,5%). In termini più chiari, a essere aumentate sarebbero le spese che vanno al capitale, mentre a essere ridotte sarebbero le sole spese che vanno alla classe lavoratrice e ai disoccupati. Le spese per investimenti (mezzi di produzione e trasporto, macchinari, infrastrutture, armamenti, ricerca e sviluppo, ecc.) riguardano sia gli investimenti diretti sia quelli indiretti. Gli investimenti diretti riguardano gli acquisti dalle imprese di beni durevoli acquisiti dalla Pubblica amministrazione per essere utilizzati in processi produttivi per un periodo superiore all’anno. Gli investimenti indiretti sono le sovvenzioni dalla Pubblica amministrazione alle imprese. Invece, le spese correnti riguardano solo in parte acquisti di beni e servizi dalle imprese e comprendono le spese che vanno ai salari (in specie quelli dei dipendenti pubblici), alle pensioni e al welfare cioè al salario differito e indiretto di tutti i lavoratori. Gli investimenti diretti e indiretti oggi riguardano il “grande reset” del capitalismo, che ha a che fare con la digitalizzazione e con la transizione verde, come prevede il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Infatti, rientrano negli investimenti anche i sussidi e i trasferimenti alle imprese per il loro ammodernamento sia dal punto di vista dei mezzi di produzione e dei metodi di produzione sia dal punto di vista dei beni prodotti, soprattutto per quanto riguarda la digitalizzazione e la sostenibilità ecologica. È significativa, a questo proposito, la presa di posizione della Francia, il cui ministro delle finanze, Le Maire, ha notato come gli investimenti siano necessari per rafforzare la stessa autonomia strategica dell’Europa. Ad esempio, la Francia sta premendo, attraverso Renault e Stellantis (il megagruppo nato dalla fusione di Fca e Peugeot) per la costruzione di impianti di batterie per auto situati sul territorio europeo e un impianto di Stellantis è previsto che sia costruito proprio in Italia.
Per leggere la riforma del funzionamento della Ue dobbiamo leggere la fase che attraversa il modo di produzione capitalistico. La crisi attuale, infatti, non può essere ascritta unicamente alla pandemia ma ha origine più antica ed è causata, in ultima istanza, dalla tendenza di lungo periodo alla caduta del saggio di profitto, a sua volta originata dall’aumento della composizione organica, cioè da un eccesso di investimenti in capitale costante (macchinari, materie prime, ecc.) rispetto al capitale variabile, cioè alla forza lavoro occupata. Una tale “sovraccumulazione di capitale” si è manifestata soprattutto in Europa, in Giappone e negli Usa, cioè nei Paesi di più antico sviluppo capitalistico. In Europa la crisi si è manifestata con maggiore forza. Qui, la caduta della redditività del capitale ha prodotto una contrazione degli investimenti privati che, sommata alla riduzione degli investimenti pubblici, ha determinato l’obsolescenza relativa del sistema produttivo e un arretramento delle economie di diversi Paesi e della Ue nel suo complesso nei confronti dei concorrenti più immediati, gli Usa e soprattutto la Cina, che stanno lottando per il predominio in molti settori industriali, specie quelli posti alla frontiera tecnologica, che richiedono massicci investimenti iniziali. La riforma delle regole europee manterrà intatta e anzi accentuerà la natura anti-lavoro salariato e funzionale all’accumulazione capitalistica della Ue e dell’euro. Da una parte, il salario complessivo (soprattutto quello indiretto e differito) verrà ridotto e, dall’altra parte, l’investimento di capitale a spese degli Stati e della Ue nel suo complesso ridurrà la spesa a carico delle imprese. In questo modo, cioè riducendo, da una parte, il costo dell’accumulazione di nuovo capitale fisso e, dall’altra parte, il costo del lavoro, si tenterà di rialzare il saggio di profitto. Nello stesso tempo, con gli investimenti in settori innovativi, si darà respiro alle imprese e al capitale europeo nel suo complesso fornendogli sostegno nella competizione interimperialista, cercando di inserire la Ue come terzo attore tra Usa e Cina. In pratica, è evidente che il capitale, come rapporto di produzione complessivo, non può sussistere senza l’aiuto dello Stato.
L’introduzione delle regole europee sul bilancio rispondeva a una logica molto precisa e razionale dal punto di vista capitalistico: mantenere la classe lavoratrice sotto scacco e privatizzare massicciamente il sistema produttivo favorendo le tendenze antagonistiche alla caduta del saggio di profitto e la realizzazione di una maggiore centralizzazione di capitale che porti alla creazione di imprese di dimensioni mondiali. La riforma delle regole di bilancio, per come si sta configurando, sarebbe soltanto una ridefinizione dei rapporti di forza tra frazioni nazionali di capitale. Una tale riforma, promossa dal capitale europeo, non può che essere in linea con la logica iniziale che ha portato alla formazione dell’Ue e dell’euro, portando anzi – come abbiamo cercato di dimostrare – un peggioramento per tutti i lavoratori, sia quelli pubblici sia quelli privati. L’unica proposta realistica, per quanto complessa e difficile sia la sua attuazione, è l’eliminazione dell’intera architettura dell’Ue e dell’euro. La “questione europea”, passata in secondo piano con l’acuirsi della pandemia, deve ritornare a ricoprire il ruolo che merita nel dibattito politico nazionale e internazionale e soprattutto all’interno di una strategia politica di lotta contro il capitale e per il socialismo.
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