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24/09/2021

Stato-mafia. La “Trattativa” c’è stata ma non è un reato

La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ci ha messo tre giorni di camera di consiglio per emettere la sentenza di assoluzione nel processo di secondo grado sulla “Trattativa” tra Stato e mafia. La sentenza rovescia e annulla le condanne emesse nel primo processo e rimette il nostro paese di fronte alla ripetuta contraddizione tra verità giudiziaria e verità storica.

Il 20 aprile del 2018, nel processo di primo grado, i giudici di Palermo avevano condannato a dodici anni di carcere gli alti ufficiali dei Carabinieri Mori e Subranni. Altrettanti per l’ex senatore di Forza Italia Dell’Utri e per il medico Antonino Cinà, otto anni di condanna per l’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto anni per il boss mafioso Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.

Tre anni dopo per i giudici palermitani Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia, “non ha commesso il fatto”. E sono “assolti perché il fatto non costituisce reato” i tre ex alti ufficiali del Ros dei Carabinieri. È stata invece confermata la condanna a 12 anni per il medico di Riina, mentre a Bagarella è stato scontato un anno perché la minaccia al primo governo Berlusconi è stato riqualificata in tentata minaccia.

Certo, tutti adesso affermano di dover leggere le motivazioni, ma quelle esposte in aula ieri una cosa la dicono chiaramente: la trattativa Stato-mafia c’è stata ma non è da considerarsi un reato penalmente rilevante.

Assolvere gli ufficiali dei carabinieri con la formula “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è stato (la trattativa appunto) ma senza dolo. L’accusa era di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e 1993 – Amato e Ciampi – la minaccia stragista dei mafiosi.

Per la corte di Palermo i Carabinieri Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con la famiglie mafiose ma senza intenzione di commettere un reato. Ed è curioso perché se sul versante dello Stato (i Carabinieri) il fatto non costituisce reato, per il medico di Totò Riina, Cinà è stata invece confermata la condanna di primo grado con l’accusa di aver fatto da postino del famigerato papello, cioè il foglio su cui erano scritte le richieste avanzate da Totò Riina per far cessare le stragi, e quel foglio di carta era destinato ai carabinieri, cioè era l’oggetto della trattativa.

Una contraddizione della sentenza che non sfugge all’ex magistrato palermitano Antonio Ingroia secondo cui “Da una parte la Corte d’appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall’altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c’è stata e che non è una bufala. Aspettiamo di leggere le motivazioni, ma una sentenza così è difficile da spiegare: solo se fossero stati tutti assolti sarebbe stato ribaltato il giudizio di primo grado con la conseguenza di riconoscere l’assenza della trattativa” – afferma Ingroia in una intervista all’Adnkronos“Invece la condanna di Cinà conferma il papello e il suo arrivo a destinazione. La minaccia nei confronti dello Stato ci fu. Quindi questa sentenza conferma la trattativa, mentre esclude la responsabilità personale degli imputati condannati come tramite nel processo di primo grado”.

Non abbiamo bisogno di aspettare le motivazione della sentenza per riaffermare una valutazione su questi grandi processi che nei decenni trascorsi hanno chiamato in causa le responsabilità dello Stato, uno tra tutti quello per la strage di Piazza Fontana.

Restiamo convinti e intendiamo agire affinché questo diventi un punto di vista tra le nuove generazioni, ossia che la verità giudiziaria non corrisponderà mai alla verità storica e neanche potrà sostituirla.

Come affermò il giudice Salvini davanti alla Commissione parlamentare sulle stragi, i magistrati per procedere hanno bisogno di prove concrete e testimoni in vita. Pur davanti a evidenze sul piano delle conseguenze politiche e materiali, con il lungo passare del tempo spesso nei tribunali queste diventano irrilevanti. Ragione per cui le sentenze fotografano quelle rilevanze alla luce del contesto in cui vengono emesse. E se un’azione era stata definita come un reato in un contesto, quando cambia il contesto quel reato si relativizza e talvolta scompare.

La sentenza del secondo processo per la strage di Piazza Fontana è stato un capolavoro di questo rovesciamento, arrivando alla conclusione che i colpevoli della strage non erano quelli imputati nel secondo processo ma quelli assolti nel primo processo. Non potendo essere processati una seconda volta per lo stesso reato, per piazza Fontana non c’è nessun colpevole. Praticamente una lapide posta sopra a qualsiasi velleità di ottenere una verità giudiziaria su quella strage. Ma sul piano della verità storica e politica i fatti, le responsabilità, le conseguenze non hanno bisogno di alcun tribunale per essere individuate e condannate.

Sulla Trattativa Stato-mafia, come sottolineato da Ingroia, la contraddizione è piuttosto evidente: il fatto al centro del processo è avvenuto (la Trattativa), ma nel 2021 non è da considerarsi un reato. Dal punto di vista giudiziario è una lapide, ma dal punto di vista storico e politico è la conferma che lo Stato ha trattato con la mafia e lo ha fatto dopo essersi sistematicamente rifiutato di farlo con le organizzazioni combattenti nel ventennio precedente in nome della “fermezza”.

È la conferma che la mafia era parte del sistema e con la trattativa è stata legittimata a farvi parte quasi alla luce del sole, rinunciando al suo aspetto più violento e coercitivo per assumere quello più rispettabile dei “colletti bianchi”.

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