Notiziona: i socialdemocratici tedeschi (elezioni politiche il prossimo 23 settembre) propongono come ricetta per uscire dalla crisi del Covid:
1) la fine dell’austerity;
2) una tassa patrimoniale sui super-ricchi;
3) l’aumento del salario minimo a 12 euro.
E così attuale ministro delle Finanze e candidato cancelliere, Olaf Scholz, vola nei sondaggi – tanto da aver superato i conservatori – e si è intestato la battaglia.
Invece, in Italia, abbiamo un capo del governo garante dell’austerity, dei trattati UE, del “libero mercato” e della finanza internazionale, che non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di fare una tassa sui patrimoni che, peraltro, era già stata bocciata durante il governo Conte con 19 sì, 6 astenuti e 462 contrari.
Una maggioranza bulgara con cui la Camera aveva seppellito l’ultimo tentativo di inserire la patrimoniale nella legge di bilancio anche come pura espressione d’intenti: si trattava, infatti, di un ordine del giorno – atto di indirizzo privo di effetti immediati – che impegnava il governo “ad inserire in prossimi provvedimenti legislativi una riforma delle imposte patrimoniali vigenti”.
Mentre fu proprio il segretario della CGIL Landini, insieme agli altri due beccamorti di Cisl e Uil, ad alzare le barricate contro la stessa possibilità che venisse approvata, nel nostro paese, una legge che introducesse almeno uno straccio di salario minimo visto che è già presente in 21 stati dell’Unione Europea.
Lo hanno fatto in nome del potere della “contrattazione”, ovvero, della difesa del ruolo di interdittori principali delle politiche economiche del governo ed a tutela dei loro costosi e mastodontici apparati burocratici votati, ormai, esclusivamente alla propria autoriproduzione, i cui funzionari saltano quotidianamente da una riunione di cogestione dei sistemi di potere nazionali e locali ad una seduta (pagata) in un ente bilaterale e, se ci scappa, anche ad una assemblea di promozione di nuove polizze assicurative rese obbligatorie dai contratti stessi, in primis, le famigerate pensioni integrative e sanitarie.
Una posizione che, alcuni decenni fa, addirittura Pierre Carniti definì sciocca perché, diceva, “prima del riconoscimento del ruolo delle organizzazioni sindacali vengono i risultati“, aggiungendo che “se sarà una legge a trascinare in alto i salari, ben venga quella legge“.
Mentre Carniti diceva queste cose, CGIL, CISL e UIL preparavano insieme al governo Ciampi l’accordo del luglio 1993 tra sindacati, governo e padroni seguito alla decisione dell’associazione degli industriali di dare disdetta unilaterale alla scala mobile, il meccanismo che adeguava automaticamente il salario all’inflazione.
Quello sciagurato accordo sanciva il criterio della “concertazione tra le parti sociali” e dava il via alla “politica dei redditi“.
Protagonisti di quell’accordo furono Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio e Gino Giugni, ministro del Lavoro; i sindacati CGIL, CISL e UIL rappresentati da Bruno Trentin (anche per lui tanti strani nostalgici, ma che ebbe almeno il pudore di dimettersi subito dopo la firma), Sergio D’Antoni e Piero Larizza; Luigi Abete per la Confindustria.
Il risultato di quell’accordo “storico” fu la progressiva compressione di salari e stipendi, che precipitarono agli ultimi posti della media europea proprio mentre i profitti aumentavano esponenzialmente.
Una linea mantenuta per quasi trent’anni che, saldandosi, poi, con il Jobs Act e l’abrogazione dell’articolo 18, ha riportato i lavoratori ai livelli di subordinazione, di sfruttamento e di insicurezza degli anni cinquanta, mentre la media dei salari e degli stipendi italiani, ormai, lambisce drammaticamente la soglia della povertà relativa.
Parafrasando Orson Welles, si potrebbe dire che l’Italia è ancora piena di attori, 60 milioni. Ma quelli più bravi si trovano nei partiti e, soprattutto, nei sindacati complici e collaterali.
Tra questi, spicca uno dei più grandi camaleonti di tutta la storia del sindacalismo italiano: il trasformista per antonomasia, colui che, non molto tempo fa, fu in grado di passare, in soli tre giorni, dall’appello ad occupare le fabbriche contro lo sblocco dei licenziamenti alla firma di un accordo che invece li ha sbloccati praticamente in modo incondizionato.
Eppure l’ex coalizzatore sociale, liquidatore della Fiom e successore alla segretaria della CGIL in piena continuità con Susanna Camusso, continua a conservare uno zoccolo duro di pervicaci followers che lo adorerebbero anche se fosse direttamente a capo della Confindustria.
E lui nei talk continua ad urlare e ad agitarsi come ai tempi della Fiom, solo perché lo sa che piace tanto ai suoi indomabili fans.
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