Frutto di autentico travaglio (la fine di una relazione) o di impeccabile recitazione è lo stesso: comunque sia andata davvero il risultato è spiazzante da un punto di vista emotivo, il meccanismo di identificazione scatta automatico, inesorabile. È anche un generatore di stupore universale di fronte all’ignoto, all’inaudito: niente prima di allora aveva suonato così, esattamente nel mezzo tra sconosciuto e familiare, il punto d’arrivo. Vocals ultrafiltrate fino a diventare urla incomprensibili se non a un livello basico, primordiale, a cui risponde il ricordo del dolore fisico più intenso mai provato; giri di chitarre che suonano come il catalogo di ogni riff mai registrato nella storia della musica elettrica occidentale, compresso e sintetizzato in un assalto frontale riconoscibile e memorizzabile dal primo ascolto, lo stesso per le linee di basso e fino all’ultima delle rullate di batteria.
Brani che sono catarsi in infinite declinazioni, ognuno altrettanto terminale e decisivo, ognuno allo stesso livello di ingestibile intensità, mai sperimentata su disco e soltanto poche volte nei rari momenti in cui la vita diventa importante; con un ultimo supremo scatto di volontà nella traccia finale, che porta il titolo dell’album, dove si arriva per un attimo a intravedere la bellezza assoluta, indiscutibile. Poi di nuovo a faccia in giù a rantolare nel fango; ma per un momento l’intera faccenda ha avuto un senso, immettere ossigeno nei polmoni diventa un gesto sensato, perfino onorevole. Jane Doe è il disco che non può non piacere per eccellenza, talmente perfetto da risultare addirittura frustrante perché irripetibile, irreplicabile. È la fine dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta, il rito di iniziazione che razionalizza la serie di traumi più laceranti subiti lungo la strada: una terapia, il punto fermo a cui tornare come un faro nella tempesta per chiunque abbia perso un affetto, un amore, sia stato segnato per la vita da qualcuno o qualcosa.
Gli effetti, su scala planetaria, sono immediati e irreversibili: il metal diventa una questione rispettabile anche nelle alte sfere, dove fino ad allora ne era stata negata la stessa esistenza, pienamente sdoganato nei circoli che contano, accolto a braccia aperte nelle parrocchiette che determinano il gusto comune, dove viene deciso cosa sia giusto ascoltare, come pensare. Nulla tornerà più a essere com’era, nemmeno per i Converge stessi: consapevoli di avere forgiato una pietra miliare, tempo il successivo You Fail Me, brutto quanto onesto, spietato nella sua imperfezione, e passeranno definitivamente alla cassa con dischi tutti uguali, tour autocelebrativi che sono l’equivalente di entrare in una chiesa durante le feste comandate per un cristiano, Jacob Bannon sempre più svociato, il chitarrista/produttore Kurt Ballou a registrare migliaia di gruppi intercambiabili, strettamente pilota automatico per generare venerazioni a prescindere. (Matteo Cortesi)
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