Sul cambiamento climatico e la “transizione ecologica” si fanno molte chiacchiere, si esibiscono luccicanti distintivi, ma intanto si fanno volare le tariffe.
Soprattutto, non si parla dei problemi enormi che una vera transizione dalle fonti energetiche fossili ad altre – meno inquinanti, ma non del tutto “pulite” – comporta.
Ancor meno, ovviamente, si parla degli interessi contrari che – in regime capitalistico – ostacolano qualsiasi transizione vera e che, a causa dei normali “meccanismi di mercato” sono di fatto dominanti su intenzioni molto pallide e “a favore di telecamera”.
In Europa ne abbiamo avuto un veloce esempio quando Ursula von der Leyen ha annunciato che l’Unione Europea si sarebbe presto data come obbiettivo quello di vietare l’immatricolazione di nuove auto diesel e benzina a partire dal 2035.
Un obbiettivo tutto sommato lontano nel tempo, quasi irrilevante ai fini di ridurre le emissioni climalteranti (resterebbero in circolazione per anni decine di milioni di auto “carbonizzanti”, per non dire del funzionamento del sistema industriale, assai più impattante della circolazione automobilistica), e comunque clamorosamente in ritardo rispetto alle indicazioni proveniente dagli scienziati del settore: meno di dieci anni per non finire in “assetto negativo”, con cambiamenti climatici irreversibili.
Bene, persino questa “modesta proposta” ha ricevuto una sonora pernacchia da parte delle associazioni dei costruttori di auto. Per loro quei tempi sono troppo stretti, metterebbero in discussione i margini di profitto richiedendo investimenti colossali su motorizzazioni diverse (e quali? Elettrico o idrogeno?).
Sul piano globale, però, sembrano ancora più rilevanti gli interessi contrari dei paesi produttori di idrocarburi, autentici rentier – in senso marxiano – cui è stato di fatto fin qui impedito di realizzare un autonomo sistema industriale (dall’uccisione dell’iraniano Mossadeq nel 1953 ai ripetuti attacchi contro il Venezuela oggi) e che dunque sono obbligati a vedere nella “decarbonizzazione” una sentenza di morte.
Un mondo che non va più a gas e petrolio è un mondo dove quei paesi non hanno più entrate, né alternative economiche.
Per i dettagli geopolitici e dinamiche di mercato vi consigliamo un illuminante articolo di Guido Salerno Aletta, apparso su Milano Finanza.
Il ragionamento da fare sulle prospettive della “transizione ecologica” è certamente complesso e vanno ignorate tutte le semplificazioni (anche quelle “ecologiste e di sinistra”, spesso ingenue). Ma appare sempre più evidente come la realtà empirica quotidiana si stia incaricando ogni giorno di dimostrare che ambiente e capitalismo non possano più convivere.
Buona lettura e seguite le prossime puntate.
Soprattutto, non si parla dei problemi enormi che una vera transizione dalle fonti energetiche fossili ad altre – meno inquinanti, ma non del tutto “pulite” – comporta.
Ancor meno, ovviamente, si parla degli interessi contrari che – in regime capitalistico – ostacolano qualsiasi transizione vera e che, a causa dei normali “meccanismi di mercato” sono di fatto dominanti su intenzioni molto pallide e “a favore di telecamera”.
In Europa ne abbiamo avuto un veloce esempio quando Ursula von der Leyen ha annunciato che l’Unione Europea si sarebbe presto data come obbiettivo quello di vietare l’immatricolazione di nuove auto diesel e benzina a partire dal 2035.
Un obbiettivo tutto sommato lontano nel tempo, quasi irrilevante ai fini di ridurre le emissioni climalteranti (resterebbero in circolazione per anni decine di milioni di auto “carbonizzanti”, per non dire del funzionamento del sistema industriale, assai più impattante della circolazione automobilistica), e comunque clamorosamente in ritardo rispetto alle indicazioni proveniente dagli scienziati del settore: meno di dieci anni per non finire in “assetto negativo”, con cambiamenti climatici irreversibili.
Bene, persino questa “modesta proposta” ha ricevuto una sonora pernacchia da parte delle associazioni dei costruttori di auto. Per loro quei tempi sono troppo stretti, metterebbero in discussione i margini di profitto richiedendo investimenti colossali su motorizzazioni diverse (e quali? Elettrico o idrogeno?).
Sul piano globale, però, sembrano ancora più rilevanti gli interessi contrari dei paesi produttori di idrocarburi, autentici rentier – in senso marxiano – cui è stato di fatto fin qui impedito di realizzare un autonomo sistema industriale (dall’uccisione dell’iraniano Mossadeq nel 1953 ai ripetuti attacchi contro il Venezuela oggi) e che dunque sono obbligati a vedere nella “decarbonizzazione” una sentenza di morte.
Un mondo che non va più a gas e petrolio è un mondo dove quei paesi non hanno più entrate, né alternative economiche.
Per i dettagli geopolitici e dinamiche di mercato vi consigliamo un illuminante articolo di Guido Salerno Aletta, apparso su Milano Finanza.
Il ragionamento da fare sulle prospettive della “transizione ecologica” è certamente complesso e vanno ignorate tutte le semplificazioni (anche quelle “ecologiste e di sinistra”, spesso ingenue). Ma appare sempre più evidente come la realtà empirica quotidiana si stia incaricando ogni giorno di dimostrare che ambiente e capitalismo non possano più convivere.
Buona lettura e seguite le prossime puntate.
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L’Opec rialza la testa
L’Opec rialza la testa
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
C’è molto di non detto dietro la recente riunione dell’Opec+, durata appena un’ora, in cui non si sarebbe fatto altro che confermare il già precedentemente deciso aumento della produzione giornaliera, di soli 400 mila barili di petrolio al giorno, rimanendo così ampiamente al di sotto dei livelli pre-crisi.
Il rimaneggiamento delle quote dei singoli Paesi aderenti su cui basare questo incremento – di cui hanno beneficiato non solo pariteticamente l’Arabia Saudita e la Russia, ma anche gli Emirati Arabi Uniti che minacciavano di lasciare il Cartello, e soprattutto il rinnovo del patto Opec+ che andava a scadenza – dimostra che il petrolio avrà ancora un ruolo decisivo nei nuovi equilibri geopolitici che sì stanno determinando nell’Asia centrale dopo il ritiro degli occidentali dall’Afghanistan.
La partita è comunque assai più rilevante: la prospettata decarbonizzazione energetica della produzione. Per i Paesi dell’Opec+ è una morte annunciata.
Sembrano passati secoli da quel 27 novembre 2014, quando a Vienna l’Opec decise di abbattere il prezzo del petrolio, portandolo al di sotto dei 60 dollari al barile, infliggendo così una grave perdita economica soprattutto alla Russia, presente alla riunione in qualità di osservatore.
Era un’ulteriore sanzione, neppure tanto indiretta, che su ispirazione statunitense andava a sanzionare Mosca per via dell’annessione della Crimea verificatasi tra il febbraio e il marzo di quell'anno, al culmine della crisi in Ucraina.
È acqua passata, ormai: Arabia Saudita e Russia sembrano andare pienamente d’accordo nel menare le danze nell’ambito dell’Opec+.
In corso c’è innanzitutto un processo di riequilibrio che vede protagonista l’Arabia Saudita. Alle buone prospettive di cui pare godere il Qatar, che con il suo gas che approvvigionerebbe il Pakistan, cortocircuitando così i due oleodotti alternativi di origine rispettivamente turkmena ed iraniana, Tapi e Ipi, progettati per rifornire sia il Pakistan che l’India passando per l’Afghanistan, ora è Riyad che muove i suoi pezzi, per espandere la sua marcatura nell’area.
Per un verso, interviene direttamente in India attraverso l’acquisizione da parte di Aramco di un 20% delle quote azionarie di Reliance’s, società che opera nel settore della raffinazione.
E sempre Aramco sta progettando insieme alla Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc) la costruzione di un mega impianto petrolchimico nelle vicinanze del porto indiano di Ratnagiri: è un’operazione del valore di 44 miliardi di dollari, da realizzare nell’ambito di un accordo paritario con un consorzio locale composto da Indian oil corporation (Ioc1), Bharat petroleum corporation (Bpcl), e Hindustan petroleum corporation (Hpcl).
La sponda indiana, che tanto aveva sostenuto politicamente ed economicamente il precedente governo afghano presieduto da Ashraf Ghani, appena rifugiatosi ad Abu Dhabi, e che ora sta soffrendo per il ritorno al potere dei talebani, non può essere lasciata scoperta.
La seconda iniziativa saudita è stata assunta subito dopo la decisione dell’Opec+ di aumentare cautamente la produzione giornaliera di greggio, decisione che stava portando al rialzo il prezzo del barile, avendo deluso le aspettative del mercato che aveva scommesso su un più sostenuto recupero: Aramco ha annunciato che ridurrà di un dollaro al barile il prezzo delle sue forniture in Asia.
Nell’alternativa tra l’aumento delle quote di mercato abbassando i prezzi oppure quello dei ricavi unitari mantenendo i prezzi invariati, Riyad non ha avuto dubbi: l’andamento corrente dei prezzi del greggio, attorno ai 70 dollari al barile, non solo soddisfa le sue esigenze finanziarie ma le consente di approfittare al meglio dell’incremento della produzione deciso dall’Opec+.
La Russia di Vladimir Putin, con il completamento del South Stream 2, silenziosamente gongola: ha messo a segno il suo grande obiettivo strategico.
C’è poi il gioco delle compensazioni finanziarie interne, variamente architettate, che consente al sistema Opec+, pur segmentato e disomogeneo al suo interno, di presentarsi in modo unitario rispetto al mercato.
È dunque un blocco di potere che, nonostante l’eterogeneità geopolitica del partecipanti, riesce a far prevale l’interesse economico comune. Cina, Giappone ed India, per non parlare dell’Europa nel suo complesso, sono tra i più grandi consumatori al mondo di prodotti energetici e dunque sensibili alle leve di prezzo e di disponibilità del petrolio e del gas, di cui Arabia Saudita, Russia, Iran e Qatar dispongono in quanto produttori.
La crisi economica globale determinata dalla pandemia, che ha comportato enormi perdite economiche per tutti i Paesi produttori di gas e petrolio, ha ridotto di molto la capacità di convincimento politico che gli Usa avevano in passato nel confronti dell’Arabia Saudita: è stata vana, infatti, la recente richiesta dell’amministrazione Biden di accelerare il ritorno ai livelli produttivi del 2019.
Anche la transizione energetica di cui tanto sì discute, con la decarbonizzazione della produzione e la prospettata messa al bando delle fonti energetiche fossili, ha aperto un baratro insuperabile nei confronti dei Paesi produttori di gas e petrolio.
In un gioco di astute convenienze, non aumenteranno mai il prezzo del barile di petrolio a un livello tale da renderne conveniente la sostituzione con l’energia prodotta da altre fonti alternative, assai meno disponibili e comunque dì molto più costose.
Avendo disponibilità ineguagliabili, manovreranno i prezzi dell’energia fossile a loro piacimento, prolungando all’infinito l’inseguimento, come nella rincorsa di Achille alla tartaruga.
A fronte delle tante fumose e futuribili prospettive energetiche, finalmente sostenibili dal punto di vista ambientale, un unico risultato tangibile è stato finora conseguito: rendere monolitico il blocco dell’Opec+.
Fonte
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