Il capitalismo neoliberista occidentale è in un cul de sac, senza via d’uscita. Ma non è una notizia da prendere con ideologica soddisfazione, disponendosi ad attendere che la Storia faccia giustamente il suo corso.
Il capitalismo neoliberista occidentale è infatti il sistema in cui viviamo tutti noi – da questa parte del mondo – e la sua rovina sarà anche la nostra, se non riusciremo a trovare, nella sua crisi, le chiavi di volta per rovesciare in una rinascita un rovinoso declino.
Per far questo bisogna ragionare di nuovo come rivoluzionari, ossia come soggetti che hanno in testa un modo di produzione al tempo stesso giusto e funzionante, e non solo come “antagonisti” che non vanno oltre la sacrosanta opposizione sistematica al potere oggi dominante.
Ragionamento complesso, che tuttavia può iniziare proprio dagli avvenimenti molto vicini a noi, come la lotta degli operai Gkn, molla che ha scatenato la forbidabile manifestazione di sabato 18, a Firenze.
La Gkn è infatti una storica fabbrica dell’automotive, ossia del settore che per oltre un secolo ha costituito il pilastro centrale del modo di produzione capitalistico, baricentro di innumerevoli altri comparti (dall’acciaio al petrolio dalla chimica all’elettronica), motore di infinite attività dell’“indotto” (dagli accessori alle manutenzioni specialistiche), ragione di progettazione infrastrutturale (dalle autostrade in giù).
La Gkn è entrata non a caso già da luglio nelle analisi sfornate da Econopoly, importante zona pensante del progetto editoriale del Sole24Ore, giornale di proprietà di Confindustria.
Come ci è entrata? Come esempio di una tendenza storica inevitabile: la transizione ecologica costerà milioni di licenziamenti. E per un motivo semplice: un’automobile elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna. E lo stesso vale ovviamente per tutti i processi di manutenzione.
In termini occupazionali, il settore automotive riconvertito all’elettrico avrà tendenzialmente solo il 20% dei lavoratori attualmente impiegati nel produrre auto con motore a combustione interna. Se poi ci aggiungiamo anche le inevitabili ristrutturazioni produttive, che si portano sempre dietro “razionalizzazioni” del processo di lavorazione, i sopravvissuti saranno anche meno del 20%.
Fin qui l’analisi di Econopoly è altamente utile. Bisogna sapere e capire che la lotta per l’ambiente e per arrestare il cambiamento climatico – che sta avendo già adesso conseguenze catastrofiche anche sulla nostra parte di mondo – impone un cambiamento generale del modo di produzione e delle tecnologie produttive, con inevitabili conseguenze nel peso occupazionale delle varie attività.
Questo è il fatto oggettivo con cui bisogna fare i conti. È una rivoluzione industriale, non un “piccolo intoppo” in un sistema che gira in equilibrio.
Il “come” lo si affronta dipende da cosa si vuole ottenere e cosa si pensa sia la questione più importante. Se l’80% degli occupati nei vari ambiti del settore automobilistico divento “inutili”, o si progettano altri settori produttivi (o espansione di quelli esistenti), oppure ci si deve preparare a masse di disoccupati di dimensioni bibliche, tali da far impallidire i vecchi video della crisi del ’29.
I due esperti di Econopoly, per esempio, dimostrano di non interessarsi molto di ambiente e sopravvivenza (anche umana), con una impostazione ideologica che dice molto sul neoliberismo degli ultimi 30 anni:
“questa rivoluzione industriale non funziona come tutte quelle che l’hanno preceduta: non è il progresso a minacciare il futuro dell’auto a combustione bensì le scelte della politica.”
In pratica, detto con altre parole, “i politici” (di Bruxelles, in questo caso) starebbero mettendo a rischio il “naturale sviluppo” del capitalismo con decisioni cervellotiche motivate solo dalla ricerca di consenso tra gli “ambientalisti”. Se invece lasciassero fare ai padroni, che ne sanno (!), tutto andrebbe più lentamente e “naturalmente” verso una equilibrata evoluzione.
Con buona pace del pianeta, degli allarmi degli scienziati, delle trombe d’aria equatoriali che spazzano la pianura padana (!), di incendi, alluvioni, inquinamento, morti, distruzioni, ecc. Quindi, sembrano dire, “se volete un ambiente più pulito, beccatevi i licenziamenti di massa”.
Ovvio che una soluzione socialmente giusta e ambientalmente rispondente alle necessità deve a sua volta essere molto concreta e poco “ideologico-desiderante”, altrimenti le impaurite opinioni pubbliche alle prese con licenziamenti di massa rischiano di finire preda di questi pazzi del neoliberismo che vorrebbero andare avanti come prima, come se niente fosse.
L’analisi di Econopoly è però interessante anche dal punto di vista geopolitico, perché si avverte la preoccupazione per lo spostamento oggettivo verso la Cina del baricentro economico del pianeta.
“La transizione verso la mobilità elettrica ... trasforma le automobili in ‘computer con le ruote’, quindi il cuore tecnologico del veicolo non è più meccanico ma elettronico.
Di conseguenza, il mercato si riorienta automaticamente verso l’Asia, che da vent’anni ha il predominio assoluto nell’elettronica di consumo.
Pechino, in particolare, può contare su due asset strategici ineguagliabili: domina la supply chain delle batterie – il ‘petrolio’ della mobilità elettrica – e può mettere sul piatto un mercato con un potenziale di crescita superiore all’Europa e agli USA messi assieme.
Un mercato, oltretutto, dove per entrare devi dare precise garanzie industriali al governo e in cui, comunque, è sempre meglio essere introdotto da un player nazionale.”
Una situazione che spingerebbe per accordi strategici intelligenti con la Cina, non per un incremento della “competizione”, visto il divario esistente, incolmabile in tempi medio-brevi. Ma naturalmente non è questa l’idea degli industriali “euro-atlantici” e dunque neanche quella dei loro esperti.
Ma questo quadro strategico è importante anche per chi – come i lavoratori della Gkn e di tante altre fabbriche che sono già alle prese con le chiusure o che lo saranno nei prossimi mesi e anni – è costretto ad avanzare proposte realistiche di riconversione industriale tali da conservare-sviluppare il patrimonio di occupazione oggi esistente.
Ci si salva localmente solo se si riesce a pensare a soluzioni valide globalmente.
Il capitalismo neoliberista occidentale è infatti il sistema in cui viviamo tutti noi – da questa parte del mondo – e la sua rovina sarà anche la nostra, se non riusciremo a trovare, nella sua crisi, le chiavi di volta per rovesciare in una rinascita un rovinoso declino.
Per far questo bisogna ragionare di nuovo come rivoluzionari, ossia come soggetti che hanno in testa un modo di produzione al tempo stesso giusto e funzionante, e non solo come “antagonisti” che non vanno oltre la sacrosanta opposizione sistematica al potere oggi dominante.
Ragionamento complesso, che tuttavia può iniziare proprio dagli avvenimenti molto vicini a noi, come la lotta degli operai Gkn, molla che ha scatenato la forbidabile manifestazione di sabato 18, a Firenze.
La Gkn è infatti una storica fabbrica dell’automotive, ossia del settore che per oltre un secolo ha costituito il pilastro centrale del modo di produzione capitalistico, baricentro di innumerevoli altri comparti (dall’acciaio al petrolio dalla chimica all’elettronica), motore di infinite attività dell’“indotto” (dagli accessori alle manutenzioni specialistiche), ragione di progettazione infrastrutturale (dalle autostrade in giù).
La Gkn è entrata non a caso già da luglio nelle analisi sfornate da Econopoly, importante zona pensante del progetto editoriale del Sole24Ore, giornale di proprietà di Confindustria.
Come ci è entrata? Come esempio di una tendenza storica inevitabile: la transizione ecologica costerà milioni di licenziamenti. E per un motivo semplice: un’automobile elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna. E lo stesso vale ovviamente per tutti i processi di manutenzione.
In termini occupazionali, il settore automotive riconvertito all’elettrico avrà tendenzialmente solo il 20% dei lavoratori attualmente impiegati nel produrre auto con motore a combustione interna. Se poi ci aggiungiamo anche le inevitabili ristrutturazioni produttive, che si portano sempre dietro “razionalizzazioni” del processo di lavorazione, i sopravvissuti saranno anche meno del 20%.
Fin qui l’analisi di Econopoly è altamente utile. Bisogna sapere e capire che la lotta per l’ambiente e per arrestare il cambiamento climatico – che sta avendo già adesso conseguenze catastrofiche anche sulla nostra parte di mondo – impone un cambiamento generale del modo di produzione e delle tecnologie produttive, con inevitabili conseguenze nel peso occupazionale delle varie attività.
Questo è il fatto oggettivo con cui bisogna fare i conti. È una rivoluzione industriale, non un “piccolo intoppo” in un sistema che gira in equilibrio.
Il “come” lo si affronta dipende da cosa si vuole ottenere e cosa si pensa sia la questione più importante. Se l’80% degli occupati nei vari ambiti del settore automobilistico divento “inutili”, o si progettano altri settori produttivi (o espansione di quelli esistenti), oppure ci si deve preparare a masse di disoccupati di dimensioni bibliche, tali da far impallidire i vecchi video della crisi del ’29.
I due esperti di Econopoly, per esempio, dimostrano di non interessarsi molto di ambiente e sopravvivenza (anche umana), con una impostazione ideologica che dice molto sul neoliberismo degli ultimi 30 anni:
“questa rivoluzione industriale non funziona come tutte quelle che l’hanno preceduta: non è il progresso a minacciare il futuro dell’auto a combustione bensì le scelte della politica.”
In pratica, detto con altre parole, “i politici” (di Bruxelles, in questo caso) starebbero mettendo a rischio il “naturale sviluppo” del capitalismo con decisioni cervellotiche motivate solo dalla ricerca di consenso tra gli “ambientalisti”. Se invece lasciassero fare ai padroni, che ne sanno (!), tutto andrebbe più lentamente e “naturalmente” verso una equilibrata evoluzione.
Con buona pace del pianeta, degli allarmi degli scienziati, delle trombe d’aria equatoriali che spazzano la pianura padana (!), di incendi, alluvioni, inquinamento, morti, distruzioni, ecc. Quindi, sembrano dire, “se volete un ambiente più pulito, beccatevi i licenziamenti di massa”.
Ovvio che una soluzione socialmente giusta e ambientalmente rispondente alle necessità deve a sua volta essere molto concreta e poco “ideologico-desiderante”, altrimenti le impaurite opinioni pubbliche alle prese con licenziamenti di massa rischiano di finire preda di questi pazzi del neoliberismo che vorrebbero andare avanti come prima, come se niente fosse.
L’analisi di Econopoly è però interessante anche dal punto di vista geopolitico, perché si avverte la preoccupazione per lo spostamento oggettivo verso la Cina del baricentro economico del pianeta.
“La transizione verso la mobilità elettrica ... trasforma le automobili in ‘computer con le ruote’, quindi il cuore tecnologico del veicolo non è più meccanico ma elettronico.
Di conseguenza, il mercato si riorienta automaticamente verso l’Asia, che da vent’anni ha il predominio assoluto nell’elettronica di consumo.
Pechino, in particolare, può contare su due asset strategici ineguagliabili: domina la supply chain delle batterie – il ‘petrolio’ della mobilità elettrica – e può mettere sul piatto un mercato con un potenziale di crescita superiore all’Europa e agli USA messi assieme.
Un mercato, oltretutto, dove per entrare devi dare precise garanzie industriali al governo e in cui, comunque, è sempre meglio essere introdotto da un player nazionale.”
Una situazione che spingerebbe per accordi strategici intelligenti con la Cina, non per un incremento della “competizione”, visto il divario esistente, incolmabile in tempi medio-brevi. Ma naturalmente non è questa l’idea degli industriali “euro-atlantici” e dunque neanche quella dei loro esperti.
Ma questo quadro strategico è importante anche per chi – come i lavoratori della Gkn e di tante altre fabbriche che sono già alle prese con le chiusure o che lo saranno nei prossimi mesi e anni – è costretto ad avanzare proposte realistiche di riconversione industriale tali da conservare-sviluppare il patrimonio di occupazione oggi esistente.
Ci si salva localmente solo se si riesce a pensare a soluzioni valide globalmente.
*****
La banalità della transizione ecologica nell’automotive: i licenziamenti
La banalità della transizione ecologica nell’automotive: i licenziamenti
Econopoly il 23 Luglio 2021
A meno di un mese dal primo allentamento del blocco dei licenziamenti iniziano a fioccare le crisi industriali. In particolare, il settore dell’automotive invia segnali molto preoccupanti: tre stabilimenti hanno già inviato le lettere di licenziamento ai dipendenti e si preparano a chiudere i battenti, molti altri si preparano a farlo nelle prossime settimane o nei prossimi mesi. Ovviamente dietro a queste crisi c’è l’onda lunga della pandemia, che ha ridotto i volumi, poi con il ritorno della domanda (il mercato vive una fase di rimbalzo ma non rivede i livelli del 2019) ha fatto schizzare i costi di produzione. Ma dai bilanci emerge una prospettiva molto più inquietante.
Il caso dell’impianto GKN di Campi Bisenzio, il più grande tra quelli che hanno annunciato la chiusura, è esemplare. Il bilancio di GKN Automotive al 31 dicembre 2020 evidenzia un business apparentemente senza prospettive, che perde milioni ogni anno: lo scorso anno ha chiuso con una pesante riduzione dei ricavi e una perdita sulla gestione caratteristica di quasi 8 milioni di euro, mitigato a 4 milioni dal risultato della gestione accessoria (R&S rifatturata alla società del gruppo) e dalle imposte anticipate.
Peraltro nello stesso bilancio emerge come la società abbia avuto un lungo contenzioso con l’Agenzia delle Entrate, che ha portato all’esborso di oltre 24 milioni di euro, di cui 16,1 milioni rimborsati a seguito di due sentenze della Corte di Cassazione (Link1 e Link2) e 8 milioni ancora pendenti (iscritti in bilancio al 31 dicembre 2020 tra i crediti oltre l’esercizio).
Anche l’altro stabilimento italiano, la GKN Driveline di Brunico, non appare tanto in salute, dato che dall’ultimo bilancio risulta una perdita della gestione caratteristica di oltre 16 milioni, nonostante l’incremento dell’11% dei ricavi, nonostante gli investimenti effettuati e le nuove linee di prodotti sviluppati.
Su una situazione già molto complessa, perciò, piomba come un meteorite la transizione ecologica.
Le crisi di GKN Automotive, Giannetti Ruote e Timken, infatti, mettono a nudo alcune delle illusioni su cui abbiamo costruito la narrativa sulla mobilità elettrica e, più in generale, sulla transizione ecologica.
Che ci fosse un problema dal punto di vista della riconversione industriale e delle prospettive occupazionali, per esempio, era cosa nota.
Un’auto elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna, questo significa un minor fabbisogno di manodopera sia per la produzione che per la manutenzione.
Di conseguenza, gli outlook di settore prevedono che la riconversione dell’industria italiana della componentistica per auto, che impiega circa 600mila persone, potrebbe costare il posto di lavoro a due terzi degli addetti.
Queste prime crisi industriali, però, dimostrano che le aziende chiudono gli stabilimenti “tradizionali” in Italia e aprono quelli “elettrici” in estremo Oriente.
Quindi l’Italia non perde due terzi dei posti di lavoro, li perde tutti.
Come mai?
Il motivo, se vogliamo, è piuttosto banale.
Il nostro Paese ha una lunga tradizione nell’industria del motore a combustione. E non parliamo solamente di marchi storici come Ferrari, Lamborghini, Alfa Romeo, Lancia e Maserati, parliamo di know-how, capacità industriale, brevetti, rapporti privilegiati con i grandi produttori internazionali.
La transizione verso la mobilità elettrica, però, trasforma le automobili in “computer con le ruote”, quindi il cuore tecnologico del veicolo non è più meccanico ma elettronico.
Di conseguenza, il mercato si riorienta automaticamente verso l’Asia, che da vent’anni ha il predominio assoluto nell’elettronica di consumo.
Pechino, in particolare, può contare su due asset strategici ineguagliabili: domina la supply chain delle batterie – il “petrolio” della mobilità elettrica – e può mettere sul piatto un mercato con un potenziale di crescita superiore all’Europa e agli USA messi assieme.
Un mercato, oltretutto, dove per entrare devi dare precise garanzie industriali al governo e in cui, comunque, è sempre meglio essere introdotto da un player nazionale.
Non deve stupire, quindi, che le imprese interessate a entrare nel business della mobilità elettrica e i grandi gruppi automobilistici come Volkswagen, Daimler, Bmw, Renault, facciano a gara per siglare partnership con i colossi cinesi.
Disgraziatamente, l’Italia non solo non fa alcuna politica industriale, seguendo idee altrui che mortificano il nostro interesse nazionale, ma non cerca neanche di diventare attrattiva per gli investimenti, galleggiando al 58° posto della facilità di fare impresa, con una incertezza normativa, amministrativa e giudiziaria a livelli imbarazzanti.
Ovviamente, mettendo sul piatto munifici incentivi pubblici, riusciremo ad agganciare qualche colosso internazionale ma non faremo altro che costruire cattedrali nel deserto, permettendo oltretutto arbitraggi e razzie da parte di imprese straniere.
Ma di certo queste manovre non miglioreranno le prospettive del Paese.
Il settore dell’ automotive, con il suo indotto, in assenza di un’immediata inversione di rotta rischia di fare la fine dei minatori del Galles.
Qualcuno dirà che è colpa dei produttori europei, rimasti indietro rispetto a quelli asiatici. Va molto di moda paragonare la transizione dall’auto tradizionale a quella elettrica con la transizione dalla macchina da scrivere al computer. Il problema, però, è che questa rivoluzione industriale non funziona come tutte quelle che l’hanno preceduta: non è il progresso a minacciare il futuro dell’auto a combustione bensì le scelte della politica.
In poche parole, per la prima volta l’evoluzione tecnologica non è dettata dall’efficienza economica (pur essendo più semplici le auto elettriche sono più costose e meno performanti) ma è imposta per legge dai Parlamenti, nell’assoluta e colpevole mancata analisi delle conseguenze. Perciò, domandarsi che senso abbia incentivare questa transizione industriale non significa mettere in discussione il progresso o, peggio ancora, dubitare della drammaticità della crisi climatica.
Significa semplicemente chiedersi che senso ha aprire un tavolo di crisi ogni volta che chiude un impianto per la produzione di semiassi, cuscinetti a sfera o ruote, quando l’ipocrita narrativa ecologica, che trova la sua massima interpretazione a Bruxelles, genera una politica industriale che inevitabilmente li porterà a chiudere tutti nel giro di pochi anni.
Non per altro, riprendendo il caso GKN, basta analizzare la società Melrose Plc. È la società che agendo come un fondo di private equity controlla la società di Campi Bisenzio, e il cui motto è “buy, improve, sell” (compra, migliora, vendi).
Cosa dovrebbe fare un fondo di investimento se non seguire la narrativa buonista che gli stessi Parlamenti e i vari stakeholder gli impongono?
Analizzando il bilancio (Annual Report 2020) della Melrose plc, il packaging è perfetto: gender compliant, ecosostenibile, straordinariamente e stucchevolmente in linea con il pensiero all’ammasso, compresa la transizione all’auto elettrica.
Il tutto, nella rutilante propaganda infantile di coloro che, dopo aver propalato le feroci banalizzazioni del modello-Greta, ignorandone gli effetti, saranno i primi indignati a salire sulle barricate per protestare contro i licenziamenti, senza realizzare che ne è l’effetto logico.
Gli autori del post sono Stefano Capaccioli, dottore commercialista, fondatore di Coinlex, società di consulenza e network di professionisti sulle criptovalute e soluzioni blockchain, presidente di Assob.it, autore di “Criptoattività, criptovalute e bitcoin”; ed Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice”
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento