Qualcosa si è rotto nelle relazioni transatlantiche. La “vigorosa competizione” di cui ha parlato Joe Biden nella sua relazione all’Assemblea Generale dell’ONU, per gli USA non riguarda solo antagonisti politici e competitor economici consolidati, ma anche “ex alleati” come l’Unione Europea.
Si ridefiniscono le priorità, si riformulano le alleanze “costi quel che costi” e se ne gestiscono le conseguenze, devono aver pensato a Washington. E dopo il ritiro precipitoso da Kabul, senza coordinamento con i partner occidentali, l’Aukus, è il secondo esempio tangibile di questo modus operandi.
Nel caso della Gran Bretagna post-brexit, la cosa è ancora più chiara, perché questa spregiudicatezza interessa quell’edificio politico-economico di cui si era parte, l’Unione Europea, e contro cui ora si entra in rotta di collisione. Il sogno di Londra di una Global Britain è anche questo, poco importa se si fa uno sgambetto alla Vecchia Europa.
Bruxelles si ritrova in un cul-de-sac che, volente o nolente, la spinge a ripensarsi, cioè a fare l’ennesimo salto in avanti nel suo processo di integrazione.
La Nato, faticherà a divenire la camera di compensazione delle continue frizioni che si stanno creando al proprio interno, e che sfarinano una cornice di alleanze che sembra modificarsi in differenti partnership “a geometria variabile”.
Il campismo euroatlantico è sempre meno una bussola per la comprensione delle relazioni internazionali, anche per il personale diplomatico stesso, ed è formula vuota buona solo per le “narrazioni” ad uso e consumo dei media nostrani.
La dinamica a cui assistiamo è una risposta al declino dell’egemonia statunitense che si gioca il “tutto per tutto” nel contenimento della Cina e nel contrasto alla Russia, per rilanciarsi come principale attore mondiale.
“L’America è tornata”, aveva detto Biden agli europei, ma non nel senso auspicato dagli atlantisti di casa nostra. Poco importa, quindi, se tale dinamica macina le relazioni coltivate in precedenza, nel “furto tra ladri” che caratterizza quella che la Von der Leyen ha definito più prosaicamente, nel suo discorso all’Unione, “iper-competitività“.
Poi è chiaro che le narrazioni al popolino da parte della stampa nostrana devono relativizzare le spaccature che si stanno verificando e la discontinuità con cui si stanno riconfigurando i rapporti, per non disturbare il manovratore ed i suoi equilibrismi tra Washington e Bruxelles, veri artefici della nostra politica estera.
Anche per questo abbiamo tradotto l'articolo seguente, tra i primi di una serie che il quotidiano britannico dedica alla questione dell’Indo-pacifico.
Buona lettura.
Si ridefiniscono le priorità, si riformulano le alleanze “costi quel che costi” e se ne gestiscono le conseguenze, devono aver pensato a Washington. E dopo il ritiro precipitoso da Kabul, senza coordinamento con i partner occidentali, l’Aukus, è il secondo esempio tangibile di questo modus operandi.
Nel caso della Gran Bretagna post-brexit, la cosa è ancora più chiara, perché questa spregiudicatezza interessa quell’edificio politico-economico di cui si era parte, l’Unione Europea, e contro cui ora si entra in rotta di collisione. Il sogno di Londra di una Global Britain è anche questo, poco importa se si fa uno sgambetto alla Vecchia Europa.
Bruxelles si ritrova in un cul-de-sac che, volente o nolente, la spinge a ripensarsi, cioè a fare l’ennesimo salto in avanti nel suo processo di integrazione.
La Nato, faticherà a divenire la camera di compensazione delle continue frizioni che si stanno creando al proprio interno, e che sfarinano una cornice di alleanze che sembra modificarsi in differenti partnership “a geometria variabile”.
Il campismo euroatlantico è sempre meno una bussola per la comprensione delle relazioni internazionali, anche per il personale diplomatico stesso, ed è formula vuota buona solo per le “narrazioni” ad uso e consumo dei media nostrani.
La dinamica a cui assistiamo è una risposta al declino dell’egemonia statunitense che si gioca il “tutto per tutto” nel contenimento della Cina e nel contrasto alla Russia, per rilanciarsi come principale attore mondiale.
“L’America è tornata”, aveva detto Biden agli europei, ma non nel senso auspicato dagli atlantisti di casa nostra. Poco importa, quindi, se tale dinamica macina le relazioni coltivate in precedenza, nel “furto tra ladri” che caratterizza quella che la Von der Leyen ha definito più prosaicamente, nel suo discorso all’Unione, “iper-competitività“.
Poi è chiaro che le narrazioni al popolino da parte della stampa nostrana devono relativizzare le spaccature che si stanno verificando e la discontinuità con cui si stanno riconfigurando i rapporti, per non disturbare il manovratore ed i suoi equilibrismi tra Washington e Bruxelles, veri artefici della nostra politica estera.
Anche per questo abbiamo tradotto l'articolo seguente, tra i primi di una serie che il quotidiano britannico dedica alla questione dell’Indo-pacifico.
Buona lettura.
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di Patrick Wintour - The Guardian
La Furia di Parigi, dopo la decisione dell’Australia di affossare il piano di comprare una flotta di sottomarini francesi, non è solo una situazione caotica generata da un contratto di difesa, surplus di costi e specifiche tecniche, ma rende discutibile l’alleanza transatlantica che dovrebbe affrontare la Cina.
L’accordo Aukus ha fatto ribollire il sangue alla classe dirigente francese per lo stile unilaterale trumpiano di Biden, il voltafaccia australiano e la solita perfidia britannica. “Nulla è stato fatto parlando male alle spalle di qualcuno“, ha affermato il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, tentando di calmare le acque. Ma questo non è il punto di vista francese: “Questa è una grande delusione“, ha detto Florence Parly, la ministra della difesa francese.
Di recente, ad agosto, Parly aveva incontrato il suo omologo australiano, Peter Dutton, a Parigi, e hanno poi pubblicato un lungo comunicato congiunto sottolineando l’importanza del proprio lavoro insieme sui sottomarini come parte di una più ampia strategia di contenere la Cina nella regione Indo-Pacifica.
Data la mancata comunicazione di trattative segrete con gli Stati Uniti da parte di Dutton alla sua omologa francese, le uniche conclusioni potrebbero essere che Dutton possa esserne rimasto escluso, se ne fosse dimenticato o abbia deciso di non comunicare quel che sapeva.
Non c’è stato alcun preavviso. La Francia ha solo sentito tramite voci sui media australiani che il proprio accordo sarebbe stato stracciato in una videoconferenza tra la Casa Bianca, Canberra e Londra.
In più, la mossa non è stata presentata come un cambiamento all’improvviso da sottomarini a diesel-elettrici che la Francia stava costruendo a vascelli nucleari a lunga autonomia, ma come parti di un patto di sicurezza a tre teste per la regione che sviluppi nuove tecnologie.
Qualcuno ha quindi pensato che la Francia non possa essere abbastanza fidata per entrare in questa alleanza. Possibile ci fossero questioni delicate riguardo rapporti sulle tecnologie di propulsioni nucleari tra USA e UK ed altre aree di cooperazione, come ad esempio droni sottomarini, intelligenza artificiale e la computazione quantistica.
Oltre il danno, pure la beffa: Biden ha fatto uscire il proprio annuncio il giorno prima che l’Unione Europea doveva render nota la propria politica nell’Indo-Pacifico, ormai programmata da tempo. L’UE dice di non essere stato consultata prima, nonostante funzionari a Washington dicano il contrario.
L’Australia afferma di aver dato ampi avvertimenti sul fatto che ritardi di progettazione avrebbero potuto portare a guardare altrove da settembre, ed infatti al Naval Group francese è stato dato tempo fino a settembre per rivedere i propri piani per i prossimi due anni del progetto.
Ma in realtà l’Australia stava già lavorando ad un ‘piano B’ con gli Stati Uniti. Agli occhi francesi, Biden ha mostrato, e non per la prima volta, che metterà gli interessi americani avanti a tutto.
Il linguaggio proveniente da Jean-Yves Le Drian, ex ministro degli esteri francesi e l’uomo dietro l’accordo del 2016 con l’Australia, è senza precedenti: “Questa decisione così brutale, unilaterale e imprevedibile mi ha ricordato quel che Trump faceva. Sono arrabbiato e amareggiato. Questo non è stato fatto tra alleati. Questa è una pugnalata alla schiena.”
Anche Emmanuel Macron sarà avvelenato. Ha ricevuto Scott Morrison, il primo ministro australiano, il 15 giugno all’Eliseo, parlando del contratto dei 12 sottomarini come “un pilastro della partnership e della relazione di fiducia tra i due paesi. Questo programma è basato sul trasferimento di know how e tecnologie e ci unirà per i decenni a venire.”
Arrivato dopo l’uscita maldestra degli Stati Uniti dall’Afghanistan – un’operazione NATO in cui gli alleati hanno avuto ben poca voce in capitolo – la Francia e l’Unione Europea sono arrivate a dover accettare che Biden non era proprio quel che sembrava dopo essere arrivato a Bruxelles dicendo che “l’America è tornata”.
Senza dubbio gli Stati Uniti pensano che l’ira francese si placherà, oppure è solo un fuoco d’artificio in vista delle prossime elezioni presidenziali. La Francia è un importante esportare di armi, e la perdita di 10 miliardi di euro circa, incluse clausole penali, scalfisce a malapena la sua l’industria.
Una visita di stato a Washington di Macron, qualche contratto diretto al Naval Group di Cherbourg, un po’ di charme di Biden, una rassicurazione che questa è stata totalmente un’operazione militare australiana basata su una stravolta valutazione della minaccia, e tutto può tornare a filare liscio come l’olio.
Ma questo non è il tipo di linguaggio che proviene da Parigi o Bruxelles. La Francia sottolinea il fatto che i motori sono stati basati sul diesel proprio su richiesta dell’Australia e avrebbe potuto offrirne degli altri a propulsione nucleare.
Ma l’esclusione della Francia mostra quanto gli Stati Uniti non le diano fiducia sul nucleare. Questa è una grande vittoria per Boris Johnson, e tutti coloro i quali dicevano che una Gran Bretagna post-Brexit avrebbe avuto più valore per gli Stati Uniti che per l’Unione Europea, nonostante questo possa allarmare le lobby pro-Cina nel Regno Unito.
Macron non ha altre opzioni che riaffermare la necessità di una più grande autonomia strategica difensiva europea, una materia meno evidenziata dalla realtà che dai seminari che la studiano.
La Presidentessa della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen, ha promesso mercoledì nel suo discorso sullo stato dell’Unione un summit sulla difesa europea, affermando che l’Europa deve acquisire la volontà politica di costruire e mandare sul campo le proprie risorse militari.
Ufficiali americani di alto livello sembrano non essersi resi conto dell’offesa che l’accordo Aukus avrebbe arrecato, dicendo blandamente che l’alleanza “non intende solo migliorare le nostre capacità nell’Indo-Pacifico, ma anche coinvolgere l’Europa, specialmente il Regno Unito, più da vicino nelle nostre strategie nella regione.”
Se fosse saggio, Washington lavorerebbe a convincere la Francia di poter essere un partner nell’Indo-Pacifico. Se così non fosse, l’unico beneficiario sarà la Cina.
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